La moglie più bella, Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica, Il sasso in bocca, Cose di cosa nostra, La violenza: quinto potere,
Abuso di potere, Il caso Pisciotta, Gli amici degli amici hanno saputo, Il boss, Milano rovente, La mano nera, Baciamo le mani, La padrina, Piazza pulita, Sgarro alla camorra, La legge della camorra, Tony Arzenta,
Anastasia mio fratello, Lucky Luciano, Il consigliori, Il figlioccio del padrino, L’altra faccia del padrino e Tutti figli di mammasantissima: la mafia e il potere politico (1970-73)
[Kay Adams] Osservò come il marito riceveva i loro omaggi. Gli rammentava le statue di Roma, di quegli imperatori dell’antichità che,
per diritto divino, erano arbitri della vita e della morte sui loro sudditi. Una mano sul fianco, il viso atteggiato a un’autorità fredda e superba,
mentre il corpo era negligentemente e arrogantemente a suo agio, appoggiato su una gamba leggermente più indietro dell’altra. I capiregime erano in piedi davanti a lui. In quel momento Kay capì
che tutto ciò di cui l’aveva accusato Connie era vero. Ritornò in cucina e pianse. M. Puzo, Il padrino - finale cap. XXXI(1969)
“A te ti conviene, per fare carriera!... e alla politica conviene per distrarre
la gente che non sa niente e non capirà mai niente! Alla politica, quando le fa comodo, servono anche i deliquenti e, come dicite, i mafiusi” Lucky Luciano, dialogo finale tra il protagonista e il capitano della finanza
Il cinema storico-politico, dopo il periodo 1958-63 (da Il generale Della Rovere a I compagni; vedi), volto a supportare lo spostamento a sinistra della
politica italiana e la nascita del centrosinisra di Aldo Moro, era tornato a soggeti più innocui. Rosi aveva girato l’insignificante C’era una volta e Petri il fumettistico La decima vittima. Dopo l’esplosione
ribellistica del 1968, gli scioperi operai e l’attentato di piazza Fontana (dic.1969), il cinema”impegnato” ritorna in prima linea per una stagione arroventata (1970-78) e indimenticabile nei suoi esiti meramente artistici.
Petri, Rosi, Damiani e company sono compatti nel tornare a denunciare tutte le storture del sistema Italia - presenti e passate - al fine di creare nell’opinione pubblica il desiderio di un radicale cambiamento di assetto
politico, cambiamento che, dopo il golpe cileno (11 set. 1973), prenderà le sembianze prevalenti del cosiddetto “compromesso storico”. Questa stagione terminerà con il delitto Moro (9 mag. 1978), pietra tombale di qualunque
progetto volto a far entrare il Pci sovietico nell’area di governo. Il magnifico Prova d’orchestra (Fellini, 1978), costituisce il simbolico epitaffio di questo periodo storico, ricco di illusioni costate la vita a centinaia di vittime di una lotta politica brutale e parcellizzata.
In genere la visione di una mafia onnipotente e parte integrante e integrata dello stato a guida democristiana costituisce una visione talmente amara, negativa e kafkiana che finisce con il coincidere con la constatazione
di un universo immodificabile nel quale i singoli eroi che di volta in volta tentano di combattere questo moloch, finiscono con l’apparire dei mezzi deficienti. Solo loro sembrano non avere capito che la lotta contro un simile,
secolare intreccio di poteri è destinato a sconfitta sicura. Nella loro impari lotta, inoltre, le nostre anime belle causano spesso la morte di persone innocenti che, anzichè seguire comportamenti abituali e prudenti, si sono
affidate incautamente a loro. L’esito finale ed unico, implicito e “segreto”, di questo cinema progressista, spesso ben costruito e perfettamente godibile, è quello di invitare gli spettatori a votare quelle forze
politiche non compromesse col sistema partitico-mafioso ovvero i partiti socialcomunisti. Ad esso, dopo l’uscita de Il padrino (Coppola, 1972), risponderà un differente, antitetico cinema, affidato a registi meno blasonati e più conservatori, che guarda con sospetta ammirazione agli uomini d’onore e alle loro ambigue imprese. In questa insolita tipologia narrativa nessuno si oppone alla mafia per illusori motivi ideali o civili mentre la contesa, inerente lo scontro per la gestione del Potere, rimane sempre e solamente interna alle organizzazioni criminali.
I giochi si riaprono con La moglie più bella
(mar. 1970; 110 min.) di Damiano Damiani, liberamente ispirato ai noti fatti (1966) che videro protagonista l’eroica Franca Viola. Il boss mafioso Vito Juvara (un monoliico Alessio Orano che si ispira a Alain Delon) si
incapriccia della giovanissima Francesca Cimarosa (Ornella Muti al suo esordio), una ragazza bella e di umili origini, sulla quale pensa di potere esercitare un dominio assoluto. La visione siciliana e, soprattutto, mafiosa
relega la donna alle pur importantissime faccende domestiche: la moglie deve innanzitutto generare la vita e occuparsi della educazione dei figli. Francesca è una ragazzina cocciuta e orgogliosa: vuole anche essere rispettata e
amata. Inizia un lungo, vorticoso duello tra i due che porta Vito a cercare di piegare la giovane, rapendola e violentandola in un casolare (il tutto nello spazio di una sola notte). La famiglia della giovane, guidata dal
sofferente Tano Cimarosa (un eccellente Tano Cimarosa che, per l’occasione, ha mantenuto il proprio nome d’arte), è rassegnata e quando Francesca giunge a gesti estremi come bruciare per protesta lo stesso podere di proprietà
(l’unico bene della famiglia) e ad andare dai carabinieri a denunciare il sequestro, la famiglia si defila e la lascia sola. Dopo un lungo tira e molla, la giovane persiste nelle sue accuse (pur amando Vito) e finisce con il
convincere il padre ad appoggiarla. Il boss viene finalmente arrestato e condannato al carcere mentre la giovane cammina sola e disperata nella lunga strada pricipale che divide in due Cinisi. La magnifica imquadratura che
apre e chiude il racconto - l’interminabile via centrale di Cinisi - è altamente simbolica: il cinema italiano ritorna “al fronte” e si rimette in cammino, prendendo di mira il suo principale nemico ovvero le mafie meridionali
e la loro visione patriarcale. Sebbene il film si ispiri al pregevole gesto di Franca Viola - giusta ribellione ad un atto di prevaricazione violenta inaccettabile (la giovane venne sequestrata per otto giorni e salvata dalle
forze dell’ordine) - esso cambia i nomi e si sposta su un terreno totalmente diverso. Lo scontro che vediamo è soprattutto simbolico e basato su personaggi altamente inverosimili. Un boss potente si ostina a volere sposare una
giovane che chiunque, in quella posizione, avrebbe lasciato perdere dopo un solo pomeriggio. L’uomo parla delle loro future, felici prospettive familiari mentre la giovane risponde con preoccupazioni umanitarie di carattere
universalistico e astratto (è l’unica a rimanere sconvolta per la morte di un mafioso ucciso per strada, proprio per ordine di Vito). Non solo. Vito riesce a farsi più volte umiliare dalla giovane, in pubblico, e ciononostante
persiste nel volerla sposare. Francesca, invece, sembra uscita dalle barricate di valle Giulia (Roma, 1968), sicura di sè e fanatica al punto da bruciare tutti i beni di famiglia (è il punto di massima inverosimiglianza del
racconto) pur di dimostrare la propria astratta e cieca affermazione di sè. La pellicola, spogliata dalle proprie modeste ambizioni realistiche (va da sè che tutti gli uomini del racconto sono figure mediocri e rivoltanti), si
configura invece come un manifesto politico in cui Damiani avvisa l’ambiente culturale italiano che il cinema è tornato a far valere, in maniera diretta ed urlata, la propria passione massonico-egualitaria e la propria naturale
trendenza a supportare una visione matriarcale del mondo. C’erano già stati due importanti film contro la mafia - A ciascuno il suo (Petri, 1967) e Il giorno della civetta (sempre di Damiani, 1968) - ma si era tratato di eleganti trascrizioni fimiche da Sciascia, problematiche ed articolate. Ora invece La
moglie più bella aggredisce il problema alle sue radici, mette in ombra le trame mafiose più ovvie (è in corso un piccola guerra locale tra Juvara e i fratelli Amantia... ) e dichiara che la rivoluzione meridionale può passare esclusivamente attraverso la ribellione delle donne. Queste ultime devono seguire l’esempio di Francesca (che poco ha a che vedere con la giusta ribellione di Franca Viola), condividerne la rabbia ribellistica violenta ed assoluta se vogliono rovesciare la propria situazione. La magnifica colonna sonora di Moricone dà voce a questo progetto con due temi perfetti: il primo caotico e tormentato, che sembra scaturire dall’intimo della giovane dando voce al suo insopprimibile desiderio di rivolta, e l’altro lirico e malinconico che ne prospetta la sconfitta finale. Di fatto Francesca vince una battaglia ma non certo la guerra: rimane sola nella interminabile via di Cinisi mentre giunge notizia che il capomafia locale, l’anziano Antonino, ha vinto la sua battaglia con la legge e sta per tornare in città.
La moglie più bella è una dichiarazione di guerra. Il cinema “impegnato” si appresta a contestare, in maniera energica ed anche artistica, una gerarchia sociale conservatrice, basata sulle naturali disguaglianze, sull’autorità maschile e sul concetto tradizionale di famiglia; a queste “anticaglie” il cinema progressista contrappone giovani fanatiche, misticamente ispirate, come Francesca, sacerdotesse dell’illuministico desiderio di ugualitarismo ad oltranza, venato di una sorta di paganesimo matriarcale; un ugualitarismo giacobino che chiude gli occhi sulla natura reale delle cose, affarmatasi nei secoli, per realizzare l’utopica società del “benessere”socialcomunista.
La Storia sconfesserà questo progetto. Il film ottenne un buon successo. L’anno successivo Damiani insiste e firma il suo film più famoso e certamente uno dei suoi lavori più riusciti,
Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica (mar.1971; 100 min.). Fin dal lungo titolo appare evidente il riferimento a Indagine su un cittadino... (Petri, 1970), l’esplosivo film
dell’anno precedente. Anche in qeusto caso si narrano le gesta di un commissario anarchico e alla fine anche assassino: Bonavia (un eccellente Martin Balsam) è esasperato dalle malefatte di un potente mafioso locale, Lomunno
(un ottimo Luciano Catenacci che, nei suoi numerosi strafottenti sproloqui, imita il Volontè di Indagine); invano lo ha arrestato per ben tre volte: il sistema giudiziario lo scarcera sempre. Allora permette a uno
squilibrato (Adolfo Lastretti), che odia Lomunno, di uscire dal manicomio. Quest’ultimo, non appena libero, cerca di ammazzare il mafioso il quale, tuttavia, è stato avvertito e si salva. Nel frattempo entra in scena Traini
(Franco Nero), un procuratore di fresca nomina, garantista, ingenuo e incredulo delle profonde ramificazioni del potere mafioso che tutto lega e incatena (sono implicati con Lomunno, tra gli altri, il sindaco di Palermo, alcuni
assessori, il capo della procura...). Tra i due uomini si scatena un confronto aspro e rispettoso che porta gradualmente il magistrato a capire le ragioni del poliziotto il quale, accusato di vari illeciti, si dimetti e uccide
a sangue freddo Lomunno. Nel finale amarissimo la più importante testimone (Marilù Tolo) viene ammazzata da sicari mafiosi e “sepolta” in un pilone di cemento, Bonavia viene ucciso in carcere e Traini affronta il capo della
procura in un finale aperto, clonato da quello di Indagine su un cittadino... . Il film possiede ottimi attori, buon ritmo, una trama ben congegnata, scenari suggestivi e un’intensa, malinconica e fondamentale colonna
sonora di Ortolani. L’uomo solo che si scontra contro un muro di gomma viene perfettamente inquadrato e se ne può condividere la frustrazione e la rabbia; se ne può perfino comprendere l’atto finale che lo trasforma in un
giustiziere anche se, di fatto, un sistema criminale così organizzato e antico consiglierebbe cautela e tolleranza poichè se tutto procede da decenni in quel modo (e la cosa si perpetua fino ai giorni nostri) una ragione
intrinseca ci sarà ed è inutile combattere contro i mulini a vento. Se la mafia fa parte dello stato (tra sindaci e procuratori) - essa, di fatto, costruisce la città (le ampie discussioni sulle speculazioni edilizie rimandano
apertamente a Le mani sulla città di Rosi) - è impossibile e anche inutile per l’uomo comune (anche se dotato di una importante carica istituzionale) affrontare un simile moloch; tanto vale convivere con questo sistema di potere così come nel nord Europa (Italia compresa) si convive con l’egemonia sottile e nascosta della Massoneria e dei circoli finanziari.
Ovviamente Damiani aggredisce frontalmente la gestione di Vito Ciancimino (sindaco di Palermo tra l’ottobre 1970 e la primavera del 1971, quando esce il film) e allude alle connivenze di questo politico democristiano con il
potere mafioso, responsabile del cosiddetto “sacco di Palermo”. Si tratta dei nemici storici della sinistra italiana ai quali si attribuisce ogni colpa. Tuttavia il fatto di avere creato ampie zone residenziali a Palermo, fatte
di condomini moderni, più o meno piacevoli alla vista, non è di per sè una colpa (le strutture urbane non devono essere capolavori estetici ma strutture funzionali alla vita quotidiana); anzi. D’altronde non sembra che tali
caseggiati siano rimasti invenduti o che si trattasse di cattedrali nel deserto; pertanto si trattava di strutture abitative utili e richieste dal consorzio civile. Di fatto il commissario, deciso a stroncare con qualunque
mezzo il sopracitato contesto illegale, si trasforma in giustiziere e, pertanto, si può considerare Confessione di un commissario... come il primo “poliziottesco” italiano, antecedente a La polizia ringrazia (Steno, 1972; vedi). E’ allora interessante sottolineare la differente posizione dei media - giornalisti e critici cinematografici - nei confronti di questo giustiziere e dei numerosi seguenti che avranno per obiettivo, anzichè la mafia, la criminalità comune (sequenza coronata dal exploit “internazionale”
dell’americano Charles Bronson nella serie de Il gistiziere della notte, Winner, 1974). Per Bonavia ci sono solo parole di comprensione, commiserazione e giustificazione di quel gesto estremo, essendo la mafia il nemico
principale della cultura socialcomunista; non a caso il film di Damiani si dilunga in un flashback enfatico e poco verosimile (la cosa meno riuscita del lavoro) intorno alla morte di un coraggioso sindacalista ispirato
alla figura di Placido Rizzotto, ucciso, ovviamente, dal perfido Lomunno. Tutti gli altri giustizieri, invece, a volte gente comune, a volte poliziotti, verranno tacciati di fascismo e ottusità reazionaria; questi ultimi,
infatti, non lavorano per le ideologia “progressiste” ma solo chiedono una società più sicura e forze dell’ordine più efficienti contro ogni forma di violenza privata; insomma pretendono un consorzio civile più rigido, come
tale nemico anche del ribellismo socialcomunista. Il rifiuto di questo tipo di cinema di stampo conservatore sarà poi ancora maggiore e spesso realmente astioso poichè in esso il delinquente è considerato tale per una propria
innata inclinazione, trasgredendo l’ideologia di Rousseau e Marx fondata sull’innocenza originaria dell’essere umano e sulle presunte colpe di un sistema sociale che favorendo le diseguaglianze, causerebbe l’agire criminale.
La pellicola fu un trionfo commerciale (undicesimo posto negli incassi della stagione 1970-71).
Il toscano Giuseppe Ferrara, autore di interessanti saggi di storia del cinema negli anni cinquanta e sessanta, esordisce alla regia con Il sasso in bocca
(ott. 1970), un documentario sulla mafia, basato sulle ricerche del giornalista siciliano Michele Pantaleone (l’autore, vicino al Pci, pubblica Mafia e politica, 1962, uno dei primi testi sull’argomento e, in seguito, Mafia e droga,
1966), nel quale vengono abilmente miscelate immagini di repertorio, spezzoni di altri film (soprattutto Salvatore Giuliano, Rosi, 1961) e immagini originali. Il regista riscostruisce le gesta dell’organizzazione siciliana a partire dagli anni del fascismo; egli illustra, con modalità generiche e effettistiche, le attività della mafia americana e racconta la collaborazione tra il boss Lucky Luciano (Bill Vanders) e i servizi di sicurezza militari statunitensi che lo “arruolano” per facilitare la conquista della Sicilia (lug. 1943). Tale argomento diverrà, tre anni dopo, l’oggetto del noto film di Francesco Rosi.
Una vasta attenzione viene dedicata al dopoguerra, al movimento indipendentista e alla figura del bandito Giuliano e del suo aiutante Pisciotta. Ci si spinge poi nel cuore degli annisessanta e si indicano, con modalità
superficiali, i legami tra la mafia palermitana, le speculazioni edilizie e la Dc. Il merito del film è di avere affrontato un tema scottante e sostanzialmente evitato, fino a questo momento, dal cinema italiano. Ferrara
arriva addirittura ad alludere a responsabilità americane dirette nella strage di Portella delle Ginestre (1947), un tema che porta diritto alle trame oscure della strage di piazza Fontana e che verrà approfondito solo
dall’interessante e radicale Segreti di stato (Benvenuti, 2003). Riconosciuto a Ferrara questo coraggio, tutto il resto però è di marca abbastanza scadente. Una serie di rozzi stereotipi si danno appuntamento nel collage del regista, il quale allinea rituali simbolici e sparatorie a ripetizione come nei peggiori film di genere, senza approfondire in modo convincente i legami tra mafia, politica, presenza americana e lotta al comunismo. In definitiva la pellicola, per questo suo rimanere alla superficie degli eventi e per quel suo combinare immagini documentaristiche e commento verbale ideologico e, di fatto, sovrapposto in modo forzato al quadro visivo, assomiglia a un modesto mondo movie che ha per oggetto Cosa Nostra e la Sicilia. Emerge nell’autore, in seguito regista di pellicole assai più interessanti e meditate, un odio viscerale per una società ancora patriarcale ed estranea alle coordinate valoriale della prevalente Europa ugualitaria e massonica.
La pellicola fu un fiasco al botteghino.
Steno si inserisce in questa rinascita del film mafioso (oltre ai titoli citati, vi sono anche gialli pù convenzionali come ... E venne il giorno dei limoni neri, Bazzoni, 1970 e Colpo rovente, Zuffi 1970; vedi) con la commedia umoristica
Cose di cosa nostra (gen. 1971; 90 min. ) la cui trama, parzialmente, riprende quella di Mafioso (Lattuada, 1962) con Alberto Sordi. L’innocuo Salvatore (Carlo Giuffrè), benzinaio newyorchese, viene spedito in
Sicilia con tutta la famiglia dal boss locale con l’incarico di ammazzare un potente capomafia (Salvo Randone) che è sul punto di collaborare con la giustizia. L’uomo, spaesato e timoroso, viene pedinato da un brigadiere
sospettoso (Aldo Fabrizi), sfruttato da un finto suicida napoletano (Vittorio de Sica) e ingannato da un corteggiatore (Jean-Claude Brialy) della moglie (Pamela Tiffin) il quale, pur di aggregarsi alla famigliola, si finge un
killer professionista. Nel finale lieto tutto viene chiarito, senza spargimenti di sangue. Il film, appena decoroso nel suo insieme, offre panorami romani e napoletani, un cast superbo sprecato dalla scialba sceneggiatura e
situazioni comiche prevedibili e tirate per le lunghe. Le famiglie mafiose finiscono con l’occupare solo lo sfondo del quadro narrativo mentre il racconto finisce col perdersi nei consueti siparietti comici, basati su malintesi
scontati e poco originali. Si salva il simpatico Aldo Fabrizi. Gli incassi furono modesti.
Florestano Vancini, autore di pellicole di riflessione storico-politica nel periodo 1961-66, dopo alcuni lavori meno interessanti (il mediocre western I lunghi giorni della vendetta,
1967; vedi) torna al cinema “impegnato” con La violenza: quinto potere (feb.1972; 95 min.), trascrizione filmica della commedia teatrale La violenza (1969) di Giuseppe Fava. Vi si narra la guerra di mafia che
tiene banco in un piccolo centro siciliano: da un lato il clan Barresi (Mario Adorf) che appoggia il progetto di una diga, dall’altro il clan Crupi (George Wilson) che ostacola l’opera pubblica. Gli omicidi si susseguono senza
sosta e vengono raccontati in flashback mentre entrambe le fazioni vengono giudicate in tribunale, dopo che un sicario (Leontini) ha confessato tutto. Perfino il sindaco (Aldo Giuffrè), che appoggia il progetto, viene ammazzato. Al culmine della faida, gli uomini di Barresi irrompono in un cantiere di Crupi, travestiti da poliziotti, e fanno una strage. Durante il lungo dibattimento, a tratti eccessivamente verboso e ripetitivo, la sfilata dei testimoni, impauriti e decisi a salvaguardare inannzitutto la propria pelle, delinea un quadro disarmante di una Sicilia totalmente controllata dagli uomini d’onore; politici e uomini di chiesa sono perfettamente allineati con questi ultimi. Invano il coraggioso procuratore (Enrico Maria Salerno), contrastato dal subdolo avvocato delle mafie (Gastone Moschin) mostra ai giudici un quadro indiziario di indiscutibile coerenza e forza. C’è perfino chi (Ciccio Ingrassia, molto bravo in un insolito ruolo drammatico), preferisce uccidersi in carcere (su ordine di Barresi, avendo così la certezza che i familiari, rimasti soli, avranno un trattamento amicale) che parlare. I giudici assolvono tutti (con l’eccezione del reo confesso).
L‘impianto teatrale del racconto è evidente ed è l’unico limite di una pellicola che possiede numerosi pregi. Gli eventi si snodano nel racconto in aula mentre le illustrazioni esterne (i flashback) si rivelano
inserti dal carattere sbrigativo e un po’ artificioso, la cui finalità ultima è quella di nascondere l’origine letteraria del lavoro. Per il resto il notevole cast lavora in modo intenso e convincente (ci sono anche Mariangela
Melato e Riccardo Cuicciolla) mentre la vigorosa musica di Morricone aumenta la drammaticità dell’insieme. Rimane il fatto che, ancora una volta, un quadro politico così nero, con tutti i notabili della città (dagli
avvocati ai costruttori, dai politici ai sacerdoti), coinvolti nel gioco mortale, delinea una realtà sociale che può vivere solo entro quegli schemi di diffusa illegalità. Ad opporvisi sono, di fatto, solo figure modeste, di
classi sociali inferiori, la cui sopravvivenza è palesemente legata al potere dei mafiosi. Questi ultimi, tra l’altro, sembrano essere anche gli unici che portano il lavoro (costruiscono moderni condomini, progettano dighe... )
e dunque finiscono con l’occupare la totalità dell’esistente. Questo cinema antimafioso, paradossalmente, nel suo dipingere una mafia dall’enorme potere, invischiata in tutti gli affari dell’isola, finisce per descrivere un
realtà kafkiana e inamovibile, che
nessuno, sano di mente, può pensare di combattere in solitudine. L’episodio toccante di Ciccio Ingrassia che, messo alle strette dal procuratore, preferisce uccidersi per garatire un futuro ai propri figli, è la riprova ultima di questa situazione disperata. La mafia sembra, in questo cinema, coincidere con lo stato e gli unici a fare una blanda opposizione sono figure emblematiche di quella cultura socialcomunista che sono fortemente minoritarie nel sud Italia e che, peraltro, sono vicine a ideali ugualitari che, al di là della cortina di ferro, vengono difesi con forme di dittatura peggiori di quelle dei clan mafiosi.
Il successo fu buono.
Un mese dopo esce Abuso di potere
(mar. 1972; 95 min.), ultima pellicola della breve filmografia di Camillo Bazzoni, pellicola che ripete personaggi e situazioni di Confessione di un commissario di polizia... , pervenendo a un esito perfino superiore.
Il commissario Miceli (Frederick Stafford), un tipo determinato e violento, indaga sulla morte misteriosa di un giornalista (Umberto Orsini) che aveva messo le mani su informazioni decisive intorno a un misterioso boss
mafioso che dirige il traffico di droga a Palermo. I suoi superiori, evidentemene collusi con la mafia o rassegnati a non poterla combattere apertamente, cercano invano di contenerne le devastanti iniziative con cui il
protagonista, agendo in modo semiclandestino (per non farsi bloccare), arriva ad arrestare il temuto criminale (Corrado Gaipa), pur con prove indiziarie assai deboli. La reazione della mafia non si fa attendere: dapprima i
testimoni secondari (la povera Marilù Tolo) vengono ammazzati e nel finale, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, tocca a Miceli, abbandonato da tutti. Il racconto, ambientato in una Palermo invisibile (in realtà spesso si
tratta di Salerno), ritmato dalle sonorità di Ortolani (già autore del soundtrack di Confessione di un commissario... ), possiede una propria, insolita e inquieta cifra kafkiana: Miceli combatte contro un nemico invisibile e subdolo, che controlla ogni sua mossa senza mai uscire allo scoperto. L’uomo si accompagna con una prostituta del clan (Marilù Tolo) che ha il compito di controllarlo e di riferire; intorno alla coppia si stende una sottile ragnatela (si veda l’ottima sequenza nella elegante casa da gioco) che rende inutili gli sforzi di Miceli. Nello splendido finale infatti l’uomo viene ucciso in una cabina telefonica da un sicario invisibile così come, per tutto il film, è stato controllato da poteri forti dai mutevoli volti. I suoi stessi superiori sono ambigui e quasi certamente legati alla mafia (a differenza del film di Damiani, qui non c’è alcun magistrato zelante ad aiutare, seppur con qualche perplessità, il protagonista), anche se essi non lo ammettono mai esplicitamente.
Abuso di potere è una splendida illustrazione di un’Italia in cui il potere dello stato e quello delle mafie coincidono drammaticamente, non lasciando alcuna possibilitùà alle forze dell’ordine di lottare alla pari con i propri nemici. Meno verboso ed enfatico del film di Damiani, la pellicola di Bazzoni possiede una cifra opaca e fortemente realistica che scuote lo spettatore, restituendogli un quadro senza speranza. Miceli è, fin dall’inizio, un morto che cammina e la sua battaglia appare sempre quella di un perdente. Anche il sottotesto familiare - l’uomo sta divorziando dalla moglie - è malinconico, finendo col dipingere un uomo quasi paranoico, completamente assorbito da una lotta impari e disattento alle esigenze dei suoi familiari, da cui, appunto, ha finito per separarsi.
Il quadro è così nero che il racconto complessivo non risulta neppure essere un monito o un film di cosiddetta denuncia; è semmai, una constatazione rassegnata intorno a una regione in cui il dominio incontrastato della
mafia è una realtà impossibile da sovvertire, con la quale la maggioranza della società meridionale sembra convivere senza eccessivi problemi.
Eriprando Visconti si cimenta nel film di denuncia con Il caso Pisciotta
(nov. 1972; 100 min.), pellicola incisiva grazie soprattutto ad una efficace ambientazione carceraria e a ottimi interpreti. Nel suo descrivere una realtà ferreamente controllata da padrini inflessibili che rispondono a precisi comandi dello stato democristinao, la pellicola è una perfetta macchina propaganda socialcomunista.
Il film inizia dove terminava Salvatore Giuliano (Rosi, 1961) ovvero con la morte per avvelenamento di Gaspare Pisciotta (feb. 1954) all’Ucciardone di Palermo. Qualcuno lo avvelena e il film indica inequivocabili complicità tra mafiosi di basso ed altro rango, guardie e dirigenti della struttura carceraria. Anche fuori dall’Ucciardone, nella Palermo degli imeprenditori e della magistratura, nessuno vuole scoprire chi ha ucciso Pisciotta; l’unico a volere fare chiarezza ad ogni costo è il solito eroe irreprensibile ed incomprensibile, il magistrato Scauri (Tony Musante) che ha contro tutti, compreso il padre, un potente imprenditore colluso come tutti. Ciononostante l’uomo di legge tiene duro mentre due autorevoli padrini (Sarò Urzì e Salvo Randone), che vivono in carcere come in un albergo di lusso, lo avvisano più volte di lasciar perdere. Scauri non ascolta nessuno e come unico risultato ottiene che due testimoni, che gli hanno dato fiducia, finiscano ammazzati o evirati (Michele Placido). Nel finale lo stesso Scuri verrà fatto sparire dalla mafia.
Visconti gira con mano sicura e il racconto è avvincente. Il difetto, tuttavia, consiste nel fatto che questo assurdo magistrato non è mai esistito e dunque è inutile scomodare un evento storico reale (e a tutt’oggi privo
di verità giudiziaria) per costruirvi un racconto di fantasia. Non a caso gli unici personaggi che condividono l’atteggiamento rivoluzionario di Scauri sono donne - in particolare sua madre, sua sorella e la sua amante (Carla
Gravina) - nel segno del consueto auspicio socialcomunista di una prospettiva differente ovvero matriarcale come presunta soluzione pacificatoria rispetto al regime patriaracale che segna di fatto le culture meridionali. La
pellicola si concentra sugli sforzi del coraggioso magistrato e lascia in ombra le questioni relative al memoriale di Pisciotta e alle responsabilità politiche che la politica romana aveva nei confronti di Giuliano e della
strage di Portella (1947): questi fondamentali aspetti vengono liquidati con le consuete vuote allusioni mentre il regista perde tempo con l’episodio collaterale del rapporto amoroso di Scauri e della sua farmacista, episodio
che costituisce la parte più mediocre del film. La pellicola fu un fiasco commerciale.
Gli amici degli amici hanno saputo (gen. 1973; 95 min.) è il primo ed unico film di Fulvio Marcolin. Si tratta di un’insolita combinazione di cinema neorealistico, racconto mafioso e melodramma.
Vincenzino (Gino Milli) e Annuziata (Simonetta Stefanelli), due giovani siciliani nullafacenti vengono indotti dal reclutatore Camarro (un efficace Pino Caruso) ad abbandonare il miserabile paesino natìo per tentare la
fortuna a Torino. Il loro ingresso, stupefatto, nella metropoli rimanda al celebre arrivo a Milano di Rocco (Visconti, 1960). In breve tempo la coppia fa strada: il giovane diviene il braccio destro di Camarro, spietato
capobastone addetto alla riscossione dei crediti presso povera gente che aveva fatto arrivare, in precedenza, nella cità della Fiat; la giovane, dopo una breve esperienza in fabbrica, opta per lo strip-tease in differenti
locali, sebbene il geloso e “arcaico” fratello la ostacoli in ogni modo. Sotto la guida del loro importante padrino, un avvocato che sta per presentarsi alle elezioni, la loro ascesa è certa. Soprattutto Annunziata appare
decisa a troncare ogni legame con usi e costumi del sud mentre Vincenzino, a tratti, appare perplesso di fronte alla modernità ugualitaria del nord industriale. L’ultima parte del racconto vira verso il meldoramma in modo
artificioso: come avrebbe voluto fare il pugile Rocco (Visconti), Vincenzino e Annunziata laciano tutti; rubano una forte somma e tornano al paesino dopo una lunga e felice vacanza incestuosa. Si suicideranno. La pellicola è
molto buona nella prima parte: l’ambientazione torinese è eccellente tra casermoni miserrimi (degli immigrati) e interni lussuosi (dei mafiosi), piazze eleganti e manifestazioni operaie, il tutto “rubato” alla vita quotidiana
della città. Insomma un documento notevolissimo entro il quale si muovono con naturalezza le figure dei poveri meridionali, bistrattati e costretti a vivere in condizioni orrende (ma in fondo non troppo differenti da quelle cui
erano abituati nel loro meridione) come pure quelle dei notabili arricchiti con il malaffare. Ovviamente in questo racconto semineorealistico il padrino, uomo solo e senza una vera famiglia (gli fa compagnia la prostituta
Hélène Chanel), appare come una figura losca e deprecabile, priva di qualunque grandezza e la sua ricchezza viene descritta con evidente disprezzo. Anche la capacità dei due protagonisti di sfruttare le loro doti di
giovanile baldanza e piacevolezza sono messe a fuoco con precisione, in un crescendo credibile e vivace. Peccato che poi si affacci un tono moralistico e inverosimile allorchè la coppia decide di buttare a mare tutto in nome di
un’attrazione innaturale che li porta a chiudersi in un rapporto incestuoso e a morire. La vicenda appare, a questo punto, talmente singolare da divenire totalmente priva di significati generali o emblematici: invano qundi
Marcolin e lo sceneggiatore Sonego cercano di farne una parabola morale di sapore anticapitalista (nello stesso mese esce Trevico Torino di Scola, pellicola che possiede tratti simili al film in questione nel trattare il dramma di una gioventù a disagio con i ritmi della Fiat e con le usanze di Torino) poichè la svolta caratteriale dell’ultima parte è immotivata e pretestuosa, utile solo a condurre verso un finale spettacolare e inatteso. In fondo ai due protagonisti era andato tutto più che bene, anche se avevano dovuto adeguarsi ad uno stile di vita radicalmente differente da quelo del sud. Anche il facile moralismo intorno alla ricchezza di pochi e alle disgrazie di molti appare generico e superficiale: in fondo nulla impedirebbe a quegli operai, che vivono in una Torino marginale, di riprendere un treno con cui tornare al loro paesello...
Gli incassi furono appena discreti.
Nel 1973 il cinema politico dell’antimafia si confonde con i prodotti di mera imitazione relativi al clamoroso successo internazionale di The Godfather (mar.
1972; in Italia, dopo alcune anteprime autunnali, la pellicola di Coppola esce nel dic. 1972) ed anzi questi ultimi, spesso animati da una visione antitetica a quella del cinema “civile”, finiscono con l’eclissare stile e
intenti del primo. E’ il caso de Il boss (gen.1973; 100 min.), conclusione dell’ottima trilogia nera di Fernando Di Leo (dopo Milano calibro 9 e La mala ordina; vedi). Vi si narra la guerra di mafia
che sta insanguinando Palermo: da un lato il clan del potentissimo Corrasco (Richard Conte), ad un tempo padrino ed uomo politico, e dall’altro quello di Cocchi (Pier Paolo Capponi). L’uomo chiave della vicenda è il glaciale
killer Lanzetta (Henry Silva) il quale lavora per il primo e dà una caccia spietata a Cocchi il quale, nel frattempo, ha rapito la figlia (Antonia Santilli) di un boss del gruppo di Corrasco. Quest’ultima, anzichè ribellarsi,
soggiace volentieri ai desideri dei mafiosi che l’hanno rapita, in omaggio alla filosofia hippy dell’amore di gruppo. Tra agguati e violenze inaudite si giunge alla progressiva eliminazione di tutti i protagonisti, compresi i due boss. Si salva solo Lanzetta. Sullo sfondo ci sono un disilluso politico (Mario Pisu) dell’antimafia, un esagitato questore (Vittorio Caprioli), conscio dell’impossibilità di combattere la mafia e consapevole del fatto che il suo principale commissario (Gianni Garko) è un uomo al servizio dei clan. Il complicato quadro è arricchito dall’ottimo Corrado Gaipa alias avvocato Rizzo nel ruolo di un cinico mediatore tra livello mafioso e universo politico.
Pur trattandosi di un film di genere, violento e serrato, denso di colpi di scena, alcuni imprevedibili, Il boss affronta senza remore il problema politico e descrive in modo esplicito (il film venne addirittura querelato e sequestrato per alcune sue chiare allusioni) una mafia onnipotente - alleata di ferro di un preciso schieramento politico - senza la quale sarebbe impossibile governare il territorio. Il livello politico, attraverso le figure di mediazione, sa di dovere fare accordi con il padrino vincente. Tutto questo viene detto in una pellicola che viene vent’anni prima degli scottanti e tragici fatti del 1992-94 e della cosiddetta “misteriosa” trattativa tra uomini dello stato e della mafia. All’epoca del film di Di Leo le correnti fanfaniane e androeottiane si contendevano i voti controllati dagli uomini d’onore; come è noto Andreotti affronterà, a Pealermo, un interminabile e controverso processo intorno a questi eventi.
Lo sguardo di Di Leo è lucido e nichilista: non vi sono personaggi positivi, tanto meno eroi che denunciano le malefatte del sistema, pronti a lottare per un mondo migliore come nel cinema di Damiani; tutti hanno le loro
responsabilità in un gioco delle parti che è noto a tutte le persone sensate (ma non alle anime belle). In una Palermo grigia e periferica, commentata da aggressive sonorità progrock, sopravvive il più forte, furbo e anche
fortunato. Ogni guerra di mafia mette in crisi solo per un breve periodo l’organizzazione sociale la quale, terminato il conflitto, torna ad essere saldamente governata dai vincitori. Roma assiste impotente. Anche l’unico
personaggio animato da una visione differente - la giovane e bella prigioniera legata alla nuova visione pacifista e dolcemente contestataria del mondo - fa una brutta fine: la sua indifesa e sensuale ingenuità femminile
(l’intero movimento hippy è un’emanazione dell’animo femminile) è facile preda in un universo dominato dalla violenza maschile che la considera una ninfomane malata. Di Leo, cinque anni dopo, girerà un intero film intorno all’impossibile confronto tra femminismo hippy e società patriarcale: Avere vent’anni (1978; vedi).
Gli incassi furono appena discreti.
Umberto Lenzi, esperto nel thriller psicologico, esordisce nel racconto criminale col mediocre Milano rovente
(feb. 1973; 100 min.), nel quale il regista clona, senza estro, situazioni de Il padrino (Coppola, 1972) e de Joe Valachi (Young, 1972) mentre il tittolo allude, erroneamente, al genere “poliziottesco”. In una
Milano grigia ed efficace si fronteggiano due clan: quello mafioso del siciliano Cangemi (Antonio Sabato, poco convincente nel ruolo del boss mafioso) e del francese Daverty (Philippe Leroy). Quest’ultimo pretende che Cangemi
si associ a lui nello spaccio della droga, utilizzando il suo ramificato giro di prostitute. La vicenda procede in modo ripetitivo e fiacco, dipingendo un infinita serie di agguati, sparatorie, sequestri e ricatti tra le due
bande, senza che mai le figure principali del racconto subiscano il minimo danno; la polizia, invece, sta a guardare. Si giunge, nelle ultime immagini, all’attesa ecatombe con la morte di quasi tutti i protagonisti. Il film,
girato soprattutto in spazi chiusi, è logorroico (offrendo, peraltro, dialoghi scadenti) e privo di vera tensione (spesso anzi si scade in un macchiettismo ridicolo) cui si sostituisce il gusto per il particolare orrendo e
disturbante. Come ne Il padrino c’è l’agguato in ospedale e la parentesi siciliana, mentre da Joe Valachi si riprende l’idea della tortura e della violenza efferata (il braccio destro di Cangemi viene sequestrato e torturato dal francese). La colonna sonora di Rustichelli è anch’essa, ripetitiva e modesta, i numerosi episodi pseudosentimentali (la vecchia madre, le amicizie virili, la storia d’amore di Cangemi) sono quasi inguardabili mentre in ruoli secondari - anch’essi poco convincenti - ricordiamo la presenza di Tano Cimarosa e Marisa Mell.
Tra le peggiori imitazioni de Il padrino troviamo La mano nera
(mar.1973; 95 min,), diretto da Antonio Racioppi al suo penultimo film. Il regista, autore sopratttto di commedie, appare a disagio con questa materia e il suo stile oscilla inutilmente tra situazioni da semplice commedia alternate a episodi violentissimi.
La vicenda è quella dell’immigrato Antonio (Michele Placido) nell’America degli anni trenta, lavoratore sfruttato che abbandona i cantieri per la vita criminale. Si lega a un capomafia (Philippe Leroy) e fa rapidamente
carriera. L’assassinio di un importante uomo politico repubblicano farà precipitare le cose: inseguiti dal poliziotto Joe Petrosino (Lionel Stander), i due scappano in Sicilia e finiscono entrambi in galera. Il primo viene
avvelenato dai compari, il secondo viene ucciso poco dopo. La pellicola riprende solo il contesto storico del capolavoro di Coppola, reso in modo grossolano da scenari palesemente teatrali (il film è stato interamente
girato a Roma... ). Le figure sono inverosimili e macchiettistiche, povere caricature senza vita, comprese quelle dei protagonisti mentre le situazioni sono prive di qualunque originalità.
Altrettanto mediocre risulta Baciamo le mani (feb. 1972; 100 min,), opera d’esordio di Vittorio Schiraldi, tratta dal suo romanzo omonimo (1972). In una
Palermo poco valorizzata assistiamo all’ennesimo scontro tra clan: da un lato l’anziano e saggio padrino Angelino Ferrante (Arthur Kennedy) con un esercito di figli, una nuora (Agostina Belli) destinata a fare una brutta fine e
un consigliori; dall’altro il perfido Ardizzone (John Saxon), deciso ad ammazzare chiunque gli impedisca di realizzare un’importante speculazione edilizia che gli aprirà le porte della cupola degli uomini d’onore. Tra agguati e
violenze di ogni genere si giunge alla ecatombe finale: tutti i protagonisti dello scontro muoiono. La pellicola gira a vuoto: recitatata in modo sommario, popolata di tempi morti e dialoghi banali, scontata in ogni sua
svolta narrativa, arriva stancamente alla fine. Le situazioni, clonate dal capolavoro di Coppola, sono decisamente troppe e contribuiscono a far naufragare il lavoro. Gli incassi furono discreti.
Non così negativo risulta invece La padrina (mar. 1973; 100 min.), imitazione girata con pochi mezzi da Giuseppe Vari in una Palermo periferica e grigia.
Costanza (Lidia Alfonsi), la moglie di un boss americano ucciso a tradimento, rientra in Sicilia con il proposito di vendicarsi. I suoi uomini, però vengono sterminati dal misterioso capo della mafia palermitana, Saro
Giarratana, che finisce però per innamorarsi della donna e per stringere con lei
un nuovo patto mafioso. Caterina sta al gioco ma finge: nello spettacolare finale fa uccidere tutti gli uomini più pericolosi della cosca nemica e fa eliminare Saro con un razzo anticarro (il boss circola con un’inattaccabile auto blindata). Vicende secondarie riguardano un giornalista (Anthony Steffen) che investiga inutilmente sui misteri della mafia e un procuratore corrotto (Umberto Raho).
Partendo da una vicenda dozzinale, nonchè ampiamente ricalcata sul film di Coppola, il regista riesce tuttavia a creare un clima kafkiano di un certo itneresse; inoltre la scelta di attori validi come Lidia Alfonsi, Venando
Venantini, Umberto Raho, Orchidea De Santis e Anthony Steffen (nel ruolo di un giornalista destinato a morete certa) conferisce al prodotto, formalemente assai povero, un certo interesse. Come nel modello americano, lo
sguardo sul tessuto mafioso è privo di particolare indignazione; anzi, la figura della protagonista, sostanzialmente una criminale senza scrupoli che traffica in droga, è dipinta come un’eroina (come accadeva per la maggior
parte dei componenti della famiglia Corleone in Coppola), grazie anche alla buona prova della Alfonsi; la pellicola, pertanto, si situa nel settore politico antitetico a quello progressista di Damiani e Rosi.
Interessante risulta anche l’ultima fatica di Luigi Vanzi, Piazza pulita (mar. 1973; 100 min.), pellicola in cui il regista offre sostanzialmente un remake del suo mediocre western Un dollaro tra i denti (1966; vedi), film che aveva inaugurato la quadrilogia relatica allo Straniero.
In un’America rurale datata 1930 Peter, un simpatico gangster (Tony Anthony non silente come ai tempi dello Straniero), si associa con Polese, un boss mafioso (Adolfo Celi), per rapinare una gang rivale (cui appartengono
Irene Papas e Corrado Gaipo che fanno poco più di una comparsata). Il colpo riesce ma al momento della spartizione Peter viene cacciato in malo modo, nonchè minacciato di morte. Quest’ultimo prepara allora una meditata
vendetta: rapisce Perla, la donna del capo (una bella ed espressiva Lucretia Love) e si fa restituire il maltolto. Inizia una girandola di copi di scena, violenze e torture, fughe, agguati e inseguimenti alla fine dei quali
Peter, malconcio ma ancora determinato, irrompe nel covo del boss durante un piovosa notte di Natale e, tra le suggestive luci di un albero natalizio e i canti di Jingle Bells, fa una strage. Ferito amorte però Peter si
accascia poco dopo e Perla fugge con i soldi di tutti quanti. Sebbene il film sia stato girato con pochi mezzi, esso mostra tuttavia scenari campestri credibili e ben fotografati, attori in ottima forma, un ritmo narrativo
invidiabile e svolte non tutte prevedibili. Il modello del film è solo superficialmente Il padrino di Coppola, poichè la fonte di ispirazione reale è il cinema gangsteristico di Roger Corman con particolare riferimento a
quel piccolo capolavorro che era La legge del mitra (Machne Gun Kelly, 1958; con Charles Bronson). Numerose sono le sequenze memorabili: il rapimento di Perla con un paio di gangster ammazzati in una latrina, la
presunta esecuzione mortale di Peter su un complicato macchinario industriale che tratta il carbone e il gran finale sotto la pioggia, tra le luci di una festa di Natale conclusa nel sangue. Piazza pulita, tra l’altro,
anticipa scenari e situazioni chiave del magnifico Gli spietati (Eastwood, 1992): è probabile che il grande attore e regista americano avesse presente questa pellicola minore del cinema italiano.
Allineato alla cinematografia mafiosa di destra, Piazza pulita è una pellicola cinica e disillusa in cui vi sono unicamente personaggi “negativi”, violenti ed egoisti, in lotta per la sopravvivenza. Manca un orizzonte di valori certi come pure qualunque presenza delle forze dell’ordine.
Ettore Fizzarotti, veterano del musicarello, firma con Sgarro alla camorra
(mar. 1973; 90 min.), il suo ultimo film, un originale incrocio di sceneggiata napoletana e racconto mafioso, ispirato al capolavoro di Coppola. Il camorrista Andrea Staiano (Mario Merola), appena uscito di prigione (dove
aveva pagato per un omicidio commesso da un superiore in scala gerarchica), si ritrova al centro di una faida tra Cecere, il suo amico di un tempo (Giuseppe Anatrelli) e il capo camorra detto il grande zio (Sarò Urzì che imita
Marlon Brando). Mentre il primo si rivela un perfido doppiogiochista, pronto ad ammazzare chiunque pur di salire in cima alla piramide, il secondo si muove con nobile saggezza, sventa le trame del meschino rivale e ricompensa
Andrea per la sua fedeltà al sistema camorristico. Se Il Padrino di Coppola costituiva un’inattesa elegia al sistema mafioso, la pellicola di Fizzarotti ne ricopia lo spirito (ed anzi lo accentua) nella sua ammirata descrizione del sistema camorristico napoletano. La pellicola, girata quasi interamente all’aperto, con sicuro senso del paesaggio partenopeo, possiede un buon ritmo, interpreti convincenti (in ruoli minori troviamo Silvia Dionisio e Dada Gallotti) e personaggi ben disegnati. Anche gli intermezzi canori, abbastanza contenuti, riescono a inserirsi nel flusso di immagini senza provocare eccessivi danni.
Sgarro alla camorra, pellicola tutta interna al sistema malavitoso (non compare neppur un poliziotto), costituisce il film più antitetico a quelli del filone civile di Damiani: per Fizzarotti e Merola il bene e il male esistono, ma vivono entrambi all’interno di coordinate camorristiche mentre in nessun momento si mette in discussione la saggezza del grande zio e il suo diritto-dovere di governare la Napoli delle misere periferie e dei solerti pescatori.
Demofilo Fidani, specialista di western, gira con La legge della camorra
(apr.1973; 85 min.) il proprio unico contributo al genefe mafioso. Si tratta, quasi certamente, del peggiore film del filone. In una Roma (i quartieri Eur) spacciata per la New York degli anni trenta (!!) assistiamo
all’abituale scontro tra due clan, i Liguori e i Miceli, in guerra. Violenze a ripetizione, anche piutosto efferate, in un contesto di noia assoluta. Gli attori, abbigliati in modo quasi macchiettistico, recitano
costantemente sopra le righe rendendo l’insieme privo di qualunque verosimiglianza e dunque stucchevole dopo i primi dieci minuti, tanto più che il racconto si svolge (per scarsità di mezzi) soprattuto in interni, tra tempi
morti e dialoghi senza interesse. Gli incassi furono scarsi.
Anche Tessari si inserisce nel filone con un film notevole, ambizioso e solo parzialmente riuscito: Tony Arzenta (ago 1973; 110 min.). Tony (Alain Delon) è
un importante e fidato sicario della mafia che vuole uscire dal giro; il suo padrino (Richard Conte) avanza perplessità e la cupola europea, interpellata, decreta invece la morte per il killer. Però gli esecutori sbagliano e
l’auto del protagonista salta in aria con dentro sua moglie e suo figlio. Inizia una terrificante sequenza di omicidi, pianificati da Tony che ormai vive solo per uccidere. I capimafia vengono eliminati a Milano, Copenhagen e
su un treno partito da Amburgo in scenari sempre suggestivi, gelidi e autunnali. Tornato in Sicilia, Arzenta accetta le proposte di pace del suo vecchio padrino e si reca al matrimonio della figlia di quest’ultimo, certo che
nulla potrà accadergli in una simile giornata di festa; ed invece, ripetendo (solo in parte) lo schema finale de Il padrino, il protagonista viene ammazzato a tradimento dal suo amico più fidato... La pellicola
riprende gli schemi usuali inaugurati dall’opera di Coppola, descrive l’universo mafioso come popolato da personaggi di differente caratura, malvagi alcuni, dignitosi altri e ne ripete l’ideologia di fondo per cui chi entra in
quel mondo non può più uscirne. Continua a valere l’idea che le mafie - qui connesse a livello europeo - dominino la realtà sociale mentre anche la polizia sia largamente impotente a vincerle. Nel caso specifico un mediocre
commissario (Silvano Tranquilli) confida a Tony che le forze dell’ordine lo proteggono nella segreta speranza che egli riesca ad eliminare pesonaggi altrimenti inattaccabili. La tragedia conclusiva, dunque, è prevedibile e
coerente. Ciò che non funziona nel finale è l’avere collocato il delitto (per motivi spettacolari) nel contesto di una festa nuziale, evento totalmente inverosimile laddove nei film di Coppola questi regolamente di conti
avvengono in una semplice contemporaneità temporale con i rituali religiosi, senza inficiarli. Altro pnto debole del racconto è costituito dalle parentesi malinconiche in cui un Alain Delon, sempre all’altezza del proprio
ruolo, si aggira dolente tra ricordi familiari di varia natura. Nonostante l’accuratezza dell’inquadratura, spesso assai orginali, tali soste narrative appaiono melense e poco ispirate. Anche il contesto mafioso, sebbene
utilizzi un cast di prim’ordine (Corrado Gaipa, Umberto Orsini, Marc Porel, Carla Gravina, Rosalba Neri... ) appare schizzato superficialmente e ampliato a un contesto europeo abbastanza generico. In ogni caso Tony Arzenta appare un interessante tentativo di coniugare il cinema mafioso europeo con il noir di Melville dal quale viene ripresa, pressochè integralmente, la figura monolitica e solitaria del protagonista, memore degli indimenticabili ruoli de Le samourai e La cercle rouge (Melvielle, 1967, 1970).
La pellicola fu salutata da un ottimo successo comemrciale.
Steno, firmandosi Stefano Vanzina (cognome per esteso che utilizza solo quando intende sottolineare la particolare serietà dell’opera), dirige Anastasia mio fratello
(ago 1973; 120 min.), pellicola sceneggiata da Alberto Sordi e da Sergio Amidei, che affronta il tema della mafia italoamericana in maniera non troppo dissimile da quello conservatore e compiaciuto presente nell’opera di Coppola/Puzo.
Un semplice parroco di campagna, Salvatore Anastasia (A. Sordi), lascia la natìa Tropea per raggiungere il fratello Alberto (Richard Conte) a New York. Giunto a Brooklyn, l’ingenuo sacerdote scopre che suo fratello è una
sorta di capo rispettato e (forse) amato dalla sua gente. Anche le inziaitive di Savatore (il rimodernamento di una chiesa, l’apertura di uno spazio per i giovani), riceve tutto l’appoggio possibile dalla comunità
italoamericana che sembra soggiogata dal nuovo arrivato. Nel giro di poche settimane, tuttavia, l’uomo comprende che il benessere degli italiani si basa su truffe, che chi sgarra viene ucciso (tenteranno di far fuori perfino
lui) e che l’amore verso Alberto si confonde con la paura. La delusione è cocente, tanto più quando Alberto viene arrestato, accusato di innumerevoli omicidi ed infine condananto (ma solo per evasione fiscale). Nel frattempo
l’anziano prete amrricano con cui collabora, gli spiega che suo fratello è stato una sorta di eroe locale, organizzando un duro sindacato in grado di fronteggiare la strapotere dei padroni anglosassoni e di difendere i diritti
dei lavoratori immigrati dalla penisola. Salvatore (e con lui anche lo spettatore italiano) lentamente si ricrede, comincia a guardare alla “giungla d’asfalto” statunitense con occhi diversi. Il finale è tragico: scarcerato,
Alberto viene ucciso e Salvatore se ne torna in Italia. Ispirato a fatti veri e documentati (in un libro omonimo), il film appare, ad uno sguardo superficiale, un innocente veicolo per la comicità di Sordi, nella sua terza
escursione in terra anglosassone (dopo Un italiano in America e Fumo di Londra; vedi), terra assai poco amata e compresa dal comico romano che non fa certo mistero della sua ottica conservatrice e nazionalista. Il
film possiede infatti un taglio prevedibile e mischia, in maniera poco soddisfacente, commedia e dramma, macchiettismo e violenze efferate. Ciononostante la pellicola possiede sottintesi tutt’altro che scontati ed anzi centrali
nel panorama politico italiano. Il filone “mafioso”, come si è detto, inizia con pellicole di veemente denuncia che hanno, ovviamente, un sapore progressista e socialcomunista, un’ideologia quest’ultima fortemente
minoritaria nelle regioni meridionali della penisola. L’irruzione dell’insolita saga de Il padrino, un film che per la sua forza espressiva e per il suo splendore figurativo possiede una forza d’urto ineguagliabile,
introduce un punto di vista antitetico: la mafia è una società segreta settaria e crudele che, però, difende i suoi membri da un contesto altrettanto duro e spesso fortemente “anglosassone” e blindato contro gli italiani.
Questo punto di vista finisce con l’animare Anastasia mio fratello, film che parla degli Usa ma è prodotto da italiani e si rivolge, innanzitutto, al mercato interno. La figura di Alberto Anastasia è ottimamente
itnerpretato da un Richard Conte (non a caso presente nel film di Coppola) monolitico e umano al tempo stesso, uno dei padrini più vicini alla grandezza dell’originale (Marlon Brando). Se la figura delineata da Sordi finisce
con l’essere una sorta di doppione dello spettatore il quale, appunto, si introduce, ingenuo e incredulo, in un universo che fatica a comprendere, d’altro canto la figura dell’anziano prete americano, ben altrimenti
consapevole, racconta un’America cinica e dura, nella quale anche i mezzi disonesti e violenti di Anastasia hanno una loro giustificazione. Tutto ciò, raccontato da un povero sacerdote di periferia, acquisisce una forza
politica inattesa ed esplosiva. Quello che si va dicendo è dunque l’opposto di quanto si trova nelle pellicole fiere e frementi di Damiani e Petri: si va dicendo, agli italiani, che l’organizzazione mafiosa, criticabile e
odiosa, possiede tuttavia qualche merito. Se poi ci spingiamo ancor apiù addentro alle cose di casa nostra e pensiamo al difficile rapporto tra una certa parte della DC (soprattutto l’ala andreottiana) e la mafia siciliana, ci
sembra di vedere nel falsamente innocuo e candido racconto di Steno e Sordi ben altri sottintesi politici: la mafia è un male necessario per difendere la Tradizione contro forze esterne, moderne, progressiste e sostanzialmente
straniere (sovietiche) che vogliono sovvertire l’ordine secolare delle cose e introdurre una nuova civiltà atea, materialista e perfino vagamente matriarcale. In tal senso anche persone di notevole dirittura morale, come quelle
al servizio della cupola di San Pietro, sono costrette a venire a patti con queste realtà criminali che, fedeli alla propria storia e ai loro interessi economici e politici, sono decise a difendere l’ordine esistente con ogni
mezzo. In fondo la storia italiana del dopoguerra, da Portella delle Ginestre al caso Moro e oltre (il lungo processo Andreotti degli anni novanta) è imperniata proprio su questo fragile e spregiudicato equilibrio, anche se
nessuno osa raccontarlo in questo modo. Il film ottenne un notevolissimo successo; cadde poi nel dimenticatorio ed è oggi tra i meno noti del grande attore romano, forse proprio per il carattere imbarazzante (soprattutto
oggi, col comunismo sconfitto), delle tesi implicitamente sostenute.
Dodici anni dopo Salvatore Giuliano (1961), Rosi torna a tracciare il profilo di un importante bandito, Lucky Luciano
(ott. 1973; 110 min.) e soprattutto torna a indagare i rapporti occulti che esistono tra grande criminalità e potere politico. Il film racconta le gesta di Salvatore Lucania alias Lucky Luciano ovvero la sua ascesa al
vertice di Cosa Nostra a New York (l’omicidio del suo capo Masseria, 1931), il suo arrivo in Sicilia nel 1946 (graziato per misteriosi meriti relativi alla sua presunta collaborazione con l’esercito americano impegnato nella
conquista del sud Italia, nella seconda metà del 1943), il suo stabilirsi a Napoli da dove dirige un colossale traffico di droga che include il Medio Oriente, la Spagna e gli Usa, con elegante sicurezza e grande cautela, le
inutili indagini del Federal Bureau of Narcotics americano che si scontrano con importanti protezioni politiche di cui Luciano fruisce, l’ultimo interrogatorio presso una caserma della Guardia di finanza e la morte, avvenuta
per infarto, all’aeroporto di Napoli (1962). Gian Maria Volontè, probabilmente il più grande attore del cinema italiano in assoluto, offre una perfetta interpretazione di Luciano, della sua sfrontatezza, delle sue radici
popolari come pure della sua acquisita sapienza nei sottili giochi della Politica. Luciano è un padrino sicuro di sè, acclamato e temuto, non troppo lontano dal Corleone di Puzo/Copppola. L’abissale differenza, rispetto al tono
mitizzante e celebrativo del melodramma americano, sta nel taglio semidocumentaristico, grigio e austero del racconto di Rosi. Non che il regista napoletano riponga eccessiva fiducia nei mastini del Narcotic Bureau, funzionari
qualunque che, forse, come dice Luciano nel finale, più che fare giustizia, vogliono solo fare carriera, acchiappando un pesce grosso e scoprendone i legami con l’alta Politica. Nel suo magistrale racconto il grigiore
quotidiano e gli ampi spazi in cui situa i suoi personaggi (i cantieri navali, le grandi sale riunioni all’Onu, l’ippodromo di Agnano), tendono a collocare i protagonisti in uno scenario complesso, labirintico ed enigmatico,
entro il quale anche loro figurano come pedine di giochi insondabili e non certo come protagonisti assoluti alla maniera dei Corleone. Questa scelta (che era già quella del Salvatore Giuliano) fortemente realistica fa
somigliare il film a una sorta di esteso cinegiornale e dona al racconto una forza espressiva inedita e brutale: Rosi non propone soluzioni, semplicemente illustra una serie di enigmi dietro i quali lascia intravedere la
soluzione più probabile. Gli americani riportano Luciano in Sicilia col compito di coordinare la nuova classe dirigente mafiosa dell’isola la quale ha il primario compito di controllare il territorio, impedire l’avanzata delle
sinistre (l’episodio tragico di Portella, 1947) e difendere una cultura patriarcale (in continuità col fascismo) certa e priva di sorprese. In cambio la mafia potrà delinquere senza troppi problemi, gestire appalti, gioco,
prostituzione e, in seguito, anche droga. Una situazione che, iniziata nel dopoguerra, si protrae fino al maxiprocesso di Falcone e Borsellino, durant il quale lo scenario cambierà radicalmente. Luciano è, pertanto, uno dei
protagonisti della storia d’Italia che agisce in modo silenzioso e appartato, dalle retrovie. Le mimiche contenute e controllate di Volontè, la sua modesta abitazione borghese a Napoli, l’atteggiamento remissivo perfino di
fronte ad un provocatore (lo schiaffo all’ppodromo) - poi prontamente fatto ammazzare, ma altrove e da altri - delineano un potere sicuro di sè, reso inattaccabile dalla divisione dell’Europa in blocchi (Jalta) e dalla funzione
decisiva che la Mafia detiene nel meridione, facendo da necessario contrappeso ad un nord produttivo, troppo indulgente e pericolosamente affascinato dalle sirene socialcomuniste. Una situazione di equilibri politici
consolidati, che si protrarrà nella lunga stagione delle bombe e del terrorismo, in cui si comprende che l’apporto delle mafie al lavoro dei servizi segreti filoamericani risulta decisivo per arginare l’avanzata comunista.
La pellicola di Rosi è dunque un piccolo capolavoro e una risposta virile e aspra al romanticismo compiacente di Copppola e dei suoi tanti seguaci italiani di cui si è detto. Certamente gli uomini d’onore possono spadroneggiare
in modo grandioso e spettacolare e possono dettare legge nel loro territorio, ma possono farlo solo nella misura in cui hanno stretto un patto di ferro col potere politico democristiano che, di fatto, li ha inseriti dentro le
istituzioni repubblicane. Le correnti politiche (non solo democristiane) che gestiranno tale rapporto, cambieranno nel tempo, fino al finale coinvolgimento di quella andreottiana, senza che ciò significhi molto: inutile cercare
responsabilità individuali in quello che è un blocco di potere inossidabile e necessario; tale patto riguarda più la Storia che la cronaca giudiziaria e tutti coloro che, da dentro lo stato, hanno cercato di scalfirlo, hanno
fatto una tragica fine, magari dopo avere vinto qualche importante battaglia iniziale (esemplari, in tal senso, i casi di Falcone e Borsellino; paradossalmente l’amaro film di Ferrara Giovanni Falcone, 1993, non fa che
ribadire questo stato di cose e finisce per narrare la storia eroica di due perdenti). Rosi si rende conto della vicinanza tra Luciano e i politici (di volta in volta raffigurati da un colonnello americano o da altre figure
secondarie del sistema), la indica con chiarezza fino al disvelamento finale nel fulminante dialogo tra il capitano della finanza e il padrino: quest’ultimo ascolta con sufficienza le domande degli inquirenti, con
l’atteggiamento di chi sa di essere un intoccabile per le cose che conosce, che ha visto e che ha fatto. Nelle battute finali egli chiarisce il suo porsi indifferente e insofferente di fronte all’uomo di legge: quel capitano
finge di cercare verità e giustizia mentre, di fatto, sta solo cercando un modo per fare carriera, impossessandosi di qualche segreto noto a Luciano, all’interno di una sorda lotta, tutta interna alle stanze del Potere.
L’ultima sua intenzione è quella donchisciottesca di migliorare l’Italia e di eliminare la mafia e suoi traffici. D’altronde Luciano lo zittisce ricordandogli che la gente semplice non capirà mai niente dei legami oscuri tra
mafia e politica, necessari a sostenere la stessa sopravvivenza del sistema. Questo stato di cose viene implicitamente indicato da Rosi, il quale accusa i suoi personaggi - mafiosi e politici - di essere partecipi di una
tela criminale orrenda e deprecabile; il regista, essendo figura non secondaria del potente esercito socialcomunista italiano, dimentica però di dire che questa sciagurata santa alleanza è resa necessaria per fronteggiare
ed arginare il pericolo che incombe sulla civiltà italiana: l’avvento di un sistema politico di stampo totalitario-sovietico ovvero del peggiore sistema politico del pianeta. In esso miseria e illibertà dominano il tessuto
sociale in modo talmente ferreo che ancora oggi, quasi tre decenni dopo la caduta del muro, le società che sono passate attraverso quella terribile esperienza, non si sono ancora risollevate. Al taglio melodrammatico
dell’epopea di Coppola, resa indimenticabile dalle meravigliose musiche di Rota, si contrappone un film scabro, dove la musica è del tutto assente (con l’eccezione di qualche brano utilizzato per caratterizzare l’epoca e il
luogo come la Moonlight Serenade di Glen Miller o il popolaresco Santa Lucia), così da impedire qualunque trasformazione dei personaggi di questa cronaca enigmatica in grandiosi protagonisti di un romanzo
lirico-teatrale. Lo stesso Volonte, abituato a giganteggiare (si vedano i suoi indimenticabili protagonisti di Indagine e Il caso Mattei) lavora soprattutto per sottrazione e cerca, per quanto può, di confondersi
con gli scenari dello sfondo, mascherando dietro gesti quotidiani l’importanza del suo Potere. Il film riscosse un successo pieno anche se inferiore a quello sorprendente che aveva salutato Il caso Mattei (1972).
Alberto De Martino, esperto regista di film d’azione ambientati negli Usa (si veda L’uomo dagli occhi di ghiaccio, 1971), gira una discreta imitazione del film di Coppola con
Il consigliori
(nov. 1973; 100 min.), pellicola in cui le cose migliori sono appunto gli squarci urbani (tra S. Francisco, Albuquerque, Palermo e Polizzi Generosa) e l’interpretazione del notevole cast. Tutto il resto lascia alquanto a desiderare.
Il padrino don Antonio (un ottimo Martin Balsam che, dismessi i panni del rigoroso commissario Bonavia, torna in Sicilia nelle vesti dell’uomo d’onore) è sotto attacco: ha concesso al figlioccio Thomas (un bravissimo Thomas
Milian) di ritirarsi a vita privata (la situazione di partenza è simile a quella di Tony Arzenta) e questo viene considerato dai suoi nemici un gesto di debolezza senile. Il capomafia Garofalo (Francisco Rabal al posto
di Barzini/Richard Conte) tenta più volte di uccidere don Antonio; allora Thomas (al posto di Michael Corleone) abbandona la moglie americana (Dagmar Lassander al posto di Diane Keaton) e ritorna sul campo, dimostrandosi il più
freddo e abile di tutti. La gang rivale viene sgominata dopo una serie di scontri, alcuni piuttosto ripetitivi e girati in modo poco interessante. Nel malinconico finale Thomas, però, muore e don Antonio rimane solo (De
Martino, insomma, capovolge il finale de Il padrino, per tentare qualcosa di originale...). La pellicola è sintomatica del rovesciamento avvenuto nel genere del thriller mafioso, dopo l’arrivo del capolavoro di
Coppola, anch’esso in fondo un film molto italiano (una sorta di melodramma non a caso valorizzato dalle indimenticabili melodie di Nino Rota, il più importante musicista italiano della seconda metà del Novecento). Martin
Balsam e Thomas Milian, due star dall’indubbio carisma, interpretano due spregiudicati uomini d’onore: di fatto quel mondo viene ora guardato con un misto di rispetto e ammirazione. Certo si tratta sempre di criminali, ma
criminali dotati di una personalità forte e di un proprio codice d’onore in un contesto sociale in cui poliziotti e politici appaiono corrotti e criminali quanto loro ed anzi peggiori, avendo rinunciato ai loro valori di
riferimento per mettersi al servizio dell’universo mafioso. Vale pertanto quando già detto per il cosiddetto “poliziottesco”: il cinema d’azione di questi autori, considerati ingiustamente marginali, tenta di contrapporsi
all’egemonia progressista che domina il cinema d’autore italiano. Un De Martino utilizza gli stessi attori di Damiani e gli stessi contesti sociali, ma li dipinge con modalità antitetiche: il contesto è totalmente inquinato dai
tentacolari poteri mafiosi e nessun ingenuo uomo d’ordine si sogna di mettersi contro alle cosche; anzi gli eroi (affidati agli stessi attori) ora si situano proprio all’interno di quel contesto che il cinema di Damiani, Rosi e
Faenza condanna senza appello. Nell’insieme il film di De Martino appare debole nell’organizzazione spettacolare; tuttavia la sua visione compatta di un tessuto sociale completamente dominato dal denaro delle organizzazioni
criminali, nel quale la lotta è semplicemente tra compari un tempo amici e ora concorrenti, appare maggiormente realistico e storicamente comprovato (si pensi alle infinite lotte tra i gruppi mafiosi siciliani tra gli anni
settanta e gli anni ottanta). Coloro che rischiano la vita (e spesso muoiono come il ristoratore che dà ospitalità a un don Antonio in disgrazia) lo fanno per onorare debiti pregressi e non per inseguire l’illusione di
rovesciare uno stato di fatto che esiste da decenni. Gli incassi furono modesti.
Non tardano a giungere anche le parodie del film hollywoodiano. Un esito scadente si trova ne Il figlioccio del padrino
(mar 1973; 100 min.) con al centro Franco Franchi (senza Ingrassia) al posto di Al Pacino. Mariano Laurenti spreca un ottimo cast (ci sono Saro Urzì, Carla Romanelli, Laura Belli nel ruolo di Apollonia e Riccardo Garrone) in un film episodico (ambientato tra Roma, Palermo, Aci Reale e Aci Sant’Antonio) in cui nessuno degli interpreti riesce mai a risultare brillante o divertente; l’umorismo si perde in trovate puerili di stampo farsesco, per di più tirate per le lunghe, mentre la vicenda ricopia stancamente gli episodi del matrimonio di Michael e Apollonia, della testa del cavallo mozzata (ora ambientata nel contesto della Rai e di Canzonissima) e termina con una lunga digressione ripresa da La moglie più bella (il rapimento di Carla Romanelli).
Le musiche di Rustichelli cercano di rievocare quelle di Nino Rota. Gli incassi furono modesti.
Ancora peggio vanno le cose ne L’altra faccia del padrino (mag 1973; 110 min.) diretto da Franco Prosperi e affidato all’estro di Alighiero Noschese. La
pellicola ripete l’intreccio originale (Coppola) senza alcuna fantasia, citando per esteso alcuni dialoghi con effetti mortalmente noiosi. L’unico elemento di interesse è costituito dalla presenza brillante di Noschese il quale
si sdoppia (interpreta anche il ruolo di un commediante specializzato in imitazioni...) e, oltre a ripetere la performance di Marlon Brando, imita a tratti Totò e Sordi. Intorno a lui c’è il vuoto ovvero attori di
talento sprecati: Lino Banfi in un ruolo ingessato ed inadatto al suo talento (è il braccio destro del padrino), Guido Leontini (il consigliori), Stefano Satta Flores, Minnie Minoprio e Haidée Politoff.
Gli incassi furono discreti.
Una farsa macchiettistica si trova anche nel mediocre Tutti figli di mammasantissima (mag 1973; 90 min.), sesto e penultimo film di Alfio Caltabiano. Intorno
al 1930, in una Chicago di cartapesta, si affrontano il clan mafioso di Bug Morano (Luciano Catenacci) e la banda dell’irlandese soprannominato Reverendo (Alfio Caltabiano). Tra case da gioco, allegre prostitute e rituali
pseudocattolici gli allegri malviventi se le danno di santa ragione, anche se quasi nessuno si fa realmente male. Tra i personaggi di contorno risaltano Ornella Muti e Tano Cimarosa.
L’umorismo è di grana grossa e non diverte mentre l’intreccio è inesistente.
testo edito nel mag. 2017
|