Le parole, le immagini e le cose

Le parole, le immagini e le cose: il cinema italiano e gli errori della modernità

Numerosi sono gli elementi di interesse in una disincantata e perfino provocatoria (per alcuni) rivisitazione del cinema italiano degli anni quaranta. Si tratta come noto di un’epoca fondamentale per gli eventi storici, politici e sociali: cade il fascismo, cade la monarchia, risorge la centralità del Vaticano per il tramite della DC di De Gasperi e nasce la repubblica sotto l’occhio vigile degli Alleati angloamericani congiunti con le forze “sovietiche” rappresentate nella penisola dai partiti di Togliatti e (in misura minore) Nenni. Nel turbinio disastroso e tragico non solo naufraga un progetto d’Italia e ne compare uno di segno alternativo (repubblicano) bensì sono addirittura il modello umano e i valori di riferimento dell’organizzazione sociale che vengono mutando. Per ora si tratta di lievi trasformazioni le quali tuttavia pongono le solide basi per mutazioni assai più radicali che si avvereranno soprattutto negli anni sessanta del boom economico e della contestazione studentesca.
Il cinema italiano è un basilare strumento della propaganda del Potere nonché, in determinate epoche storiche, un’arma formidabile di alcune correnti politiche nella lotta per la trasformazione della società. Studiando nuovamente i film degli anni quaranta è possibile rinvenire dapprima una cinematografia docilmente e acriticamente schierata in difesa dello sciagurato impegno bellico italiano, come pure però dei valori della Tradizione per alcuni aspetti posti sotto tutela dal fascismo. Divenendo tragicamente insopportabile la situazione interna i cineasti, privi di credibili punti di rifrimento, sembrano dapprima guardare al Vaticano e a Pio XII come al novello salvatore della patria (soprattutto nel periodo 1943-44); poi, persa difinitivamente la guerra, gli operatori del settore si pongono sotto la protezione dei nuovi padroni anglosovietici (anni 1945-49), firmando da un lato opere elogiative della Resistenza, dall’altro pellicole finalizzate a proporre un nuovo modello sociale modernista, affine alle esigenze del dinamismo produttivo d’oltreoceano. Il principale bersaglio diviene quindi l’organizzazione rigidamente patriarcale della società alla quale si va contrapponendo una visione via via (con prudenza) più individualistica, sganciata dalla Tradizione e dai suoi rigidi valori poco utili alle esigenze di profitto della nuova nomenclatura plutocratica americana. La “liberazione” della donna attraverso un differente modello antropologico che valorizza l’affermazione professionale a scapito della dedizione familiare e dell’attenzione verso la prole è il cavallo di Troia attraverso il quale si scompagina un antico equilibrio e si indirizza un’intera società verso le effimere mete del guadagno e della ricchezza, imitando dunque le logiche egemoni negli USA.
A distanza di oltre mezzo secolo possiamo ben valutare quel disegno nonché gli errori in esso presenti. L’Italia nata da quelle premesse approda nel nuovo millennio a una società anziana e stanca, con un senso dell’identità vacillante, facile preda di ogni movimentismo o vacua moda e soprattutto ossessionata dal cosiddetto “tenore di vita”. Un semplice bacino di inerti consumatori, posti “in schiavitù” da ferree e sempre più crudeli regole di competizione in ambito lavorativo, è il prevedibile esito cui si approda dando credito ai dogmi del produttivismo modernista, dogmi creati ad arte soprattutto da una nomenclatura mediatica servile che va quotidianamente magnificando l’universo dei consumi e delle relazioni interpersonali giocate sulla transitoria seduzione sensuale (il corpo femminile, agghindato nelle modalità più bizzarre, è in fondo il più grande affare del “secolo americano”). Dalla eliminazione delle case chiuse (legge Merlin, 1958) alla realtà quale sorta di casa chiusa globale nella quale la mercificazione del sesso entra nella quotidianità dei media: è questo uno dei principali percorsi del disordine modernista che attende ancora di essere studiato e che in questa sede ci proponiamo di approfondire (soprattutto nei futuri testi sugli anni sessanta e settanta), almeno per quanto riguarda il fondamentale aspetto dell’arte filmica.
Le parole e le immagini si sovrappongono al mondo reale, governato da regole arcaiche e naturali (l’unità familiare, l’attenzione per la discendenza, la coesione etnica) e con arrogante presunzione disegnano un universo nuovo e antitetico rispetto a quei dettami. Incuranti del sapiente detto baconiano per cui “alla natura si comanda solo obbedendole” i nuovi governanti angloamericani guidano il pianeta verso oscure, preoccupanti mete la cui unica finalità certa, al di là delle litania massoniche intorno a uguaglianza, libertà, democrazia e solidarismo filantropico, consiste nel plasmare un popolo planetario di individui isolati e deboli, asserviti alle esigenze produttive delle Corporation. La produzione cinematografica è un luogo assai favorevole in cui studiare questi grandiosi mutamenti antropologici e, in particolare, gli anni quaranta in Italia mostrano all’osservatore attento (non plagiato dal “pensiero unico”) la lenta dissolvenza incrociata che trapassa da un mondo ancora prevalentemente rurale e regolato da antiche, naturali abitudini all’universo della falsa modernità che muove i primi passi proprio con l’avvento della repubblica.
Il problema non è ovviamente l’opposizione Fascismo-Antifascismo e tanto meno quello Monarchia – Repubblica (anzi l’avvento al potere in Italia, caso quasi unico, di una nomenclatura cattolica avrebbe potuto significare un deciso mantenimento e perfino rafforzamento della visione antropologica patriarcale; ma la battaglia su tale terrena verrà rapidamente persa); lo scontro è invece quello tra Tradizione e Modernità, scontro che sopravanza di molto quelle provinciali questioni e si prolunga nei decenni a venire in differenti scenari del pianeta, andando a coincidere con la costante, ineluttabile espansione dell’imperialismo americano soggiogato dal demone del profitto che, unico, è in grado di mantenerne intatta la forza e l’egemonia planetaria. All’alba del nuovo millennio il conflitto infuria, in modo devastante come mai prima d’ora, in Medio Oriente tra le forze “esportatrici” di democrazia (in realtà esportatrici soprattutto di cianfrusaglie consumistiche) e l’Islam (una delle numerose incarnazioni dei valori tradizionali) più radicale.