Mio figlio professore e Il tiranno di Padova: differenze di classe (1946)
Dopo l'8 settembre Renato Castellani viene invitato dalle autorità della RSI a trasferirsi al Cinevillaggio veneziano; il regista finge di accondiscendere, chiede una proroga e si rifugia con altri in una
Casa generalizia dei Gesuiti. Nella Roma liberata il regista con Steno scrive e mette in scena la graffiante operetta antimussoliniana Il suo cavallo con musiche di Nino Rota. Non e' un successo (il compositore riutilizzera' parte delle musiche nel suo capolavoro Il
cappello di paglia di Firenze,1955) ma contribuisce a cementare il sodalizio tra il cineasta e il musicista che comporra' le colonne sonore dei suoi tre prossimi film.
Nel novembre 1946 esce il quarto film di Renato Castellani, Mio figlio professore
(100 min), una commedia dolceamara su soggetto di Fulvio Palmieri (sceneggiatura del medesimo, del regista e di altri) tagliata su misura per il grande talento di Aldo Fabrizi. Accantonate le coeve desolazioni realistiche il regista offre un sorridente quadretto storico dell'Italia prefascista, fascista e postbellica osservata dalla guardiola di un povero bidello la cui unica ambizione e' quella di vedere suo figlio (al quale ha dato il suo stesso nome, Orazio) divenire professore di greco e latino. Orazio Belli, divenuto vedovo quasi contemporaneamente alla nascita del figlio, si trova solo a doverlo crescere tra grandi sacrifici; eppure il ragazzo, divenuto finalmente professore, si dimentica del padre, dei suoi molti meriti e al contrario si vergogna delle proprie umili origini fino al punto di provocare nel genitore la convinzione di essere fuori posto nel liceo dove egli insegna. Cosi' nel drammatico finale per il bene del figlio l'ormai anziano bidello decide di abbandonare il suo amato lavoro e di andarsene in campagna. Pellicola completamente controcorrente, commentata con imbarazzo dai critici e ovviamente svalutata, pur non essendo un capolavoro (non poche sono le cadute in un banale macchiettismo) offre pero', nel suo centro narrativo, un'accorata meditazione sull'amore paterno, sul naturale desiderio di ascesa sociale (tematica questa incomprensibile o peggio censurabile da un ambiente cinematografico ideologicamente improntato all'ugualitarismo socialista) e sull'ingratitudine filiale ritratta nei panni dell'antipatico e legnoso professorino. La stessa cultura accademica vi appare piu' strumento per dividere e creare gerarchie piuttosto che prezioso ausilio alla capacita' di comprendere e comunicare: in fondo piu' il ragazzo diviene colto, piu' la distanza (che assume carattere perfino geografico) tra lui e il padre si fa incolmabile. Inoltre va aggiunto che il film di Castellani si configura anche come una semplice e sincera elegia nei confronti di quella gente semplice, esemplificata nel protagonista, che cerca di barcamenarsi tra i perigliosi flutti dei mutamenti politici (si veda il lungo episodio nel quale il bidello si rivolge ai potenti per salvare il figlio dalla leva militare e dalla guerra) senza prendere una posizione precisa. Mio
figlio professore appare come uno dei pochi film di valore contigui allo scetticismo antipolitico dell'Uomo Qualunque di Giannini.
Strutturato in numerosi microepisodi che scandiscono il passare degli anni tra il 1919 e il 1946, il film scorre omogeneo e gradevole, privo di tempi morti e di nette cesure. Il collante e' il
divenire della generosa figura di Orazio Belli, pieno di energie e di entusiasmo negli anni venti, quando e' alle prese con un bambino da crescere; felice negli anni trenta allorche' il suo sogno sembra realizzarsi, sebbene
cominci a comparire qualche ombra (il figlio, insegnante a Foggia, scrive dotti articoli ma neppure una cartolina al padre), infine in preda all'amarezza negli anni quaranta, quando il ritorno a Roma del figlio professore
assegnato al medesimo liceo nel quale Orazio e' bidello, approfondisce il solco classista che separa il padre "ignorante" dal "colto" figliolo. Al di la' di alcune cadute di tono il lieve ed elegante
racconto vive completamente nelle emozioni e nelle speranze di questo sfortunato genitore intorno al quale roteano figure piu' scontate come quella del notabile fascista e delle sue sciocche figlie, del professore antifascista
costretto a lasciare Roma per Campobasso o del balletto dei politici tra il 25 luglio e la Liberazione. La discreta musica di Rota conferisce nobilta' e calore soprattutto al dramma finale del padre costretto alla fuga per far
dimenticare le umili origini del figlio: in questo triste epilogo ancora una volta il racconto cinematografico vira verso una ricercata atmosfera visivo-sonora nella quale si intuisce il debito verso la cultura del melodramma e
ancora una volta esso perviene per tale via ad un esito alto. Mentre De Sica, Vergano e Rossellini cercano di nobilitare il mondo popolare ponendolo al centro della Storia, Castellani invece ricorda piu' cinicamente che la
societa' italiana rimane in quegli anni saldamente classista, attenta a valutare un individuo in relazione all'ambiente sociale di provenienza. Lo stesso giovane professore appare spesso infastidito dalla bonaria e calorosa
presenza del padre, rivelando cosi' l'allignare, perfino entro i vincoli familiari, di quell'atteggiamento pregiudiziale.
Differenze di classe appaiono centrali anche nel mediocre polpettone storico di Max Neufeld Il tiranno di Padova (dicembre 1946; 95 min.) che si ispira al famoso testo di Victor Hugo Angelo, tyran de Padoue (1835) che era stato tradotto in racconto in musica da mercadante ne Il giuramento (1837) e soprattutto da Ponchielli nella fortunata Gioconda (1876). Neufeld firma un drammone artefatto, fotocopia di quelli, assai numerosi, girati in epoca fascista (Il ponte dei Sospiri, Il Bravo di Venezia, I due Foscari).
Vi si racconta la rivalità amorosa tra la povera commediante Tisbe (Clara Calamai) e la nobildonna Caterina (Elsa De Giorgi): entrambe amano il ribelle e proscritto Rodolfo (Alfredo Varelli), la seconda però è sposata al
terribile tiranno di Padova Angelo Malipieri (Carlo Lombardi), mentre la prima ne è l’amante. Insomma un terribile, ridicolo pasticcio di cui numerose colpe giacciono nel testo artificioso di Hugo. L’idea dell’autore è in
fondo molto semplice: illuminare una società rinascimentale retta da brutali differenze di classe (descrivendo con calore l’universo popoalre dei teatranti e con livore quello dei nobili, secondo banali stereotipi diffusi tra
cineasti senza fantasia), da una tirannia crudele legata ai metodi terroristici dell’Inquisizione (si racconta di persone prelevate di notte dagli sgherri legati al tribunale ecclesiastico e fatte morire annegate nei canali
veneziani; tuttavia queste oscure tenebre politiche rimandano maggiormente alla prassi consolidata nella totalitaria Russia staliniana, dove, ancora in quei giorni e in quelli futuri, persone sparivano di notte, ingoiate dai
gulag senza accuse formai e tantomeno regolari processo, che a quella della Venezia cinquecentesca); continuare le tesi della propaganda populista dell’ex regime che attaccavano ogni forma di aristocrazia, ora intinte in una
più esplicita coloratura massonico-anticlericale ben presente nel teatro ferocemente antireligioso del massone Victor Hugo; e infine, soprattutto, esibire apertamente le grazie delle due protagoniste, seguendo gli esempi più o
meno celebri de La cena delle beffe (Blasetti, 1942), La fornarina (Guazzoni, 1944) e altre pellicole a loro modo scandalose, uscite nell’era del crepuscolo fascista. Dunque la De Giorgi espone involontariamente (nel sonno) un seno mentre uno spasimante la osserva con fare morboso e poi la ricatta mentre la Calamai mostra nuovamente il proprio petto (dopo La cena delle beffe)
appena velato in una lunga sequenza successiva a un’esibizione in un balletto. Si tratta perciò di uno dei pochi film postbellici piuttosto audaci, precedenti all’entrata in vigore degli uffici di censura (1947), strenuamente
voluti dai democristiani. A parte questi elementi di mera curiosità documentale, la pellicola è goffa, mal recitata (con l’eccezione della Calamai) e spesso ridicola, avvolta in una colonna sonora (di Renzo rossellini) di
carattere operistico (numerosi i leitmotive) degna di miglior sorte. Se la materia è certamente vicina a quella abituale del teatro lirico, ci volevano ben altri sceneggiatori, registi e attori per nuovamente nobilitarla
e ridarle vita. Il film è tra l’altro uno degli ultimi esempi di questo genere di drammone rinascimentale veneziano (peraltro gli esterni lagunari sono di buona fattura); esso, nonostante i larghi mezzi a disposizione, appare
completamente anacronistico nel coevo cinema postbellico e viene giustamente trascurato dal pubblico.
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