Ladri di biciclette, Gioventù perduta e Una lettera all'alba

Ladri di biciclette, Gioventù perduta e Una lettera all'alba: necessità e vocazione (1948)

                "De Sica e Zavattini hanno fatto passare il neorealismo dalla Resistenza alla Rivoluzione
                (A. Bazin, De Sica regista)

                "Senza quattrini la vita è inutile"
                (Stefano Manfredi, Gioventu' perduta
                )

Alla vigilia della grande scelta il papa interviene con forza nelle cose politiche, promette la scomunica per chi vota Fronte Popolare e invita a non dare l'assoluzione a chi simpatizza con i comunisti poiché "le dottrine materialistiche e atee del comunismo sono inconciliabili con la fede" (Pio XII). L'azione cattolica guidata da Gedda crea i Comitati civici, organismi locali che coordinano il lavoro di tutte le forze religiose in campo al fine di orientare il consenso. Un notevole flusso di denaro e aiuti di ogni genere proviene poi dagli USA in aperto sostegno alla causa democristiana mentre le facili critiche del PCI alla conseguente perdita di sovranità nazionale (Togliatti parla di politica da "lustrascarpe" dei dirigenti politici della parte avversa), per quanto fondata, è risibile in quanto proposta da un partito legato mani e piedi al Cominform moscovita. Accanto alla carota c'e' comunque il bastone: il governo americano minaccia apertamente la sospensione di ogni forma di sostegno all'Italia in caso di vittoria delle sinistre; inoltre Truman afferma minaccioso che se "la libertà e l'indipendenza in Italia saranno minacciate, l'America dovrà intervenire". Le elezioni dell'aprile '48 avvengono insomma nel contesto internazionale blindato della spartizione di Jalta.
In fondo esse divengono quasi un referendum tra sistema americano e sovietico: del primo le masse apprezzano il benessere consumista di cui cominciano ad assaggiare qualche anticipo mentre del secondo, esaltato acriticamente dal Fronte popolare nel quale il PCI parla di necessaria obbedienza alle direttive staliniane, cominciano a circolare anche notizie allarmanti intorno ai metodi dittatoriali di governo, confermati proprio nel febbraio '48 dal colpo di stato comunista in Cecoslovacchia che esclude dal governo i partiti borghesi. Sebbene le sinistre parlino di rivoluzione popolare contro presunte cospirazioni reazionarie, la convinzione che all'est predomini un sistema politico totalitario e per giunta economicamente arretrato, si diffonde con effetti devastanti per PCI e PSI. Il 18 aprile la DC stravince con il 48% dei consensi mentre il Fronte si ferma al 31%. Inizia l'era del lungo predominio democristiano che durera' fino alla "rivoluzione" giudiziaria dei primi anni novanta.
Nel maggio viene eletto presidente Luigi Einaudi con i voti democristiani: il partito cattolico di maggioranza divide il potere con il rappresentante della finanza laica e liberista, collegata al mondo anglosassone mentre dopo la vittoria elettorale il quinto governo De Gasperi nasce con l'apporto significativo dei piccoli partiti di centro (PRI, PSLI e PLI), poco amati dal Vaticano che li considera (non a torto) "anticlericali". L'epoca del centrismo appare, fin dall'origine, un'attenta e solida combinazione di forze cristiane e laico-massoniche.
Il terzo evento di rilievo del 1948 è l'inatteso attentato a Togliatti: il 14 luglio Antonio Pallante, un giovane (nato nel 1923) che studia legge a Catania, spara quattro colpi di pistola al leader comunista mentre quest’ultimo sta uscendo dal Parlamento. L'Italia si ferma con il fiato sospeso: da piu' parti (Genova, Livorno, Torino, Monte Amiata) sorgono disordini spontanei di natura prerivoluzionaria che causano non poche vittime (il bilancio definitivo si aggira intorno ai 16 morti di cui 9 appartenenti alle forze dell'ordine e oltre 200 feriti; ma sui numeri le fonti sono discordanti). Il PCI tuttavia non cavalca l'episodio ed evita di tentare una presa del potere che si sarebbe tradotta in guerra civile con il probabile intervento anche delle forze militari alleate mentre Scelba impartisce ordini durissimi a questori e prefetti affinche' venga repressa ogni forma di insurrezione. La CGIL guidata da Giuseppe Di Vittorio dichiara sciopero a oltranza (le fabbriche tra cui la FIAT dove Valletta e' ostaggio delle maestranze vengono occupate) nella speranza di far cadere il governo, ma di fronte all'aut-aut del ministro degli interni, pronto a sospendere l'iniziativa anticostituzionale con la forza, cede dopo pochi giorni. Un effetto di tale avventurosa iniziativa è la fuoriuscita dei sindacalisti cattolici, già da tempo a disagio nell'organizzazione a prevalenza comunista: nasce così la Libera CGIL di Giulio Pastore (ottobre 1948) che dall'aprile 1950 prenderà il nome di CISL e contera' su oltre un milione di iscritti, una cifra considerevole anche se la CGIL, con i suoi cinque milioni di lavoratori, rimarrà di gran lunga il sindacato piu' importante.
Intorno all'iniziativa di Pallante l'indagine frettolosa e imbarazzata delle autorità conferma l'ipotesi del gesto folle di un isolato. I vertici del PCI però non ne sono convinti e sospettano un complotto CIA (gli americani hanno steso una lista nera di dirigenti comunisti pericolosi e Togliatti figura ai primi posti)-mafia (fornitrice di manovalanza): se così fosse, da fatto marginale e gratuito, l'attentato andrebbe invece collocato all'interno della storia della guerra fredda. Nell'estate '48, per conto di Secchia e Longo, il giornalista dell'Unità Alberto Jacoviello indaga in Sicilia e altrove, constata l'appartenenza dell'attentatore ad ambienti missini senza però trovare prove significative della presenza di mandanti occulti. L'ipotesi rimane tale ed e' certamente suggestiva anche perché evoca le forze in campo nel successivo complotto (sostenuto questo dal riscontro di ampie prove indiziarie) che causera' la morte di Enrico Mattei (novembre 1962) il cui aereo, probabilmente sabotato, decollerà proprio da Catania. Inoltre l'epoca del terrore stragista (1969-74) si basera' sull'alleanza tra servizi americani e settori estremi della destra, noti (anche se ufficialmente "scomunicati") alla dirigenza del MSI. L'operazione Pallante potrebbe verosimilmente costituire un primo esempio in tale direzione. Non bisogna dimenticare che la creazione di "pazzi solitari" e di gruppi di "zelanti patrioti" è una specialità di tutti i servizi segreti operanti sul pianeta.

Dopo il discutibile Sciuscià De Sica gira il suo capolavoro, Ladri di biciclette (92 min; novembre 1948) liberamente ispirato all'omonimo romanzo (1946) di Luigi Bartolini attraverso una sceneggiatura firmata con Cesare Zavattini, Suso Cecchi D'Amico e altri. Il film ottiene un clamoroso successo e l'anno successivo viene premiato con l'oscar (il secondo per il regista, dopo quello per Sciuscià del 1947) quale migliore film straniero. La storia dell'attacchino Antonio Ricci il quale, derubato della bicicletta, teme di perdere il posto di lavoro finalmente conquistato, si snoda lungo una galleria di episodi autonomi e interscambiabili nella composizione interna della narrazione, fino al colpo di scena finale quando, in preda alla più cupa disperazione, l'uomo a sua volta tenta, senza successo, di rubare una bicicletta ma viene subito fermato, schiaffeggiato e umiliato di fronte al figlio. Interpretato da attori non professionisti costituisce uno dei rari risultati artistici notevoli conseguiti secondo la tanto discussa poetica neorealistica, insomma la classica eccezione che conferma la regola secondo la quale ad attori inadeguati e sequenze improvvisate conseguono esiti prevalentemente amatoriali e goffi.
La pellicola configura una sorta di affresco della Roma postbellica, nella quale l'interesse e' tutto per gli ambienti degradati e per le situazioni di atroce miseria. Ricci vive in un caseggiato corroso dall'umidità, frequenta abitualmente il banco dei pegni e la casa di una chiaroveggente "santona", cerca nei mercatini popolari la sua bici rubata, finisce in una mensa dei poveri gestita da borghesi bigotti, in una casa chiusa ed infine nel rione malfamato del ladro, un disoccupato come lui. Il quadro è reso con un buon senso del ritmo e un attento realismo nei dialoghi e nella scelta dei volti ma è l'idea di partenza a fare acqua. De Sica e Zavattini costruiscono un melodramma desolato sopra un'inezia non condivisibile: Ricci, ormai titolare di un posto di lavoro che può arrivare a fruttargli circa 24000 lire al mese (i conti li fa in trattoria; ricordiamo che nel 1948 spedire una lettera costava 15 lire e che la cifra sopracitata è paragonabile a circa un milione e mezzo di vecchie lire o se si preferisce 750 euro) si dispera per una vecchia bicicletta mentre con lo stipendio ormai sicuro dovrebbe essere facile farsi prestare le poche migliaia di lire (dell'epoca) necessarie per l'acquisto di un'altra bici di terza mano, magari proprio in quei mercatini ove ne sono presenti centinaia certamente a buon mercato (si ricordi che proprio perche' in disaccordo con la verosimiglianza del soggetto Sergio Amidei, soggettista di Roma città aperta e Paisà, abbandonò la collaborazione alla sceneggiatura del film). La stessa presenza quasi ossessiva di centinaia di biciclette nel film se da un lato è un'idea visiva notevole, volta ad esasperare la disperazione del personaggio, da un punto di vista realistico ricorda invece che si era in presenza di un oggetto estremamente comune e perciò facilmente reperibile con pochi denari. Costruire un atto d'accusa alla società italiana su quella bicicletta è un passo falso dell'opera e ne sancisce le deboli fondamenta (con buona pace di Bazin che parla di "sceneggiatura ...di un'abilità diabolica"...). Hitchcock saggiamente ricordava che lo spettatore non dovrebbe mai chiedersi perche' un personaggio non agisce nel modo piu' logico, perche' cio' distrae dalla narrazione ed anzi rende quest'ultima molto meno efficace se non artificiosa e pretestuosa. E' curioso che il "neorealismo" debba prendere lezioni in questo caso da un maestro dell'arte dell'intrattenimento puro, che non esitava a ribadire che un film non è "un pezzo di vita", ma semmai è "un pezzo di torta". D'altronde la suddetta critica alla sceneggiatura è tutt'altro che secondaria visto le pretese di realismo documentario e di denuncia sociale associate a questo genere di opere cinematografiche del dopoguerra.
E' sintomatico che il lavoro di attacchino venga illustrato con l'affissione di un grande manifesto del film Gilda (C. Vidor, 1946): non ci si nasconde che la "ricostruita" società italiana si muova all'interno di un nuovo sistema economico strettamente legato a quello d'oltreoceano e perciò volto a privilegiare il consumo di prodotti americani; così il sospirato lavoro di Antonio Ricci nasce dall'esigenza di rendere visibili sui muri di Roma le seducenti merci USA. La "liberazione-conquista" europea da parte degli alleati significa innanzitutto l'annessione di un enorme e prezioso mercato di centinaia di milioni di nuovi consumatori e Ladri di biciclette, a suo modo, testimonia questo nuovo ordine mondiale in fieri.

Dall'inizio alla fine la pellicola desichiana comunica un monocorde sentimento di amarezza, soprattutto per due motivi: la mimica eternamente corrucciata dei due protagonisti e la colonna sopnora di Cicognini basata su un unico, intenso e malinconico motivo (spesso affidato al clarinetto) il quale stende un manto ossessivamente mesto su quasi ogni sequenza (il commento sonoro, per quanto efficace, risulta pero' terribilmente univoco e in definitiva troppo insistente). Intorno a loro la realtà italiana, ritratta con indubbio talento visivo, restituisce immagini anche serene ma sfocate e lasciate ai margini (la gente dei mercati, il pranzo con commento musicale in trattoria, il festoso popolo della partita) che non intaccano la lugubre (e si è detto immotivata) ossessione di Ricci.
Si comincia con i miserabili caseggiati operai dove vivono i protagonisti e si piomba subito al Monte dei pegni, luogo di una silenziosa pena ove le significative immagini (l'uomo che scala una montagna di lenzuola impegnate) esprimono una realta' di tremenda miseria. La visita alla "santona", da molti associata alle superstizioni della gente povera, è invece un tratto che accomuna classi sociali differenti e ha a che fare soprattutto con la credulita' femminile piu' che con la consistenza del conto in banca. In ogni caso anche questo ambiente emana angoscia e costernazione.
Il cineasta, in fondo, è indeciso tra il raccontare una storia individuale e il farne un mero pretesto per dipingere un fondale; lo si può vedere ad esempio in una delle prime sequenze in cui l'attacchino è alle prese con la sua "Gilda": la mdp lo ritrae di spalle, intento a incollare il suo manifesto, poi insieme a due ragazzini che chiedono l'elemosina, infine di colpo essa abbandona il protagonista per seguire questi ultimi; in questo caso l'interesse per il quadro sociale sopravanza e accantona con evidenza la vicenda primaria. A parte questo significativo momento, l'intera pellicola appare fortemente "distratta" dai luoghi: i mercatini, la mensa dei poveri, il rione malfamato ed il piazzale fuori lo stadio sono veri e propri coprotagonisti che si impadroniscono del racconto e lo mettono tra parentesi.
Dopo aver subito il furto Ricci va a cercare aiuto alla polizia e al partito (presumibilmente una sezione comunista): un poliziotto lo maltratta e praticamente lo caccia via mentre ogni energia delle forze dell'ordine sembra essere impegnata per arginare i comizi delle sinistre (i celerini si stanno preparando per andare a presidiarne uno) laddove al partito gli amici si dichiarano pronti a dargli una mano, cercando la famosa bicicletta nei mercatini frequentati dai ladri. Il taglio ideologico traspare con forza: non è la realtà quella mostrata dal regista, bensì un'equazione politica tale per cui la polizia è asservita agli interessi delle classi benestanti mentre l'unica speranza per la gente misera proviene dagli ambienti comunisti. Ladri di biciclette per qualche minuto diviene un testo di aperta propaganda politica (il neorealismo finalmente passa dalla Resistenza alla Rivoluzione, come ben scrive questa volta Bazin) laddove nelle altre sequenze la prevalente ottica ideologica antiborghese e' piu' sfumata ed inscritta negli eventi.
La sequenza del mercatino di piazza Vittorio illustra una realtà vivace dove trionfa la furbizia individuale e il cinismo mentre a Porta Portese, sotto la pioggia, un gruppo di seminaristi non italiani si affianca ai Ricci ed appare evidente lo sguardo di antipatia desichiano: ben vestiti e sereni, esprimendosi in tedesco, una lingua odiata dopo l'occupazione nazista del 1943-44, essi rappresentano una realta' elitaria, lontana dai bisogni reali dei poveri di cui altrove affermano di occuparsi. E' il primo di una serie di due affondi anticlericali con i quali l'autore prende le distanze dal mondo cattolico per il quale aveva mostrato sincera simpatia ne I bambini ci guardano (1943) e La porta del cielo (1945). Il lungo e caotico episodio della mensa dei poveri costituisce una critica tagliente dell'ipocrisia cattolica: un gruppo di borghesi benestanti e bigotti passa la mattina domenicale a sbarbare povera gente per poi obbligarli ad ascoltare rosari e prediche in cambio di un piatto di minestra. Se il potere democristiano cerco' di ostacolare la circolazione della pellicola qualche ragione ce l'aveva, quanto meno in riferimento a questa pittura offensiva degli ambienti religiosi. Non a caso l'anticlericale Hollywood (senza temere di ripetersi dopo il riconoscimento a Sciuscià) premiò invece il film con il massimo riconoscimento dell'ambita statuetta.
La critica antiborghese invece diviene culminante nell'episodio della trattoria dove il confronto tra Bruno Ricci, un sano ragazzino proletario e lavoratore ed un ragazzino antipatico e impomatato, palese rappresentante di una piccola borghesia “retriva”, vuole ricordare l'esistenza di un duro conflitto di classe. Né possono esserci dubbi sull'atteggiamento "militante" del cineasta e del suo sguardo filmico. E' in definitiva un momento assai modesto e stereotipato che conferma paradossalmente il racconto cinematografico "neorealista" come luogo privilegiato dell'ideologia.
Dopo l'interludio sociale la storia torna al centro dell'interesse con lo scontro tra Ricci e il ladro finalmente trovato. Quest'ultimo però si rivela uno sorta di doppio del protagonista (il quale sta a sua volta per trasformarsi in ladro): è un disoccupato, un poveraccio che vive in una stamberga simile alla sua; inoltre è anche malato di epilessia. Ricci lascia perdere e arriva al piazzale dello stadio.
Contagiato dalla frequentazione di tanta malavita egli diviene a sua volta un ladro nella piu' bella e commovente sequenza del film: il tentato furto, lo sguardo attonito e amareggiato di Bruno, l'umiliazione del padre, la musica di Cicognini a tutto volume, un tram che urta Ricci traumatizzato e in stato catatonico, tutto e' perfetto in questo momento di alta poesia cinematografica, irripetibile per lo stesso autore. Dopo tanto "documentarismo" ricompare finalmente, nel momento culminante e conclusivo, la migliore vena melodrammatica desichiana.
Lo stile visivo del film privilegia i totali e i campi lunghi per due motivi: da un lato la realtà sociale in cui si muove questa disgraziata umanita' viene resa nella sua complessità, dall'altro la modesta capacità espressiva degli attori improvvisati sconsiglia un ampio uso di piani ravvicinati. Di questa pellicola eterogenea ed episodica che annovera alti e bassi, rimangono nella memoria, oltre a questa magnifica sequenza conclusiva, soprattutto gli scorci urbani di una Roma periferica e sconosciuta, costellata da edifici massicci, paesaggi ora spazzati dalla pioggia, ora illuminati da un sole accecante che produce immagini fortemente contrastate.
Nonostante le molte, innegabili qualita' poetiche che animano a tratti il film, il giudizio complessivo sull'opera deve essere oggi fortemente ridimensionato; Bazin, nel saggio De Sica le metteur en scéne, scriveva che il vero merito del film " è di non tradire l'essenza delle cose, di lasciarle prima esistere per se stesse liberamente...", parole tanto citate, tanto lodate e del tutto erronee. Ladri di biciclette rimane un film fortemente ideologizzato e la sua realta' un'attenta selezione di scenari destinati a connettersi in un quadro mistificante. Veramente l'esperto Bazin non se ne rendeva conto?

Dopo l'originale esordio de Il testimone, Germi replica la prediletta tematica della lotta tra il male e il bene nel suo secondo lungometraggio Gioventù perduta (86 min.; gennaio 1948) costruito sopra un proprio soggetto originale (tra gli sceneggiatori figurano Monicelli e Pietrangeli). Abbiamo già sottolineato il carattere originale e anticonformista della visione sociale del regista genovese, con quel suo ascrivere le scelte delittuose totalmente a responsabilità individuali: nel nuovo film tale concezione trova un'espressione ancora più radicale, anche se tutto sommato meno sottile e convincente. Germi racconta le imprese di una banda di giovani delinquenti di estrazione medio borghese i quali effettuano rapine per il semplice gusto dell'avventura e per potersi pagare un'esistenza lussuosa, aggirando la fatica dello studio. In particolare il capo della banda, il biondo e gelido Stefano Manfredi, figlio di un professore universitario, studente svogliato ed assassino privo del minimo rimorso (nell'episodio culminante ammazza a sangue freddo, in un luogo appartato e "romantico", la ragazza che lo ama perdutamente) e' una sorta di superuomo che crede fermamente nel diritto del piu' forte, a metà tra una caricatura dell'ubermensch nietzschano ed un alto grado delle SS. La psicologia di questo personaggio, nel suo schematico estremismo piuttosto inverosimile, risulta in definitiva un elemento di debolezza in un film che possiede peraltro ottime qualità nella serrata organizzazione del racconto e nell'imprevedibilita' di alcune svolte narrative.
Germi sembra voler polemizzare con il De Santis del recente Caccia tragica (1947), anch'esso un giallo di derivazione hollywoodiana: la presenza di Massimo Girotti e Carla del Poggio nei ruoli del poliziotto Marcello e della sua fidanzata Luisa, ovvero dei due personaggi positivi, ripete la coppia di fidanzati del film ambientato nella bassa padana; in entrambe le pellicole Girotti riveste il ruolo di figura chiave nella preparazione della trappola che viene stringendosi intorno ai criminali mentre questi ultimi, che utilizzavano un'autoambulanza nel film di De Santis, ora si servono di una macchina con il segno della croce rossa. Germi riporta in campo gli elementi di Caccia tragica ma in un'ottica radicalmente antitetica in quanto antimarxista: i criminali della banda di Stefano sono studenti benestanti, uccidono e rubano per semplice avidita' manifestando una compiaciuta inclinazione alla malvagita'; infine, come il protagonista de Il testimone, fanno parte di un contesto corrotto e malavitoso, privo di ogni scusante "ambientale" e "postbellica" ed emblematico invece di una precisa e costante tipologia umana. Un intransigente senso della giustizia e una necessita' dell'espiazione individuale attraversano questo cinema inattuale (allora come oggi), alieno da ogni forma di comodo e tollerante umanitarismo (come quello che chiudeva il citato film di De Santis). Germi si riconferma estraneo alla poetica "neorealista".

Il film apre e chiude su due rapine che si trasformano in sparatorie mortali, entrambe organizzate dal perfido Stefano. Nel percorso narrativo che porta dalla prima alla seconda, il protagonista appare sempre identico a se stesso: freddo, calcolatore, beffardo e spietato. Anche l'intreccio, capace di creare suspence quanto un film di Hitchcock, scorre veloce e compatto, senza dar luogo a evidenti ripartizioni in episodi: gli eventi si intrecciano continuamente, definendo una tela che diviene sempre piu' complicata e ricca di nodi irrisolti i quali culminano nella feroce eliminazione della testimone Maria e nella rapina finale.
L'anziano studente Marcello conosce "per caso" Luisa, la corteggia e si inserisce nel suo contesto familiare; scopriremo che si tratta pero' di un poliziotto. La seconda coppia, Stefano e Maria, è minata da un'ambiguità ancora più grave: il criminale la seduce solo per poterla comodamente ammazzare in riva a un fiume (dove la giovane si reca abitualmente ad immaginare e sperare un felice futuro amoroso in compagnia di colui che sta per ucciderla) all'interno di una sequenza di notevole forza espressiva, grazie all'uso di un'illuminazione che esalta i contrasti netti tra i bianchi luminosi connessi alla figura dell' "angelico" omicida e il nero luttuoso, legato alla povera, debole vittima. Nel piu' suggestivo momento del film, drammatico e "luminoso" apice di una pellicola prevalentemente notturna e crepuscolare, siamo nuovamente di fronte ad un assassino che, per poter conservare la propria libertà, deve disfarsi di un inerme testimone, come nel primo lungometraggio dell'autore. E come in quel lavoro anche ora niente e' come appare, tutto e' immerso nell'ambiguità: nel lungo, silenzioso duello tra il cacciatore e la preda i protagonisti, due falsi studenti, utilizzano ogni simulazione per vincere la partita, non esitando a sfruttare strumentalmente le "debolezze" sentimentali delle secondarie figure femminili. La lotta tra il bene e il male è puro scontro di intelligenze e di forze, di astuzie e di maschere, il cui esito in favore della giustizia e della legge, per quanto evidentemente auspicato, è tutt'altro che certo e sicuro.
Completa il quadro Stella, la sensuale amante di Stefano nonché cantante inserita nell'ambiente malavitoso, la quale ripete il modello seducente e popolare della Gilda (Charles Vidor, 1946) disegnata da Rita Hayworth (la ritroviamo anche sui manifesti dell'attacchino di Ladri di biciclette): la sua canzone "Hawaii, dolce terra d'incanto..." evoca un universo esotico che affascina l'annoiato protagonista (proprio questo motivo, in versione orchestrale, risuona enfaticamente nelle immagini finali della sua morte violenta). La macchina dei sogni hollywodiana comincia a diffondere le sue dannose utopie fondate su denaro, erotismo e paradisi artificiali: in fondo Stefano e compagni inseguono un codice di comportamento connesso a quella superficiale ansia di possesso che e' un elemento essenziale del luccicante consumismo americano il quale sta muovendo ora i suoi primi passi nella inevitabile conquista e trasformazione culturale dell'Europa.
Mentre la "caccia tragica" è l'elemento avvincente perfettamente sviluppato, su altri versanti la pellicola e' lacunosa: la vicenda sentimentale di Marcello e Luisa è stereotipata e prevedibili sono le reazioni della ragazza allorché scopre la vera identità dell'uomo; la cupa colonna musicale è greve e poco significativa; numerosi appaiono perfino gli errori di montaggio (sfasature tra immagini e sonoro); i comprimari della banda sono figure sfocate. Il secondo film di Germi appare dunque un passo indietro rispetto al Testimone; tuttavia la maggiore ovvietaà di molti aspetti del film, unitamente alla bella costruzione narrativa, assicurano a Gioventù perduta quel vasto successo popolare che era mancato  alla meritevole opera prima del cineasta.

Nel maggio 1947 l'Assemblea Costituente approva la legge n. 379 con la quale si riconferma l'istituto della censura seppure secondo modalità lievemente differenti rispetto a quelle dell'era fascista. La nuova Commissione di primo grado si compone di un funzionario dell'ufficio centrale per la cinematografia (disposto presso la Presidenza del Consiglio) in qualità di presidente, un magistrato e un rappresentante del Ministero dell'Interno. Con essa il legislatore intende porre in atto l'articolo 21 del testo costituzionale che, pur ribadendo la libertà della creazione artistica, poi recita: "Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni". Nella seduta del 14 aprile 1947 Aldo Moro precisava: "Tutti quanti noi desideriamo infatti che la libertà di pensiero in ogni sua forma non si risolva in una offesa al buon costume e alla morale".
Gioventù perduta è il primo film a subire drastici interventi censori: dapprima viene addirittura negato il visto a causa del pessimismo e della violenza prevalenti nella pellicola; in seguito il film può uscire tagliato però di alcune sequenze tra cui quella della rapina all'università, un vuoto che si sente trattandosi di un momento chiave della narrazione.

Giorgio Bianchi nasce a Roma il 18 febbraio 1904. Negli anni trenta è attore in numerosi film e dal 1933 si occupa del doppiaggio e della produzione. Esordisce come regista con La meastrina (1942) cui seguono commedie e drammi di argomento sentimentale quali La resa di Titì (1945), Fatalità (1946), Che tempi! (1947). La tematica poliziesca compare invece in Cronaca nera (1946) e Il mondo vuole così (1946). Jacques Sernas, già interprete del gelido Manfredi, è anche uno dei due protagonisti di Una lettera all'alba (90 min, ottobre 1948), ancora nel ruolo di un malvivente; la figura disegnata però nel film di Bianchi (soggetto e sceneggiatura sono di Aldo De Benedetti) è più tormentata e prossima al riscatto morale. Come in Gioventù perduta di Germi, questa pellicola si situa in un territorio estraneo al "neorealismo", trattandosi di un efficace noir i cui personaggi appartengono ad una zona criminale priva di radici sociali, semplice espressione dell'eterno lato oscuro della natura umana; né vi è alcuna attenzione nel definire un particolare fondale urbano in relazione alle miserie postbelliche. A sorpresa invece il film si spinge ad illustrare il commercio degli stupefacenti quale attività primaria del piccolo clan di malviventi, argomento tabù scarsamente presente nel cinema italiano ed addirittura vietato dal cosiddetto Codice Hays (una sorta di codice di autocensura degli autori) negli USA fino alla clamorosa e scandalosa trasgressione di The Man With The Golden Arm (L'uomo dal braccio d'oro, Preminger 1955).
Una lettera all'alba intreccia con abilità lo schema poliziesco e il melodramma: il giovane Mario accetta di effettuare una rapina su commissione ma cade in una trappola poiché nell'appartamento, che doveva essere vuoto, trova invece il cadavere della padrona di casa e finisce accusato di omicidio. A questa vicenda si lega la seconda, quella di un padre (Carlo, un boss della malavita, interpretato da Fosco Giachetti) che ritrova in Mario un figlio che non sapeva di avere e lo aiuta come può, pagandogli un bravo avvocato (l'ottimo Salvo Randone) e riuscendo a farlo scagionare. Nel patetico finale l'addio alla stazione costituisce un buon esempio di melodramma cinematografico.
Bianchi gira con sicura padronanza dei mezzi, utilizza una fotografia fortemente contrastata e organizza la narrazione ricca di eventi all'interno di un ritmo veloce e coinvolgente. La mediocre colonna sonora di Renzo Rossellini, viziata dall'abuso dei tremoli degli archi, risulta tuttavia funzionale a sostenere la costante tensione che serpeggia nel film. Come Il testimone e Gioventù perduta di Germi, Una lettera all'alba è un nuovo, sporadico esempio delle buone capacità di alcuni (pochi) autori italiani allorche' si cimentano nel tetro universo del cinema noir, un genere che rimarra' purtroppo una specialita' hollywoodiana.

Nel prologo una lettera giunge all'alba a Carlo e lo porta al capezzale di Anna, un tempo sua amante, che lo prega di occuparsi di Mario, un figlio di cui ignorava l'esistenza. Incipit ed epilogo funzionano come una cornice melodrammatica rispetto al centrale dramma poliziesco. L'uomo pedina il ragazzo e scopre che vive trafficando in droga, anche per poter continuare a vedere Renata, una prostituta di alto bordo. Sempre per tale motivo il giovane si accorda con l'amante della contessa, una donna ricca ed al centro del commercio di stupefacenti, per derubarla: la tesa sequenza notturna in cui Mario si introduce nello stabile (all'ingresso incrocia un inquilino del palazzo con cui sale in ascensore...) è degna di un film di Hitchcock. Allo stesso modo vicina alla poetica kafkiana del regista inglese e' la parte centrale del film, con la lotta dell'innocente (in prigione) volta a dimostrare la propria estraneita' ai fatti, parte condotta con sicuro senso dl ritmo, in un clima di angoscioso incubo fino a quando, nel momento culminante dell'intera pellicola, l'avvocato non intuisce e scopre la verita' (una soluzione alquanto ovvia peraltro, con l'assassino che finge di essere a teatro a Torino e nella notte si fa portare in taxi a Milano per commettere l'omicidio). Le sequenze in tribunale ed in prigione attuano un incisivo crescendo di tensione all'interno di una situazione che sembra costantemente sul punto di evolvere verso il peggio.
L'epilogo mostra il ritorno alla tematica "operistica" dell'agnizione: Renata ha capito che Carlo e' il padre di Mario e accetta di farsi da parte per permettere a quest'ultimo di costruirsi una nuova esistenza (nel dialogo in auto con Carlo ella dice espressamente: "non facciamo la scena sentimentale; sembra il secondo atto della Traviata" a riprova della coscienza degli autori del loro muoversi in un territorio contiguo a quello del teatro lirico). Nell'acceso, commosso finale il giovane intuisce chi sia l'uomo che lo ha aiutato ma finge di non capire: i due si lasciano dopo un intenso abbraccio con la promessa di rivedersi.