Miracolo a Milano, Umberto D. e Buongiorno, elefante!

Miracolo a Milano, Umberto D, Buongiorno, elefante! e Un ladro in Paradiso: i poveri disturbano (1951-52)

              Ci basta una capanna
              per vivere e dormir
              ci basta un po' di terra
              per vivere e morir.
              Dateci un po' di scarpe
              le calze e anche il pan
              a queste condizioni
              crediamo nel doman.
              “Inno” dei barboni di Miracolo a Milano

              “Se nel mondo si sarà indotti - erroneamente - a ritenere
              che quella di Umberto D. è l’Italia della metà
              del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio
              alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del
               Forlanini e di una progredita legislazione sociale”.
              Giulio Andreotti (1952)

Con il suo terzo, attesissimo film del dopoguerra, Miracolo a Milano (febbraio 1951; 108 min.) De Sica abbandona i toni drammatici e si cimenta con una favola amarissima in cui le numerose e perfino stucchevoli “carinerie” hanno l’unica funzione di rendere – per contrasto -  ancor più desolante la soluzione finale del racconto.
Ispirandosi molto liberamente a Totò il buono (1943), un libro fiabesco di Cesare Zavattini, il regista, coadiuvato dallo scrittore (ed altri), mette in scena l’odissea di Totò (Francesco Golisano), un orfano che si aggira come un mendicante nella grigia e autunnale Milano, cuore produttivo della penisola. Dopo essere passato per piazzale Repubblica, piazza Scala e viale Monza (dove De Sica ritrae il cinema Abc di recente apertura, in una magnifica immagine notturna) finisce in un campo di barboni dalle parti di Lambrate. Qui Totò fa amicizia con tutti e insieme alla allegra combriccola costruisce un vero e proprio villaggio al cui centro viene posta la statua di una splendida ballerina; in particolare poi stringe un rapporto affettuoso con la dolcissima servetta Edvige (Brunella Bovo, in seguito protagonista del felliniano Sceicco bianco). La minaccia tuttavia incombe nelle vesti di del grasso e arrogante industriale Mobbi (Guglielmo Barnabò) il quale - accompagnato dalle jazzistiche e dinamiche ritmiche americane al cui apparire regolarmente scompaiono le luminose e distese melodie popolari che commentano la vita del villaggio - vuole impossessarsi del terreno dei vagabondi e sloggiarli. La questione si fa stringente quando si scopre che sotto il terreno si trova un giacimento di petrolio. A quel punto Totò diviene una sorta di Gesù Cristo dei poveri: grazie a una miracolosa colomba esaudisce ogni desiderio e difende la comunità dagli attacchi dei celerini posti al rigoroso servizio del capitale (ossia di  Mobbi). Nel crescendo miracolistico si giunge all’apice con il balletto della statua la quale prende vita e incanta i perseguitati del villaggio. La situazione tuttavia precipita, i barboni vengono “deportati” su cellulari delle forze dell’ordine e giunti in piazza Duomo, sempre grazie alla favolosa colomba di Totò, escono dai furgoni e salgono in cielo sulle scope dei netturbini (in una famosa sequenza che ispirerà l’episodio delle biciclette volanti dello Spielberg di E.T., 1982).
Miracolo a Milano vuole essere a tutti i costi un film poetico, ma ci riesce solo a tratti. Certamente rimangono indimenticabili gli squarci della fredda e piovosa Milano in cui si aggira (nella prima parte) Totò, come pure la lirica sequenza finale. Molto riuscita è anche la sequenza del balletto favoloso in cui l’enigmatica statua prende vita. In fondo l’intera costruzione della vita del villaggio, basata sul più rigoroso solidarismo, è una grande allegoria della visione socialista (quasi una comune hippy ante litteram) che si dipana sotto il segno dell’eros e della femminilità intesa come unione amorosa dei viventi, nonché posta come antitesi di thanatos ovvero della cultura maschile della lotta (ossia del capitalismo e della fredda metropoli). Il villaggio di Totò è il paradiso dei poveri dove si vive in affettuosa sintonia, protetti da una sorta di Dea Madre che si traduce sia nelle forme seducenti della statua, sia nell’intervento della madre adottiva (Emma Gramatica) di Totò che, nelle vesti di angelo in libera uscita (non senza qualche reminiscenza da La vita è meravigliosa, Capra, 1946) conferisce  al figliolo un potere miracolistico.
Il villaggio di Lambrate è dunque il luogo dell’utopia, è una no man’s land circondata dall’avidità crudele  del mondo reale, personificata dall’industriale e dai suoi sgherri i quali riusciranno a cancellare quel sogno, costringendo i barboni a salire in cielo. Se dunque l’impianto ideologico e la morale sono alquanto manichei e semplicistici  - i poveri rigorosamente buoni (con la sola eccezione della “spia” Rappi interpretata da Romolo Valli) e i ricchi rigorosamente cattivi – anche la realizzazione del film risente di questa banalità concettuale. De Sica infatti ingaggia gente comune e perfino veri barboni per inscenare il suo villaggio e pertanto si trova costretto a riprendere i suoi goffi non-attori quasi sempre in campo lungo, a limitare gesti e dialoghi a eventi semplicificati e spesso puerili, finendo così con il rievocare l’arcaica e superata estetica del film muto (non mancano in tal senso tipiche gag surreali tipiche dell’estetica del muto; si veda l’intera sequenza ambientata nell’iperbolico palazzo di Mobbi). Ne consegue che il corpo centrale del film si snoda in modo prevedbile e noiosetto (anche a causa della monotonia espressiva degli interpreti principali), senza una vera elaborazione drammatica dei singoli personaggi; né il tentativo di creare l’affresco composto da una serie di microeventi riesce (Fellini si ispirerà, per certi versi, a questo esperimento, non solo reclutando la Bovo, ma cercando a sua volta di creare grande affreschi iperpopolati nello stile della pittura di Bosch, dimostrando che questa via è possibile al cinema ma necessita di uno speciale, fantasioso, ridondante e perfino “sgangherato” talento registico di cui l’umanista De Sica appare sprovvisto). Il ritorno a questa concezione pionieristica – a tratti infantile - del cinema, ridotto in tal modo a gesto e mimica in un contesto semplificato e astratto, non poteva che venire punito da un pubblico non più in sintonia con quel genere di linguaggio filmico.
Il film dunque fallisce il proprio obiettivo e lo stesso De Sica non ritenterà più niente di simile (con l’eccezione del comunque assai differente Giudizio universale). D’altro canto, a livello più propriamente concettuale, il film si attarda sui soliti stereotipi socialisteggianti tali per cui la bontà si coniuga esclusivamente con la povertà e con il rifiuto dell’attività lavorativa regolare mentre chiunque faccia parte dell’universo produttivo appare invischiato nella disumana avidità dell’odiato sistema capitalistico. Inoltre, in omaggio alle mode sovietizzanti dell’epoca, il male si associa agli Usa e al loro dinamico modello di vita (le musiche jazzistiche di Alessandro Cicognini stabilmente associate all’universo dell’industriale) mentre ai poveri – comunque non proletari e operai (con grande disappunto dei critici militanti) – non resta che abbandonare questo mondo che non li comprende e non li vuole (il primo titolo del film era infatti I poveri disturbano). Il pacifismo bonario di Zavattini e De Sica li porta ad evitare di mettere in scena il classico concetto di lotta di classe quale motore dell’evoluzione storica mentre l’insistente pauperismo, unito al carattere miracolistico del racconto, inserisce l’insieme all’interno di una visione tipica del cristianesimo spoglio ed essenziale dei seguaci di San Francesco. Siamo insomma dalle parti del cosiddetto cattolicesimo di sinistra il quale, innervato da un generico disprezzo per le attività umane le quali appaiono tutte inficiate dal peccato dell’avidità, appare, sotto certi aspetti, perfino più desolato e assurdo del marxismo.
Va anche ricordato che il romanzo di Zavattini viene pubblicato in era fascista e che, in fondo, questa contestazione anticapitalitica di sapore populistico era assai frequente anche nei film di regime dei primi anni quaranta (come si è visto, commentando quel periodo) nei quali si esaltava la piccola borghesia semplice e operosa a scapito dei grandi imprenditori poco attenti al benessere nazionale. In tal senso si capisce la diffidenza di certa sinistra militante nei confronti di questa pellicola troppo bonaria (per quanto amarissima) che ha pure il difetto di ricordare un certo tipo di critica anticapitalistica assai comune negli ultimi anni mussoliniani.
Totò, come Mosè inseguito dagli Egizi, anziché tra le onde del mar Rosso fugge in cielo, dove guida le sue genti alla ricerca di una differente terra promessa.
La pellcola viene acclamata al festival di Cannes nonché premiata con la palma d’oro, mentre il pubblico italiano risponde con freddezza e decreta il netto insuccesso della pellicola.

Un anno dopo De Sica torna al proprio stile melodrammatico con Umberto D (gennaio 1952; 89 min.), pellicola desolata nella quale ritroviamo pregi e difetti delle opere precedenti a Miracolo a Milano.
Il regista, basandosi su una sceneggiatura di Zavattini, racconta il calvario del pensionato Umberto Dominico Ferrari (Carlo Battisti) il quale stenta a tirare la fine del mese con la sua pensione di 18.000 lire (circa 400 euro del 2010). Egli vive in totale solitudine in una stanza ammobiliata, se ne va in giro per Roma con il suo amato cagnolino Flike, dialoga solo con Maria (Maria Pia Casilio), la servetta svanita (è in cinta, ma non sa di chi) della pensione, si scontra quotidianamente con la padrona di casa (Lina Gennari) che vuole farlo sloggiare sia perché Umberto non riesce a pagare la pigione, sia perché necessita della sua stanza in vista delle prossime nozze. Il racconto si trascina stancamente per le vie della capitale senza importanti accadimenti: anziché la bicicletta, Umberto perde Flike e lo cerca disperatamente fino a riuscire a ritrovarlo (al canile), si mette a chiedere la carità ma poi se ne vergogna, viene sgridato malamente alla cattolica mensa dei poveri da un’antipatica caposala (gli autori non perdono l’occasione di mettere in cattiva luce le peraltro meritorie iniziative caritatevoli della chiesa, ripetendo in questo caso un episodio simile presente in Ladri di biicclette, vedi; nell’episodio dell’ospedale poi ritraggono con sufficienza la suora che distribuisce i rosari), incontra qualche conoscente ma non riesce a stabilire alcun dialogo. Quando deve vendere un orologio, anziché offrirlo a un serio commerciante, contratta con un vagabondo che, ovviamente, glielo paga una cifra miserrima. Decide infine di suicidarsi gettandosi sotto un treno insieme all’inseparabile cagnolino: sarà allora il sano istinto di autoconservazione di Flike a salvarlo.
La pellicola - amatissima da tutta la critica di sinistra ed evitata con cura dal pubblico pagante – segna il secondo fiasco consecutivo del regista (il quale negli anni successivi cambia radicalmente registro, si orienta verso un cinema più spettacolare e spesso anonimo, ritornando solo saltuariamente a questo tipo di soggetti desolati) e viene in genere definitito come il momento conclusivo della cosiddetta fase neorealista, un fantasma, come si è detto, esistente soprattutto nelle pagine degli storici del cinema. In realtà – come per Sciuscià e Ladri di biciclette - siamo di fronte a un acceso e singolare melodramma privo di qualunque carattere emblematico, essendo il caso preso in esame artificioso e, in qualche modo, costruito a tavolino. Del nostro Umberto, ex funzionario ministeriale, non ci viene raccontato nulla: chi era, perché non ha parenti, perché non ha amici, perché ha una pensione così risicata, perché poi si ostina a combattere questa ridicola battaglia con la sua padrona di casa quando con gli stessi soldi potrebbe trovare decine di altre stanze ammobiliate in Roma. Si tenga conto che nel dopoguerra una feroce inflazione (basti pensare che spedire una lettera costava 50 centesimi nel 1943 e 25 lire nel 1951) aveva reso la vita difficile a larghe fasce della popolazione (soprattuttto quelle a reddito fisso di cui Umberto è, in effetti, un esempio), senza però causare suicidi a catena grazie al sistema di ammortizzatori sociali posti in essere. Si trattava, tuttavia, di una situazione generale in via di risoluzione: gli anni cinquanta saranno infatti anni di estrema stabilità monetaria (per avere un aumento postale bisognerà attendere il 1960, allorché la tariffa postale di una lettera salirà a 30 lire).
Insomma il solitario e demotivato Umberto - prigioniero del proprio esclusivo, quasi paranoico, amore per il cagnolino Flike - appare un personaggio costruito in laboratorio, al quale tutto va storto e che decide di suicidarsi per un debito di diecimila lire (circa 200 euro del 2010). La sua parabola viene raccontata con l’evidente intento di accusare da un lato il governo di grettezza (non a caso la pellicola si apre su una manifestazione pubblica di pensionati aggredita dai famigerati celerini di Scelba), dall’altro per dipingere un universo sociale dominato dalla più ottusa insensibilità; ne fuoriesce l’implicito invito a cambiare tutto (innanzitutto il quadro politico... ), a rivoluzionare un sistema che si vorrebbe tanto privo di impulsi solidaristici. Non a caso Giulio Andreotti, in un celebre articolo del 1952, criticherà a ragion veduta proprio il preteso “documentarismo” o se si rpeferisce “neorealismo” del film; egli scrive “Se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti - erroneamente - a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale”. 
De Sica inquadra il suo personaggio nella Roma popolata da magnifici palazzi barocchi (piazza del Popolo) e lo colloca in una pensione nella quale Umberto è stretto tra il salotto della padrona dove si canta Donizetti (in particolare il luminoso duetto “Verranno a te sull’aure” del primo atto della Lucia di Lammermoor) e Bellini a tutte le ore e il cinema Iride dal cui tetto apribile il sonoro dei film giunge fino nella triste camera del pensionato. Insomma Umberto vive circondato da eventi artistici che non apprezza e dai quali non emerge alcuno stimolo alla sua esistenza: il canto lirico non sembra coniugarsi con la religione dell’umanitarismo che prevale nel racconto (strumento sostanzialmente ipocrita, centrale nella propaganda socialcomunista del dopoguerra; inutile dire che l’umanitarismo viene applicato solo alle diseguaglianze della società capitalista e ci si guarda bene dall’utilizzarlo nei confronti di quei milioni di persone che vivono nella grande prigione a cielo aperto instaurata dal regime sovietico in mezza Europa) ed anzi sembra essere divenuto fatto di mera esibizione classista (si veda il trattamento pieno di antipatia riservato alla combriccola di tenori e baritoni che frequenta il salotto della padrona).
Questi atteggiamenti decisamente scostanti della coppia De Sica – Zavattini nei confronti del patrimonio culturale italiano appaiono poco felici se si pensa che le indiscutibili qualità poetiche di Umberto D derivano proprio dalla tradizione del melodramma. Lasciate dunque da parte le miserie politche del film, il suo strumentalizzare ed esacerbare le disgrazie degli umili per diffondere un senso di malesssere e di desolazione (ma il pubblico non ci casca, e boicotta giustamente, dal suo punto di vista, la pellicola) e la conseguente, implicita richiesta di un cambio radicale di gestione della cosa pubblica (insomma, nei fatti, un rafforzamento del fronte delle sinistre), lasciate inoltre cadere le tante inverosimili sciocchezze (alla faccia del rigore neorealistico) con le quali il film viene infarcito e sviluppato (abbiamo detto: l’inutile scontro con la padrona; la situazione di forzata solitudine in cui versa il protagonista; l’assenza di una sua storia personale che possa giustificare questa sua insolita posizione e dunque renderla specifica e non emblematica di qualcosa che non esiste, almeno in quei termini; la stessa decisione di suicidarsi, del tutto gratuita e immotivata ecc.), rimangono tuttavia alcune suggestioni notevoli e passi cinematografici di sicura efficacia.
In generale tutta l’ultima parte del racconto appare oltremodo toccante grazie soprattutto allo stretto legame che si stabilisce tra immagini e musica (tanto più che i dialoghi sono ridotti a poche battute, spesso di circostanza). Quest’ultima, creata da Alessandro Cicognini (abituale collaboratore di De Sica), propone soprattutto un Leitmotiv cromatico e discendente che esprime compiutamente lo stato d’animo disperato del protagonista (il modo di combinare un sonoro quasi monotematico e immagini omogenee nella loro insistente malinconia ripete lo schema vincente di Ladri di biciclette). La scrittura melodica ricorda quella dei temi pucciniani (l’andamento discendente del motivo, il suo cromatismo, il suo vago andamento di marcia) come pure possiede una vaga solennità wagneriana (Wagner era stato a lungo studiato dal giovane Puccini... ) e l’insieme, coniugato con la figura dolente e prossima al suicidio del protagonista, ci immerge in una situazione poetica non lontana da quella di Madama Butterfly (Puccini, 1904). Sebbene il ritratto del compositore lucchese campeggi nell’odiato salotto della padrona di casa, va detto che è proprio la sua poetica quella che principalmente innerva Umberto D. Se a questo si aggiunge che il nostro eroe vive accerchiato tra lirica (in salotto) e cinema (nel cortile adiacente) bisogna dire che De Sica ha perfettamente intuito (forse in modo inconsapevole) la totale continuità esistente tra melodramma e cinema (tra l’altro il padrone del cinema e la padrona del salotto si sposano !!!), una continuità che, tra l’altro, segna le pagine più intense delle sue creazioni filmiche.
Umberto D, lungi dall’essere opera neorealistica, è semmai l’ennesimo lacerato melodramma italiano: solo considerandolo in questo modo se ne possono scusare le incongruenze e le inverosimiglianze, tipiche del teatro d’opera, in quanto funzionali all’esito espressivo. In ogni caso il film – accanto ad alcune belle (ma isolate) pagine e ad un sicuro senso dell’ambientazione romana (tra piazza del Popolo e il Pantheon) – si perde in numerosi episodi fiacchi, in inutili tempi morti (data la pochezza dell’elaborazione psicologica del personaggio che si traduce in rarefazione di personaggi ed eventi) i quali, uniti alla desolazione generale del soggetto, come della mimica efficace ma monocorde del protagonsta, affondano l’opera in un patetismo spesso solo di maniera.

Vittorio De Sica torna sull’argomento di Umberto D in veste di attore nella favola Buongiorno, elefante! (febbraio 1952; 84 min.), diretta da Gianni Franciolini partendo da una sceneggiatura di Cesare Zavattini e Suso Cecchi D’Amico.
La pellicola è la versione leggera del film sulle tragiche peripezie del pensionato Umberto; a quest’ultimo si sostituisce ora l’altrettanto disperato maestro elementare Garetti, con moglie (Maria Mercader) e quattro figli a carico. Anche qui c’è un intollerante padrone di casa (Nando Bruno) che non vede l’ora di buttarlo fuori per insolvenza mentre il governo e Montecitorio sono nuovamente al centro dell’attenzione in quanto istituzioni disattente allo stato miserevole di questa categoria sociale. Come sempre il caso viene esasperato come pure i numeri (al ribasso). Il nostro maestro – simpaticamente interpretato dal regista napoletano - guadagna 32.000 lire al mese (circa 800 euro del 2011) con le quali non riesce a tirare avanti. In classe continua ad affibbiare agli alunni temi desolati in cui si sottraggono alle note 32.000 lire gli acquisti per lussuose scarpe da 4000 al paio (circa 100 euro di oggi; ma perché conteggiare solo scarpe di lusso...) mentre in Parlamento solo un deputato di sinistra lotta pervicacemente per il benessere dei maestri (e in generale della cultura italiana) che invano attendono un aumento.
Il racconto tuttavia evita il tono melodrammatico ed intraprende invece il percorso dell’opera buffa. Come in un sogno il nostro Garetti incontra un principe indiano ricchissimo, gli fa da guida turistica ed in cambio riceve dapprima una montagna di sterline, poi addirittura un elefantino. Quest’ultimo è al centro della seconda parte: il maestro se lo porta in casa (al quarto piano), ci fa giocare i figli, causa il comprensibile subbuglio nel vicinato e poi vaga di notte con l’animale alla ricerca di un’improbabile sistemazione. Tutto si risolve nel migliore dei casi con l’intervento del direttore del giardino zoologico.
La pellicola, i cui unici meriti sono da accreditare alla bravura di De Sica, ribatte il chiodo della desolazione programmatica, anche se lo fa con un differente humour. Le colpe sono evidentemente attribuite alla dirigenza democristiana, gli unici difensori stanno nelle proteste della sinistra e intorno all’incompreso maestro si trovano inquilini piccolo/medio borghesi i cui atteggiamenti vengono stigmatizzati per la loro presunta meschinità. Per fortuna questo taglio ideologico si stempera grazie alla presenza del simpatico marajà – parente stretto di tanti turchi rossiniani – il quale - aiutato dalla briosa colonna sonora del solito Cicognini - alleggerisce la situazione e dona qualche sorriso.
Il pubblico comunque mostra di non gradire neppure questa seconda filippica e decreta un inusuccesso perfino peggiore di quello toccato a Umberto D.

Dopo Gli ultimi della strada (1940; vedi), Domenico Paolella attende ben dodici anni prima di firmare la sua seconda regia, Un ladro in paradiso (gen. 1952; 90 min.), modesta pellicola di ambientazione napoletana (la sceneggiatura è di Giuseppe Marotta e Giuseppe Amato, liberamente ispirata alla poesia di Eduardo De Filippo Vincenzo De Pretore, 1948) la quale si inserisce nel nutrito gruppo di film dell’epoca che parla di furti e, nel farlo, sembra ironizzare su Ladri di biciclette (De Sica, 1948).
Una coppia di ladruncoli, Vincenzo De Pretore e Gennarino (Nino Taranto e Francesco Golisano), vivono di piccoli furti, entrano ed escono di prigione, ogni tanto cercano di tornare sulla retta via ma poi lasciano perdere, affermando con orgoglio che rubare è una professione e una naturale inclinazione alla quale chi “è chiamato” non può sottrarsi. Il taglio del racconto è dunque tutt’altro che giustificazionista: non è la miseria a rendere l’individuo ladro (intorno ai due c’è una folla anonima di lavoratori che vivono poveramente, senza saltare il fosso) bensì un preciso e connaturato estro. Pertanto la ripetizione di alcune scene chiave del celebre film di De Sica funziona da implicita e sommessa critica come quando, all’inizio del racconto, il protagonista viene arrestato davanti alla sua fidanzata (che lo credeva ormai onesto) e ad una folla di spettatori furenti (come nel ben noto finale desichiano) oppure allorché la coppia di ladri ruba proprio una bibicletta a un povero lavoratore.
I due credono addirittura di essere protetti da San Giuseppe (al quale accendono ceri in quantità), ma sbagliano: allorché stanno per progettare un grosso colpo, Nino Taranto cade da un’impalcatura, finisce in coma, “incontra” san Giuseppe (Carlo Tamberlani) che gli fa il prevedibile sermone e “torna sulla terra” redento.
Il raccontino è ripetitivo, la coppia di attori poco coinvolgente, la musica di Nino Rota non aggiunge molto, gli scenari napoletani non riservano sorprese e il predicozzo finale suona retorico. Insomma un film poco ispirato e poco riuscito. Il successo è scarso.