Quartetto pazzo, La vispa Teresa, La vita ricomincia e Partenza ore 7: l’alba di un nuovo mondo (1944-45)
Il prof. Guido Salvini, docente presso la regia Accademia Nazionale d’Arte Drammatica (1938-44), più esperto di cose teatrali che filmiche, si dedica saltuariamente alla regia cinematografica. Nei mesi
seguenti l’8 settembre, nella Roma occupata dai nazisti, gira di nascosto (ovvero senza i regolari permessi delle autorità) Quartetto pazzo
(agosto 1945; 75 min.), una bizzarra commedia teatrale, scritta (sembra) dallo svedese Ernst Eklund (in futuro noto soprattutto per l’attività di attore) che si avvale dell’apporto di un cast eccezionale: Anna Magnani (doppiata da Tina Lattanzi), Rina Morelli, Gino Cervi e Paolo Stoppa.
La vicenda è presto detta: in un appartamento situato in località imprecisata, due dinamiche e intraprendenti sorelle cercano di conquistare due partner maschili sciocconi e fatui. La Magnani deve convincere l’ex marito
Cervi a riprendere la loro vita coniugale (l’uomo - un esploratore da operetta - ha lasciato la moglie quattro anni prima e ora pretende il divorzio per sposare un’esploratrice... ); la Morelli cerca di stringere il cappio
intorno al collo dello scapolo Stoppa, il quale preferirebbe cominciare con una convivenza di prova. Le due donne avranno facilmente la meglio sui due imbranati compagni. Il film - di nessun spessore artistico (un tedioso
spettacolo teatrale trascritto in immagini) - è invece assai sintomatico dei tempi nuovi. Si può cogliere nella ambigua operazione tutta la disperazione di una classe artistica in procinto di “cambiare padrone” e quindi
desiderosa di far dimenticare le decine di opere allineate agli ideali del fascismo. Ecco dunque un film che avrebbe avuto più problemi con la censura di quanti non ne ebbe il celebre Ossessione (Visconti, 1943): due donne emancipate e intraprendenti, femminili e moderne negli abiti (la Magnani sfoggia un abito semitrasparente, la Morelli porta i pantaloni) e maschili negli atteggiamenti si confrontano con due balordi che si limitano a balbettare qualche timida frase di circostanza prima di capitolare.
L’era semimatriarcale, che si intuisce nell’universo dello spettacolo americano, muove ora i primi passi italiani. Le due protagoniste - lungi dal rappresentare devote mogliettine dedite alla casa e alla figliolanza - si
muovono come vere e astute padrone della scena nella quale si discute di argomenti semiproibiti (dal regime) quali divorzio e convivenza, nonché si allude al matrimonio come a un’esplicita trappola nella quale ingabbiare i
malcapitati uomini. A questi ultimi - esseri deboli, ridicoli (Cervi intona assurdi canti africani e si muove spesso in modo “scimmiesco”) e infinitamente lontani dal modello fascista dell’individuo forte, concreto e deciso
(modello che Cervi aveva più volte interpretato) - non resta che rifugiarsi nell’alcool prima di ammettere la propria inferiorità. Uscito solo nell’estate del 1945, Quartetto pazzo rovescia gli abituali equilibri nel rapporto uomo - donna (in ciò consiste la “pazzia” citata dal titolo) e rappresenta quindi uno dei primi tentativi della cinematografia italiana di cambiar pelle e di aderire ai valori della “modernità”.
La vispa Teresa (settembre 1944; 84. min.), brillante commedia degli equivoci scritta da Aldo De Benedetti e dal regista Mario Mattoli, è una delle prime pellicole italiane a uscire nelle sale di Roma nel nuovo clima determinato dalla presenza americana. A uno sguardo superficiale il film sembra assomigliare agli “inoffensivi” lavori degli anni trenta: Alberto (Roberto Villa), figlio di una ricca famiglia altoborghese, vuole sposare una sensuale manicure (Vera Carmi); la famiglia inorridita provvede ad allontanarla dal figlio, ma in realtà sbaglia persona e se la prende con Teresa, una ragazza (Lilia Silvi) che, a sua volta, è fidanzata con un differente Alberto (un bravissimo Tino Scotti). Sorgono malintesi a non finire, scanditi da un ritmo vorticoso; dopo numerose pagine esilaranti, in larga parte determinate dalla maschera inebetita del secondo Alberto, tutto si risolve in modo favolistico: il ricco Alberto sposerà sul serio la seconda manicure mentre suo padre (Carlo Ninchi), per uno strano gioco di incastri, si appresta a diventare l’amante della prima.
Le novità sono molte e non solo esteriori come ad esempio la presenza di sincopate musiche americane. Intanto la visione del nucleo altoborghese non passa attraverso il consueto atteggiamento di disprezzo, tipico del cinema
fascista degli anni precedenti; al contrario il capofamiglia è ritratto come un energico capo d’industria vicino al modello attivistico statunitense e soprattutto il fatto inedito consiste nel suo muoversi in direzioni
decisamente “immorali”, estranee al cinema di regime. La vera novità è dunque l’episodio “ferroviario” nel quale il ricco signore incontra per caso la prima fidanzata del figlio, una fanciulla dai facili costumi assai vicina
alla prostituzione, e la adesca sotto gli occhi assai distratti della moglie. In seguito la foto con numero di telefono della giovane cade sotto gli occhi di Alberto il quale capisce la manovra del padre e sogghigna mentre
quest’ultimo, impacciato, finge di nulla. Questo episodio anticipa le situazioni della commedia italiana degli anni sessanta e perfino di quella erotica del decennio seguente: ciò che appare già palese, fin da quell’autunno
1944, è la capacità del cinema di insinuare il desiderio, di giustificarlo a discapito dell’istituto familiare visto ora come un ferrovecchio necessario e tedioso. Mattoli e De Benedetti decisamente voltano pagina rispetto alla
politica cultura fascista permeata dal sacro rispetto nei confronti del nucleo familiare. Certo anche il viscontiano Ossessione (1943) guardava con favore a una tresca e alla dissoluzione della famiglia ma in quel caso si trattava di un dramma giallo con tanto di castigo conclusivo. Ora invece appare evidente il tono di complicità compiaciuta che accompagna i gesti di Carlo Ninchi: un’epoca differente incomincia sotto il segno dell’edonismo, tanto più che la moralistica politica culturale democristiana, per molti aspetti continuista rispetto a quella mussoliniana, si affermerà solo qualche anno dopo.
Per ciò che riguarda le classi popolari permane ovviamente quel sentimento di simpatia calorosa che il nuovo cinema, resistenziale e non, eredita dal quello fascista, anche se si ostina a fingere radicalmente diverso.
Fascismo e comunismo sono accomunati da una visione squisitamente populistica della realtà sociale.
Nella primavera 1945 Mattoli gira La vita ricomincia
(ottobre 1945; 86 min.) su sceneggiatura propria e di Aldo De Benedetti, pellicola che rappresenta, con altre, l’Italia al festival di Locarno. Fosco Giachetti e Alida Valli, la coppia di amanti “sovietici” di Noi vivi (Alessandrini, 1942), dà corpo a un nuovo, intenso melodramma cinematografico compiutamente calato nell’atmosfera relativamente serena dell’immediato dopoguerra. Numerose sono le ferite aperte, visibili e invisibili, e il regista riesce a dar conto di entrambe con impagabile, misurata sensibilità, nonché con un occhio attento a registrare fatti ed eventi in modo lineare e freddo, sottoponendole al sereno giudizio dello spettatore. Il lavoro di Mattoli non è un ostile riesame politico del passato bensì un affresco denso di chiaroscuri, ma complessivamente ottimistico, intorno a un popolo che si appresta a “ricostruire” la propria dimora sulle rovine esteriori e “interiori” generate dal conflitto e dalla guerra civile. E’ un lavoro pregevole che non ha trovato la giusta eco poiché in esso si parla del dramma dei reduci (argomento imbarazzante per le nuove forze politiche), si allude con coraggio ai guasti della presenza americana (laddove i film resistenziali esaltano in modo acritico l’operato degli Alleati), si guarda con simpatia a una nuova classe di popolani e piccolo borghesi che si arrangia con fantasia e buoni esiti commerciali e infine si costruisce con questi elementi un perfetto, coinvolgente meccanismo narrativo di “vecchia scuola”. Si tratta insomma di un film animato da una visione moderato-centrista. Se a ciò si aggiunge che l’autore è uno dei principali protagonisti della cinematografia del passato regime (non diversamente, peraltro, dai vari De Sica, Rossellini e Vergano) si può notare che nel lavoro ci sono tutti gli elementi atti a fare imbestialire la nascente “nomenclatura neorealista” (Spinazzola ad esempio lo definisce “opera di levatura modesta”). Così il film, colto un notevole successo (è il secondo per incassi in quel 1945), viene rapidamente dimenticato.
La vita ricomincia però piace agli americani: la MGM lo acquista e lo fa uscire nelle sale newyorchesi nel 1947. E’ merito di questo film se il produttore David O. Selznick impone a un Alfred Hitckcock poco convinto Alida Valli per il ruolo principale di The Paradine Case (1947) nel quale l’attrice italiana recita con Gregory Peck e Charles Laughton ancora nel ruolo di un’assassina. In seguito la Valli interpreta quattro film a Hollywood (1947-50), esperienza che tuttavia si rivela complessivamente negativa, costringendola a tornare sui set europei.
Paolo Martini, dopo sei anni di guerra (alcuni passati come prigioniero nei campi inglesi in India), torna a Roma e trova moglie e figlio ad attenderlo. C’è anche un simpatico vicino di casa, il
professore (un ottimo Eduardo De Filippo), a cui è affidato il compito di saggio commentatore delle amare vicende passate e presenti. Rovine paurose (Cassino e l’abbazia di Montecassino distrutte dai bombardamenti alleati) e un
antipatico posto di blocco americano sono l’inquieto prologo del rientro al quale vanno aggiunte alcune sagaci battute antialleate proposte dal celebre commediografo napoletano. La normalità sembra lentamente riprendere il
proprio corso senonché il comportamento ambiguo della moglie, Patrizia Martini (Alida Valli), sfocia in modo inatteso in un delitto consumato nella ricca abitazione di un oscuro, potente personaggio. Si scopre allora che negli
anni più bui della guerra la donna, per salvare il figlio gravemente ammalato e pagargli una costosa operazione, si era concessa a costui il quale, avendola rivista col marito, minacciava ora di raccontare l’accaduto al fine di
poterla possedere una seconda volta; si giunge così all’incontro segreto dei due che si conclude con la morte dell’uomo, ucciso dalla Martini nel tentativo di difendersi. La situazione familiare crolla; il reduce cerca comunque
di aiutare la moglie che infatti viene assolta. A quel punto però vorrebbe lasciarla, essendo incapace di superare il tradimento subito. Sarà allora il commosso discorso dell’amico professore a convincerlo che è tempo di
perdonare, comprendere e “ricostruire” l’edificio gravemente “lesionato” dei propri affetti familiari. L’uomo capisce e la pellicola termina con il gruppo a tavola che cerca di “ricominciare a vivere”. Le difficili
problematiche del dopoguerra vengono affrontate con misura e realismo in un raccconto completamente centrato sulla dimensione privata. Senza eccedere negli effetti patetici, con una narrazione scandita da un ritmo celere ed
essenziale, Mattoli esamina un difficile caso di coscienza osservando i suoi personaggi con il necessario distacco. La guerra diviene allora la sciagura che ha dissolto i nuclei familiari e reso i deboli più deboli, spesso
inermi vittime dei potenti. Questa angosciosa, lacerante forbice ha generato vicende torbide e morbose, rendendo possibile l’impossibile. Una donna, rimasta sola e senza aiuti, si sacrifica per il benessere del proprio figlio e
deve soggiacere al volere del più forte mentre il reduce, smarrito e sradicato, tornato in una patria differente da quella che aveva lasciato sei anni prima, non solo non trova alcuna comprensione avendo preso parte a una
guerra ora giudicata ingiusta, ma deve subire il tradimento e l’abbandono come eventi resi inevitabili dalla situazione complessiva. Tutto ciò è descritto con toni sapienti e controllati da un regista che ha scelto in De
Filippo il proprio alter ego: è quest’ultimo, che tra l’altro ha perso moglie e figlia in un bombardamento a Napoli, a tracciare la via e ricordare che il peggio è oramai alle spalle e si tratta ora solo di essere in grado di
superarlo a livello mentale. D’altronde lo scenario globale non è affatto drammatico, come nella maggior parte dei film “neorealisti”: faccendieri più o meno onesti (ma su ciò è evidente il tono di complicità dell’autore)
riescono comunque a tirare avanti con piccoli e grossi traffici, dandosi da fare alle spalle della polizia americana. Ci sono nuovamente le bische (già mostrate da Bonnard in Campo de’ Fiori, 1943) segno ambiguo e
tuttavia positivo di una ripresa economica, i trasportatori senza scrupoli, le ditte farmaceutiche trasformate in magazzini di alcolici: l’italica arte di arrangiarsi trova le giuste note nel piccolo affresco di Mattoli.
Nell’ambito del dramma privato invece i toni sono quelli accorati e contorti dell’ottimo Stasera niente di nuovo (Mattoli, 1942) sempre con Alida Valli: come allora una fotografia dai toni contrastati e scuri illumina le
figure nei momenti più difficili mentre la colonna sonora si affida nuovamente a ricordi del teatro lirico (nel film precedente si trattava di Traviata e Lucia di Lammermoor) utilizzando con mano sicura e senza
esasperazioni il celebre tema dell’ouverture verdiana della Forza del destino (1862) per commentare il vortice in cui va pecipitando, senza possibilità di uscita, la donna mentre alle note malinconiche del famoso Studio op 10 n. 3 (trascritto
per orchestra) di Chopin è affidato il compito di accompagnare i momenti della compassione e dell’intimo dolore. Come sempre l’antica tradizione lirica-romantica partecipa agli esiti migliori della nuova arte cinematografica
italiana.
Il successivo, sottovalutato Partenza ore 7 (dicembre 1945; 90 min.) torna ai toni allegri e farseschi de La vispa Teresa (vi si ritrova infatti Tino Scotti), ma lo fa inserendo una visione della società italiana nettamente antitetica a quella prevalente sotto il regime. Solo in superficie questo lavoro può sembrare la fotocopia di tante allegre commediole di qualche anno prima. Il merito (o la colpa, a seconda dei punti di vista) non è attribuibile al solo Mattoli; larga parte dell’invenzione dei personaggi e delle situzioni va attribuita anche agli sceneggiatori Pietro Garinei, Sandro Giovannini e Aldo De Benedetti (quest’ultimo autore anche dei copioni de La vispa Teresa e de La vita ricomincia)
e soprattutto della laicissima casa di produzione, la torinese Lux Film. Ambientato nel mondo della rivista e dell’avanspettacolo, il film racconta le disavventure di Chiaretta Fumagalli (Chiaretta Gelli), scappata di casa
contro il volere paterno per unirsi ai simpatici girovaghi guidati da Carlo Campanini (nella parte di se stesso). La giovane aspira al ruolo di primadonna e possiede anche un certo talento canoro, tuttavia Lucy d’Orsay (Laura
Gore), attuale protagonista dello spettacolo, non è facile da spodestare. Nel frattempo la ragazza è raggiunta a Novara dal fidanzato (Tino Scotti) il quale, compresa la situazione, pur di riuscire a riportarla a casa (e quindi
a sposarla, riconducendola nell’alveo della “normalità”) paga il capoclaque perché fischi Chiaretta. Delusa e rattristata la giovane acconsente e abbandona le scene. A casa la attende un padre (con fucile) iracondo e lo zio
prete i quali, dopo averle fatto la predica di rito, la riaccolgono e ne lodano la saggia scelta. Ovviamente il film dipinge una Chiaretta frustrata e spenta all’idea di incamminarsi verso una grigia vita “regolare” e una
famiglia ottusa e gretta, la quale vede nel teatro poco meno del diavolo. Gli autori ne approfittano anche per dipingere una meschina figura pretesca, facendo così emergere una inedita (per l’epoca) vena anticlericale. La
brillante pellicola si sviluppa poi tra fantasiosi ed esilaranti espedienti farseschi (l’intera compagnia girovaga in mutande a casa di Chiaretta, con generose esibizioni di seni, appena velati; la galleria dei sosia di
Campanini pronti a prenderne il posto sul palcoscenico per una recita torinese) e termina, come prevedibile, con Chiaretta acclamata sul palcoscenico nonché con un nuovo fidanzato che aveva prudentemente (in modo peraltro
disonesto) tenuto nascosto al povero Scotti. La novità rivoluzionaria consiste dunque nel disegnare un differente tipo femminile, tipo già accennato con prudenza in qualche pellicola del periodo fascista dalla casa Lux (si
veda l’ambizione teatrale di Oliva in Violette nei capelli, Bragaglia, 1942) e ora invece proposto quale nuovo archetipo di donna emancipata a scapito della visione clerico-familiare della donna madre e moglie. Continua
pertanto la proposta mattoliniana di scelte inedite, poste sotto il segno di un individualistico edonismo (si ricordi la figura di Ninchi a caccia di amanti in La vispa teresa), descritte con evidente, compiaciuta
complicità. Nell’Italia “americana” per la quale i vincitori hanno progettato un futuro “consumista” (a favore delle loro potenti multinazionali), queste scelte narrative, proposte entro pellicole di largo consumo popolare,
posseggono una notevole capacità d’influenza nel disegnare nuovi tipi umani, influenza che nessuna “grande opera” neorealista può neppure lontanamente sognarsi di avere (soprattutto in riferimento allo scarso riscontro popolare
ottenuto da quel genere filmico). Emancipazione femminile, nuove esigenze individuali, dissolvimento del nucleo familiare quale entità definitiva e trionfo della società della competizione, del lavoro ossessivo e dei beni
durevoli posti quale nuove, ambite mete sono aspetti strettamente legati di una trasformazione in atto. Le farse di Mattoli e De Benedetti propongono insomma “un mondo nuovo”.
|
|