Marnie: un thriller inglese a Hollywood (1964)
“L’autobus doveva arrivare tra cinque minuti. Sullo stradone si vedevano i fari accesi di una macchina parcheggiata una ventina di metri più in là, e
d’improvviso un uomo si staccò dalla siepe. “Signorina Elmer?” Era Mark Rutland. La mia sorpresa fu tale che lui dovette prendermi per un braccio, per impedirmi di cadere.
“Dove alloggiate? Vi riaccompagno a casa”. W. Graham, Marnie, cap. V
“Hai mai sentito parlare di ereditarietà? Mia madre era una pazza e un’assassina. Io ho preso da lei, ecco la verità”. W. Graham, Marnie, cap. XVI
Per Marnie si ripete il percorso di Vertigo: un ottimo romanzo viene banalizzato e distorto dalla macchina industriale di Los Angeles. Anche in questo caso è soprattutto il commento sonoro di
Bernard Herrmann (insieme ad alcuni tocchi visivi di grande maestria di Hitchcock) a conferire alla pellicola un’atmosfera di solenne e seducente drammaticità. Winston Graham, uno scrittore inglese di notevole popolarità in
Gran Bretagna, pubblica Marnie nel 1961 (in Italia, dopo l’edizione della casa editrice Casini del 1962, il testo non viene più pubblicato - a parte una riedizione a cura del settimanale Grazia nel 1985 - ed è, oggi, difficilmente reperibile; in ogni caso è un romanzo ignorato dal pubblico italiano). Vi si raccontano le disavventure di una giovane e abile ladra la quale vive sostanzialmente isolata dal mondo. Il testo pone la protagonista in una posizione di assoluta centralità (il romanzo è raccontato in prima persona dalla donna), forzando una sorta di simbiosi con il lettore. Marnie cambia molteplici identità, si fa assumere da differenti ditte, entra in moderata confidenza coi suoi datori di lavoro, li deruba, fugge e fa sparire ogni traccia di sé. Coi soldi trafugati mantiene la madre che vive in una cittadina portuale e Forio, un cavallo per il quale nutre un forte affetto. Tutto il resto del mondo le è quanto meno indifferente. Marnie ha subìto un trauma infantile, di cui si intuisce a tratti l’importanza, ma che verrà svelato solo nel finale del racconto; in seguito ad esso è piombata in uno stato di profonda anaffettività e vive mentendo a tutti su tutto, corazzata verso l‘esterno da un gelido distacco e da un ironico cinismo.
Assunta dalla ditta Rutland, la donna mette in atto il solito programma, mentre ben due giovani dirigenti-azionisti della ditta, Mark e Terry Holbrook, le fanno una corte spietata. Marnie teme gli uomini, non ne sopporta la
vicinanza e, se toccata, reagisce cadendo in una sorta di isteria. Riesce a malapena a contrastare le ambizioni dei due corteggiatori, tra loro cugini e acerrimi rivali per questioni inerenti la ditta, rapina la cassaforte,
fugge facendo perdere ogni traccia di sé attraverso un tortuoso vagabondaggio tra numerose cittadine inglesi. Ciononostante, quando finalmente sta per prendere l’ultimo autobus - quello che deve condurla al suo albergo abituale
(a centinaia di chilometri dalla ditta Rutland) - misteriosamente appare Mark il quale la prende “in custodia”, facendola precipitare in una crisi di panico. Successivamente l’uomo obbliga la ex dipendente a raccontarle
tutto, la presenta ai suoi, la sposa contro la sua volontà (l’alternativa è la galera), cerca di rispettarne le strane remore sessuali ma poi le fa violenza, infine la obbliga ad andare da un analista. Nel frattempo Marnie,
tutt’altro che domata, medita la fuga, frequenta di nascosto il tavolo da gioco del cugino Terry, partecipa alle guerre interne tra i Rutland e il gruppo degli Holbrook, tiene testa anche all’inattesa ricomparsa di Strutt (una
delle sue precedenti vittime). Infine, dopo una grave incidente di caccia che è costato la vita a Forio e che ha bloccato a letto Mark, ripete i gesti iniziali: prende nuovamente il denaro dalla cassaforte e fugge dalla madre.
La trova però morta e scopre finalmente il trauma giovanile che la perseguita: la donna (vedova) se la spassava con differenti marinai, obbligava ogni volta Marnie (allora di soli cinque anni) a lasciare il letto in piena notte
per avere la stanza libera e, rimasta incinta, aveva ucciso il bambino appena nato. Marnie comprende ora l’educazione rigida e sessuofobica impartitagli dalla madre ma ormai è tardi: questa volta è Terry a sorprenderla
(alla Rutland aveva fatto credere a tutti di essere orfana). L’uomo - più volte rifiutato da Marnie - finge di volerla riportare dal marito e invece, a sorpesa, la consegna a Strutt e, quindi, alle autorità. Il romanzo
corre serrato e avvincente. Numerosissime sono le svolte inattese come pure i misteri che costellano il cammino della giovane di cui apprezziamo la coerenza e comprendiamo il punto di vista misantropico e antiumanistico. Marnie
- di cui veniamo a conoscere, un poco per volta, gli inconsueti aspetti caratteriali - è come una belva ferita che simula una condotta educata mentre odia tutto ciò che la circonda. Un po’ lo si deve all’infanzia difficile,
molto alla ereditarietà (come lei stessa dirà nel finale) di un carattere nevrastenico e incline al crimine. Ogni sua energia viene impiegata nell’arte della simulazione, o meglio della creazione di personaggi fittizi dietro
cui nascondersi per ingannare il prossimo, tenerlo a distanza, derubarlo. Anche dopo essere stata “catturata” da Mark - personaggio importante ma tutt’altro che centrale nel romanzo - la donna non smette di riflettere su come
liberarsi di lui e del resto della famiglia, nonostante le ingenti ricchezze su cui ora, come signora Rutland, potrebbe contare. Le sorprese sono continue e generano una costante, ammirevole tensione narrativa: come è
riuscito Mark a scovare Marnie dopo la lunga fuga (l’uomo glielo svelerà molto tempo dopo)? Come, in seguito, ci riesce Terry? Come si concluderanno i duelli della giovane con l’analista Roman e con l’asfissiante Terry? Quale
incubo ha segnato l’infanzia della donna? E quando ogni enigma sembra finalmente svelato e il puzzle, in qualche modo, ricomposto, ecco il grandioso, beffardo finale - degno di un’opera che delinea un’umanità aggressiva, in
guerra perenne su tutto (si vedano gli episodi sulla lotta per il comando alla Rutland e sullo scontro dei cugini per assicurarsi la bella “segretaria”) - con il maligno Terry che, per semplice vendetta, consegna Marnie alla
giustizia. Il romanzo di Winston finisce con l’essere un meditazione sull’umana malvagità di cui l’anarchica, sprezzante Marnie costituisce il cuore pulsante in quanto figura prigioniera di una solitudine orgogliosamente
eretta a sistema di vita, oltre che a insopprimibile baluardo difensivo. Priva del padre, maltrattata dalla madre, la giovane vive in un proprio universo isolato e segreto nel quale figure ed eventi esterni filtrano a fatica.
Alfred Hitchcock individua presto le qualità del romanzo di Graham, ne acquista i diritti e pensa a un film con Grace Kelly. In fondo il regista pensa a una specie di rovesciamento di Caccia al ladro (1955): in
Marnie (1964; 129 min.) si parla di una ladra, salvata dall’amore di un uomo. L’ex attrice lascia però cadere la proposta (con grande disappunto del regista) e Hitchcock affida il ruolo a Tippy Hedren con cui sta girando The Birds (1962). Il cineasta affida il lavoro di sceneggiatura a Jay Presson Allen, una scrittrice alle prime armi (si trattava della sua seconda sceneggiatura) e il copione che ne fuoriesce è un disastro.
Come nel caso di Vertigo, il problema era passare da un romanzo di notevole originalità e coerenza, anche duro e, a tratti, scostante (soprattutto nel finale), a un prodotto di largo consumo, destinato a una platea
universale. Marnie perde la propria centralità, Mark (Sean Connery, reso celebre dai primi due Bond) diviene personaggio di pari importanza e la storia di un’orgogliosa misantropa si trasforma in una scontata storia d’amore
(anche se a senso unico). Vengono aboliti, nell’ordine, la figura del rivale Terry (appena sostituita da quella di una capricciosa concorrente di Marnie che non può perdonarle di avere sposato Mark), le sue festicciole serali
alle quali Marnie interveniva segretamente, le lotte per il controllo dell’azienda e la figura dell’analista. Come si vede, da un vasto e significativo intreccio, fatto di elementi coerenti e compatibili che si rafforzano a
vicenda in un quadro di tensione diffusa, si perviene a una vicenda assai semplificata: una ladra con un trauma infantile, un uomo che la adora ed è deciso a salvarla contro tutti, le minacce esterne (ridotte alla figura di
Strutt) facilmente controllabili dal potente Mark, un finale lieto nel quale il trauma emerge e la donna appare finalmente “guarita” (come in un banale bigino freudiano). Nel frattempo anche il trauma originale si è
trasformato in qualcosa di più effettistico e ovvio, né la “democratica” Hollywood poteva dar voce ai sospetti di ereditarietà del carattere criminale che si celano nella conclusione del romanzo: anziché un fratellino morto e
una madre libertina - eventi troppo blandi per Hollywood - ecco comparire una madre-prostituta aggredita da un marinaio (Bruce Dern), una bimba assassina (per difendere la madre) e un lago di sangue, così da motivare la fobia
del rosso e le paure sessuali della protagonista (Sex Mystery lo definiva Hitchcock, come pure l’intera campagna propagandistica studiata per lanciare il film). Marnie è diventato, insomma, una specie di prevedibile “caso clinico”, tutto centrato sulle paure della giovane più che sulla sua gelida intraprendenza anarchica e criminale. L’affresco misantropico del Male si è dissolto.
Stupisce poi la scarsa capacità di Hitchcock di valorizzare la svolte realmente sorprendenti del testo come nel caso della “cattura” di Marnie, colpo di scena sprecato in una sequenza insulsa e priva della dovuta
preparazione: tagliati i vagabondaggi utili a far predere le proprie tracce, vediamo di colpo Marnie a cavallo, subito dopo l’episodio del furto, che si imbatte in Mark che semplicemente la ferma e la porta via con sé. L’errore
più grande, poi, lo si trova nella concezione generale del racconto, laddove Hitchcock cambia radicalmente il rapporto Marnie-Mark come era stato impostato dallo scrittore: nel film, infatti, l’uomo riconosce fin dall’inizio nella aspirante dattilografa, la ladra del colpo da Strutt, e la fa assumere proprio con l’intento di studiarne i comportamenti e, in definitiva, darle la caccia. Di contro nel romanzo Mark non aveva mai visto Marnie in precedenza e dunque l’evento della “cattura” giunge imprevisto e devastante, in quanto frustra tutta la presunta abilità della ladra. Nella pellicola invece tutto si riduce al classico gioco del gatto col topo. Tra l’altro allorché Truffaut, nel suo celebre libro-intervista, chiede a Hitchcock cosa l’abbia interessato nel romanzo, il regista afferma che è la fissazione “feticista” di “un uomo che vuole andare a letto con una ladra perché è una ladra”; ma proprio questo è ciò che - ben presente nel film - non c’è nel romanzo poiché Mark scopre molto dopo essersene innamorato che Marnie è una ladra.
Mancando poi, nella pellicola, il rivale Terry, le lotte intestine alla ditta e tutto il resto, il racconto per immagini appare povero e soprattutto diventa presto ripetitivo e noioso: Marnie è sempre più fobica mentre Mark
ora si improvvisa analista, ora detective (scopre l’indirizzo della madre anscosta), ora attento guardiano della stravagante moglie. Il magnifico, fulmineo finale di Graham non poteva essere accolto da un regista che voleva
raggiungere un pubblico vastissimo e quindi ingenuo, accontentandolo con uno scoglimento roseo. Lo spettatore però rimane come “imbrogliato” e se ne accorge: chiarito il trauma infantile, tutto il resto viene buttato a mare
ovvero i precedenti furti, la minaccia di Strutt, le macchinazioni della rivale. Il film è già finito, ma la sensazione è di una chiusa affrettata e artificiosa che non porta realmente a compimento gli elementi esposti nella
prima parte. Non può stupire il fatto che Marnie sia stato un grosso insuccesso commerciale (come, in parte, capitò al simile Vertigo): il pubblico si trovò di fronte a un film indeciso tra thriller, enigma
psicoanalitico e dramma sentimentale; né la discutibile e poco convincente scena madre finale poteva da sola riscattare la conduzione monocorde del racconto. Si noti inoltre che Marnie è tra i film meno imitati e meno citati del maestro inglese, con l’eccezione della suddetta scena del trauma infantile che verrà ripetuta, con ben altro estro però, dal Dario Argento di Profondo Rosso (1975).
Nel film rimangono tuttavia numerosi elementi di interesse. Innanzitutto gli attori, tutti convincenti e perfettamente diretti, e ovviamente le molte raffinatezze visive del maestro inglese (singole inquadrature
entusiasmanti - celebre quella della rapina, con la donna delle pulizie sorda - movimenti di macchina eleganti e sinuosi, spesso sorprendenti come quello che “va incontro” all’entrata in scena di Strutt, nell’ultima parte del
film) e soprattutto la colonna sonora. Bernard Herrmann, abituale collaboratore di Hitchcock, giunto qui alla sua ultima colonna sonora per il regista inglese, compone due Leitmotive principali: uno dedicato a Marnie e l‘altro destinato agli assalti di panico e all’insorgere delle paure fobiche della donna. Il primo è un tema brahmsiano, solenne e drammatico, imperioso ma anche capace di sottili nuance malinconiche: variato in numerosi modi, ora suonato a piena orchestra, ora solo accennato, giocato su differenti velocità di esecuzione, accompagna il difficile cammino di Marnie, nobilitandone il tormento interiore. Il secondo, impostato su esplosioni sonore improvvise e aspre, su brevi e contorti glissati (memori di quelli di Psycho),
esprime coi suoni le lacerazioni interioni della donna, rendendole più intense, comunicative e ”condivisibili”. L’alto livello complessivo dell’invenzione sonora ammanta le immagini di un’aura seducente, arricchendo di utili
varianti sonore una vicenda troppo statica. Va infine notato che per la terza volta consecutiva la Modernità viene sconfitta nel cinema hitchcockiano. L’indipendente Marnie è in fondo una parente stretta della Marion (Psycho)
che ruba 40000 dollari al suo principale e della scandalosa Melanie che corteggia apertamente Mitch (The Birds); come loro deve però accantonare le proprie ambizioni di supremazia sul maschio e accontentarsi del posto
che le è stato assegnato dal proprio compagno. In Marnie, anzi, questa tematica dello scontro dei sessi (come già in Graham) appare determinante: in sostanza il film racconta la perdita di libertà di una ladra vagabonda,
catturata e costretta agli “arresti domiciliari” da un matrimonio forzato. La donna deve insomma abbandonare il mondo esterno, ove tentava di misurarsi, da pari a pari, con l’uomo in una serie di sfide criminali abilmente
congegnate, e fare ritorno alla più consueta e innocua sfera domestica. Tutto ciò assume, nel trattamento hitchcockiano, un carattere compiaciuto e, a tratti, quasi morboso: dietro l’apparente bonomia di Mark si intravede
chiaramente la gioia istintiva del cacciatore (o meglio del regista inglese) che inchioda la propria vittima e la costringe in una condizione di sottomissione. Psycho, The Birds e Marnie costituiscono una sorta di trilogia per quanto riguarda le figure femminili e la loro tenace riverca di una propria dimensione autonoma. Marion, Melanie e Marnie hanno tratti somiglianti, a cominciare dal loro nome e, probabilmente, per quanto concerne la prima e la terza non si tratta neppure di un caso. Graham, nel suo romanzo nel 1961, inizia raccontando dell’impiegata Marion (una delle molteplici identità fittizie di Marnie) che sottrae una forte somma al proprio principale (il signor Strutt). E’ evidente che la scelta del nome Marion e il tipo di furto discendono direttamente dall’incipit di Psycho (1960). Può darsi dunque che lo scrittore inglese abbia concepito il suo libro ispirandosi al cinema di Hitchcock e sperando di trovare proprio nel regista inglese un autore interessato a tradurre in immagini il suo romanzo.
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