Marcia nuziale e Il fischio al naso

Marcia nuziale, L’Harem, Il fischio al naso e L’uomo a metà: il maschio soccombente (1966-67)

                  “L’harem non è un film, sono piuttosto appunti
                  per un film da fare”
                  M. Ferreri, Conversazioni (1967)

Con Marcia nuziale (feb. 1966; 80 min.) Ferreri prosegue, in tono minore, le proprie riflessioni sul declino del maschio nel rapporto coniugale, già ampiamente sviluppate nel dittico L’ape regina/La donna scimmia (1963-64; vedi) e nell’episodio di Controsesso. Di fronte a donne sempre più emancipate e “paritarie” le richieste maschili (di obbedienza o anche solo di attenzione) cadono spesso nel vuoto e il rapporto servo-padrone appare ormai ampiamente rovesciato.
Il regista mette in scena quattro episodi abbastanza omogenei nel proprio tono grottesco e surreale. Nel primo il matrimonio riguarda una coppia di cagnolini di razza e racconta le “apprensioni” di un distinto avvocato (Ugo Tognazzi, protagonista di tutti gli episodi) per la propria cagnetta.
Il raccontino, verboso e teatrale come tutto il film, diverte all’inizio, poi risulta stucchevole; vi si segnala l’importanza smisurata che hanno assunto le merci e i simboli del benessere nella consumistica società di metà anni sessanta: il protagonista sembra ormai non avere più alcun rapporto con la moglie ed avere trasferito ogni sua amorevole preoccupazione sulla cagnolina.
Si entra nel vivo con il secondo episodio in cui un marito, assai nervoso, non riesce (da giorni) ad ottenere che la moglie (Gaia Germani) si “sottometta” ai doveri coniugali. La donna, una casalinga efficiente e pignola, lo tiene a bada con un crescendo di scuse e di digressioni verbali (rimproveri di varia natura) che porta l’uomo all’esasperazione. Nessuno dei due appare simpatico (come sempre nei film di Ferreri), ma certamente una sottile misoginia attraversa il racconto accanto alla dimostrazione della evidente dipendenza del maschio (per le proprie “necessità”) dai capricci di un certo tipo di moglie che, accasatasi, tiene il coniuge sulla corda. Il lucido sguardo del regista e dei suoi sceneggiatori (Rafael Azcona e Diego Fabbri) illuminano la radicale differenza e quasi incompatibilità delle figure maschili e femminili. Lo stesso tema si ritrova nel bizzarro episodio newyorchese dove una coppia (Tognazzi-Alexandra Stewart) frequenta un gruppo di dialogo formato da differenti coppie sposate, in cui si discute di problemi sessuali. Il marito ci va controvoglia, si estranea dalla discussione e alla fine, di nascosto, seduce la civettuola padrona di casa (Shirley Anne Field). Nell’ultimo episodio, ambientato in un lontano futuro (il 1990) le coppie sono formate da un individuo reale e un coniuge in formato pupazzo: finalmente ogni problema di incompatibilità è stato risolto.
La pellicola, per quanto modesta (le situazioni sono immobilizzate in lunghi e tediosi dialoghi) ed anche ampiamente sforbiciata dalla censura (avendo come unico argomento l’attività sessuale), conferma la pessimistica visione ferreriana di un contesto sociale basato su convenzioni socialmente utili ma poco corrispondenti alla natura profonda di uomini e donne.
Molto peggio vanno le cose con il pasticciato L’harem (ott. 1967; 95 min.) in cui Ferreri (con Azcona) ripete per l’ennesima volta la medesima tematica dell’ “ape regina” affiancando alla protagonista Carroll Baker un trittico di figure maschili più insulse del solito (Gastone Moschin - Renato Salvatori - William Berger), senonchè nel finale, forse stanco di se stesso e di ripetere sempre il medesimo inno alla emergente superiorità femminile, con un colpo di bacchetta magica, rovescia i caratteri maschili - da personaggi molli e remissivi si trasformano, di colpo, in maschilisti fieri e violenti - spiugendo la loro ansia di vendetta fino al delitto.
A Dubrovnik (i cui scorci sono tra le poche cose interessanti del film), Carroll Baker invita i propri tre amanti (tra i quali non sa e non vuole decidere) a passare una vacanza con lei in un clima hippy: lei si concederà a tutti in modo equo, auspicando una pacifica e piacevole convivenza. I tre uomini - figure opache in un film statico e verboso (sostanzialmente un testo teatrale) oltre il sopportabile - dapprima tollerano poi, nel finale, stringono una virile amicizia ed eliminano la loro padrona, rinnegando il clima matriarcale cui si erano inizialmente sottomessi.
L’harem, avvolto da sonorità jazzistiche adeguatamente “moderne” di Morricone e colorato (è il primo film a colori di Ferreri) con vivaci e decise tinte pastello all’interno di inquadrature spesso attentamente costruite, non decolla mai: ripete la consueta analisi intorno alla nuova donna emancipata degli anni sessanta (questa volta, coerentemente, ella non vuole figli per potere godere appieno della propria riscoperta libertà sessuale) e termina con quel forzato rigurgito di violenza ad opera delle tre figure soccombenti. Nel complesso una pellicola sbagliata (addirittura rifiutata dalla Mostra di Venezia) che non aggiunge nulla alla filmografia precedente di Ferreri.

Ugo Tognazzi firma la propria seconda regia, Il fischio al naso (mar.1967; 110 min.), al culmine di un’epoca intensamente ferreriana (L’ape regina, La donna scimmia, Controsesso, Marcia nuziale e il successivo Harem). Il soggetto infatti, per quanto tratto da un breve racconto di Buzzati (Sette piani, 1937), viene ampiamente rivisto e adattato a tematiche decisamente assenti nel ventennio fascista, da Rafael Azcona mentre nel cast figura anche Marco Ferreri.
La vicenda è presto detta: un industriale, iperlavoratore e fanatico del consumismo usa e getta, entra nella clinica Salus Bank per un banale fischio al naso che viene risolto dai medici in pochi minuti. Dopo di che, però, gli stessi non mollano la preda ed inducono nel falso paziente una serie di malesseri che lo porteranno lentamente alla morte attraverso una lunga agonia. La famiglia borghese, ritratta secondo schemi caricaturali e antonioniani, si disinteressa di lui (la figlia è impegnata con un aborto a Stoccolma, la moglie con il suo amante), mentre l’uomo sale i sette piani della clinica verso il “paradiso”. L’ultima sequenza, con il protagonista isolato e solo in un piccolo letto, ripete la conclusione beffarda e amara de L’ape regina.
La pellicola possiede una propria originalità che però il Tognazzi regista non è in grado di gestire. Gli eventi si susseguono noiosamente prevedibili fino allo scontato finale senza alcun guizzo di fantasia. Interamente ambientato nella struttura ospedaliera, la pellicola, che si avvale tra l’altro di dialoghi quasi sempre banali, si trasforma in una sorta di testo teatrale, come tale anticinematografico. Il modesto cast (ci sono, tra gli altri, Gigi Ballista e Franca Bettoja), per quanto convinto e calato nei aingoli ruoli, non aiuta.
L’idea di fondo è tutt’altro che sciocca: la denuncia di una società iperproduttiva e schiava dei suoi prodotti, è chiara e ben sviluppata. L’industriale, nel breve esordo in fabbrica, ripete a tutti che il segreto dell’economia capitalistica è nel vendere oggetti deteriorabili che vanno obbligatoriamente sostituiti in tempi brevi obbligando il consumatore e spendere e il lavoratore a produrre, in una catena infernale. Questa logica, di cui l’uomo va tanto fiero, è anche la regola ferrea della Salus Bank dove una serie di medici cialtroni e semicriminali, aiutati da infermeire compiacenti e suore rassegnate, mettono tutto l’impegno nel far ammalare i clienti e rendere i loro malanni sempre più gravi così da bloccarli in lunghe e costose degenze. Il fischio al naso racconta tutto ciò con i toni della caricatura irreale, a tratti quasi fantascientifica, mentre, purtroppo, ora sappiamo che casi folli come questi possono perfino verificarsi: si veda lo scandalo della clinica S. Rita di Milano, dove pazienti sani venivano operati per malattie inesistenti, con danni gravissimi o addirittura mortali; un caso poco pubblicizzato dai media, non tanto per la sua mostruosità (semmai tale aspetto li avrebbe potuti incentivare), bensì per la logica perversa che esemplifica e che, in fin dei conti, accusa un intero sistema impazzito all’inseguimento di una produttività sempre più alta in nome esclusivo del profitto, che raramente considera l’utilità delle cianfrusaglie che va creando. Il film di Tognazzi-Azcona è, in tal senso, profetico ed è proprio tale aspetto a renderlo intrigante al di là della modestia della messa in scena e degli stereotipi in cui si perde volentieri come accade per la descrizione della famiglia del protagonista (mostruosa quasi quanto la realtà della clinica). Quest’ultima debole sezione tuttavia rientra nella moda, lanciata da Antonioni, di descrivere la medio-alta borghesia italiana come composta da gente inetta e vacua che solo un’ondata di “sano umanitarismo socialista” potrà radicalmente rinnovare (questo sembra essere l’implicito sottotesto).
Anche l’accusa al sistema capitalistico fa parte della consueta sottile, implicita e martellante propaganda a favore dei sistemi socialisti: tuttavia se il fine ultimo dell’operazione - in questo come in altri cento casi della cinematografia inutilmente militante degli “autori” italiani - è deprecabile (avrebbe significato finire dalla padella alla brace, come comprendeva qualunque persona intelligente e consapevole della realtà disumana dei sistemi socialcomunisti), va detto però che l’indagare l’ossessione produttivistica del sistema porta a risultati interessanti e suggestivi. D’altronde è noto che tale sistema funziona proprio perchè amplifica gli egoismi e le avidità individuali, prima ancora che qualunque malinteso senso civico o solidaristico e, dunque, ogni eccesso risulta facilmente censurabile e diviene perfino goffo e risibile, quando non causa conseguenze tragiche. L’avere posto sotto accusa proprio il sistema sanitario, ovvero quella compagine di persone che dovrebbe avere cura innanzitutto per la salute dei propri simili, è un aspetto geniale del racconto poichè evidenzia il conflitto insanabile tra efficienza della macchina e sue finalità ampiamente disattese.
Rimane solo il rimpianto che un simile soggetto, comunque difficile da esprimere in immagini per il suo carattere ripetitivo e kafkiano, sia stato realizzato in modo tanto pedestre.
Il film riscosse un buon successo.

Cinque anni dopo Banditi a Orgosolo, De Seta firma la propria opera seconda, Un uomo a metà (ago 1966; 90 min.) in cui cambia radicalmente genere e sforna un’indigesta opera sperimentale, a cavallo tra Antonioni, Godard e Bergman.
Michele (un monocorde Jacques Perrin) attraversa una crisi depressiva che ne mina completamente la capacità di intendere e volere e finisce in una clinica dove Ugo (Pier Paolo Capponi) cerca di curarlo. Il protagonista rievoca, in modo libero e confuso, le proprie recenti, traumatiche esperienze tra le qualisembra prevalere la folle gelosia nei confronti della fidanzata Elena (Ilaria Occhini) che si atteggiava troppo liberamente (secondo le mode dell’epoca). Incapace di accettare tale condotta, l’uomo si autoferisce e si rinchiude in un isolamente totale, autopunitivo e malato. Vaga nei parchi, osserva morbosamente altre fanciulle, ripensa ai rapporti conflittuali con la severa madre (Lea Padovani) e il fratello (Gianni Garko).
La pellicola oltremodo monocorde, che vorrebbe inserirsi nel filone della cosiddetta alienazione di Antonioni, analizzando le difficoltà esistenziali di questo benestante borghese (lo vediamo in vacanza su uno yacht... ), si riduce a una serie di “diapositive”, alcune delle quali calligrafiche, accompagnate da monologhi tediosi in cui si comprende soprattutto il carattere soccombente di un personaggio che vorrebbe accettare la modernità dei rapporti paritari uomo-donna senza riuscirvi e, peraltro, senza essere in grado di voltare pagina, archiviando come secondario un disordinato pianeta femminile (dal quale deve anche sopportare le prediche intorno alla sua incapacità di accettare i “tempi nuovi”). Il dramma di Perrin è quello di un uomo debole e succube della propria sfera affettiva dalla quale non riesce a prendere le dovute distanze. Gli atteggiamenti artificiosi e assurdi del personaggio - atteggiamenti tipici di un’epoca che aspira a un ugualitarismo innaturale che provoca nevrosi e dissonanze mentali - ammorbano lo spettatore per gli interminabili novanta minuti della pellicola.
Privo di una precisa ambientazione (come tutte le opere a basso costo), accompagnato da una colonna sonora atonale e spesso disturbante di Morricone, fatta di fasce sonore ripetitive intonate da un’orchestra d’archi (nello stile di Berio e Maderna), questo banale sermone intorno alla presunta superiorità dell’emancipato universo femminile e alla impreparazione del maschio (appunto “un uomo a metà”) riguardo alla rivoluzione antropologica in atto, passò inosservato e riscosse un prevedibile fiasco commerciale.

testo scritto nel gen.2016