Miseria e nobiltà, L'uomo la bestia e la virtù e Totò e le donne

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                “ C’è tanta gene che si diverte a far piangere l’umanità,
                noi dobbiamo soffrire per divertirla”
                Totò ne Il più comico spettacolo del mondo

Totò a colori (apr. 1952; 95 min), pellicola diretta da Steno, è il primo film italiano a colori. Si tratta di una pellicola cucita addosso al talento comico di Totò nella quale il regista (coadiuvato in sede di sceneggiatura da Age, Scarpelli e Monicelli) ricicla una serie di fortunate scenette teatrali, già ampiamente collaudate sui palcoscenici dell’avanspettacolo, all’interno di una storiella senza importanza.
Il comico napoletano veste i panni di un’operista di provincia, in perenne attesa di essere ricevuto dal grande editore milanese Tiscordi. Dopo avere sabotato una festa paesana in onore di un mezzo gangster italoamericano e dopo avere deriso gli artisti d’avanguardia durante un party “esistenzialista” a Capri, il nostro eroe viaggia verso Milano in treno dove sfotte in ogni modo il senatore Trombetta e, giunto nella città lombarda, contro ogni previsione, ottiene un grande successo.
Il film procede per grossi blocchi, senza nascondere la propria natura teatrale, con i personaggi che fanno da spalla a Totò (il gangster, l’editore ecc.) che compaiono solo nel loro episodio per poi scomparire. Il film è insomma inesistente quanto a narrazione, mentre Totò appare in ottima forma  e ci consegna alcuni dei suoi numeri più riusciti (la festa paesana, la sequenza del vagone letto, l’interpretazione del burattino Pinocchio). Inoltre il comico prende di mira tutto e tutti, senza remore, tanto sa di essere considerato con sufficienza dall’intellighenzia italiana. Ecco allora che, oltre a deridere politici e personalità, Totò prende sonoramente in giro gli intellettuali e gli artisti “rivoluzionari”, con la ben nota sequenza in cui sputa in un occhio a un pittore cubista, imitatore di Picasso dopo avere, ovviamente, vantato la propria totale ignoranza intorno al nome del famoso (ma non per tutti) pittore spagnolo.
Totò a colori è un enorme successo commerciale ed anche un totale fiasco nei giudizi di una critica che non tollera questo cinema di semplice evasione. Perfino l’eccezionale novità inerente al colore viene passata sotto silenzio (o se ne parla come di una occasione sprecata... ) dalla critica specializzata che non vuole fare i conti con Totò e Steno.
Totò e i re di Roma (set. 1952; 100 min.) esce nelle sale dopo Totò a colori, ma in realtà è stato girato prima da Steno e Monicelli, su una loro sceneggiatura liberamente ispirata ad alcuni racconti di Cechov.
Il film cala Totò in un contesto realistico, attraversato da intenzioni di denuncia sociale (un po’ come accadeva in Guardie e ladri, 1951): Enrico Pappalardo è un impiegato ministeriale che, con moglie e cinque figlie a carico, fatica a tirare fine mese. Inoltre non possiede neppure la licenza elementare (è stato assunto nell’ottobre 1922, grazie alla raccomandazione di un parente fascista che aveva fatto la marcia su Roma). Durante una serata a teatro, dal loggione sputa in platea e colpisce proprio il ministro Langherozzi-Schianchi (Giulio Stival) suo superiore. Inizia una lunga trafila di scuse che, anziché migliorare, peggiorano la situazione dell’impiegato che, alla fine, si trova addirittura costretto a sostenere gli esami di quinta elementare con esiti disastrosi (una delle domande riguarda appunto i sette re di Roma, citati nel fuorviante titolo). Disperato il nostro eroe si suicida per potere mandare dall’al di là i numeri di un terno secco che salvi la famiglia dalla miseria; ma anche nell’al di là le cose non sono così semplici...
La pellicola si inserisce dignitosamente nel vero e proprio filone che lamenta gli stipendi inadeguati degli impiegati statali, argomento affrontato anche dai coevi Il cappotto (Lattuada, 1952) e Umberto D (De Sica,1952) e che troverà il proprio apogeo nella serie fantozziana (dalla metà degli anni settanta)  nonché, ad un livello più alto, ne Un borghese piccolo piccolo (ancora di Monicelli, 1977; vedi) in cui il ruolo, che era di Totò, diviene di Alberto Sordi. Nel 1952 però, con alle porte le elezioni politiche (1953) e con le sinistre molto aggressive (dopo ogni frustrazione subita, Totò recita “E poi dice che uno si butta a sinistra...! “) un film di questo genere, in qualche modo parente stretto delle pellicole neorealiste ed anzi assai più pericoloso in quanto poteva contare sul richiamo eccezionale di Totò, viene tartassato in sede di censura e gli autori sono costretti ad ammorbidire i toni e ad effettuare qualche taglio.
In ogni caso, date per scontare le inutili esagerazioni del caso, il film è piacevole, mostra un Totò in piena forma nel suo unico duetto con un giovane Alberto Sordi (in quella fase ancora legato a macchiette comiche molto cariche e derivate dai suoi programmi radiofonici di successo; interpreta il pedante maestro Palocco, amico del ministro, che interroga Enrico Pappalardo agli esami). L’ambientazione ministeriale è gustosa, segnata  da eserciti di cinici impiegati che attendono il trapasso di un collega per poterne prendere il posto ed usufruire di modesti scatti salariali, mentre a fare da spalla a Totò c’è il collega impiegato Ferruccio (Aroldo Tieri, anch’egli assai brillante). Le immagini sono ornate da una valida colonna sonora di Rota, che intensifica sopratuttto il registro patetico del racconto.
Pochi mesi dopo esce un nuovo film di Totò firmato da Steno e Monicelli, Totò e le donne (dic. 1952; 95 min.), basato su una tagliente sceneggiatura dei due registi (in realtà il film venne girato dal solo Steno), di Age e di Scarpelli.
La pellicola è una vera e propria filippica contro le donne e i loro principali difetti, esaminitati uno per uno, in una serie di episodi tutti estremamente divertenti.
Uno scatenato Totò alias cavaliere Filippo Scaparro si rivolge direttamente al pubblico (soprattutto a quello maschile... ) e spiega per filo e per segno qulità (pochine, tutte relazionabili con l’aspetto fisico) e difetti (moltissimi) dell’altro sesso. Se una vena misogina attraversa tutto il cinema del comico napoletano, qui essa emerge in modo evidente e diretto, senza infingimenti e sottintesi e a poco vale la generica difesa delle donne attutata nei pochi minuti conclusivi da Ave Ninchi, come pure la riappacificazione finale dei coniugi, definita dal protagonista l’ennesima vittoria delle mogli.
Filippo Scaparro, impiegato in un negozio di tessuti, è vittima della moglie Giovanna (una bravissima Ave Ninchi) che perseguita con mille direttive il povero marito tra le mura domestiche e lo costringe a salire in soffitta la sera per potersi leggere un libro giallo. Qui Totò, dove ha addirittura eretto un piccolo altarino a Landru, all’insegna del bizzarro proclama “soffittizzatevi” rivolto ai colleghi mariti, racconta le proprie infelici esperienze con fidanzate, amanti, prostitute e mogli. La morale è sempre quella: l’altro sesso utilizza il proprio charme per accalappiare, sfruttare e comandare a bacchetta i poveri malcapitati. C’è l’amante (Franca Faldini) che gli dà appuntamenti impossibili e lo fa finire in un campo di prigionia; c’è la prostituta Ginetta (Lea Padovani) che, anziché allietare la serata del marito scapolo, lo ammorba con tutte le proprie disgrazie familiari (fantastica scenetta che sfotte tanto cinema d’impianto neorealista in cui le prostitute sono sempre “vittime del sistema”); c’è la prima moglie che, divenuta, per caso, facoltosa stella del cinema, lo tratta come un cagnolino e non gli permette neppure di consumare il matrimonio; c’è infine l’avvenente figliola Mirella (Giovanna Pala) che perseguita il ricco e maturo fidanzato, primario di un ospedale (Peppino De Filippo, alla sua prima collaborazione con Totò) riuscendo alla fine a sposarlo (per lui si immagina lo stesso calvario del cavaliere Scaparro) sebbene l’uomo sia già esasperato dalle insistenze puerili e dai capricci della ragazza.
Totò, insomma, mette in scena l’intero campionario (non mancano le zie che, con la scusa di  portare a passeggio i nipoti, stazionano per ore a spettegolare nei caffé, con grande disperazione dei ragazzini) ed essendo tali difetti ben noti, fa centro grazie ad una realizzazione in delicato equilibrio tra film vero e proprio e siparietti di rivista.
Totò e le donne certo possiede toni farseschi e irreali, mitigati però da un’ambientazione complessivamente realistica (non lontana da quella di Totò e i sette re di Roma), dai numerosi esterni e dal ritmo vivace. Insomma uno dei migliori film con il comico napoletano ed uno dei più netti nel prendere le distanze dalle tendenze egualitarie (ossia femministe) che animano, nel panorama italiano, l’egemone cinema di sinistra. Non a caso il critico dlell’epoca di Paese Sera lo definisce un “film grossolano”, ma è anche costtetto ad ammettere che “fa ridere a crepapelle”
Uscita nel periodo natalizio, la pellicola è un vero trionfo commerciale.
Di tanto in tanto Totò cerca progetti più “prestigiosi”. Dopo la collaborazione con Rossellini in Dov’è la libertà (1952), il comico veste i panni del professor Paolino nel testo teatrale di Pirandello L’uomo, la bestia e la virtù (maggio 1953; 95 min.). La sceneggiatura è curata da Vitaliano Brancati mentre la regia è sempre di Steno (anche cosceneggiatore).
Nel suo complesso il film si attiene all’originale (per il quale Pirandello si era ispirato a una propria novella, Richiamo all’obbligo, del 1906), sfrondandolo però di tutte le riflessioni tipiche dello scrittore siciliane sul tema delle maschere e riducendolo al suo nucleo narrativo alquanto scabroso (per l’epoca; il Centro Cattolico non fece mancae il proprio giudizio di ”escluso”).
La signora Perella (Viviane Romance) passa lunghi mesi in solitudine mentre suo marito, il capitano Perella (Orson Welles) va per mare (fermandosi lungamente a Napoli, dove ha una seconda famiglia). Nel frattempo il professor Paolino è divenuto il suo amante. Ora però la donna è incinta e il capitano torna a casa per una sola notte (poi ripartirà per un altro lungo viaggio). Bisogna costringerlo ad avere un rapporto sessuale con la donna o tutto sarà perduto. Paolino fa quel che può per indurre il recalcitrante marito, procura un liquore afrodisiaca e alla fine il risultato supera le aspettative, al punto da mortificare l’amante.
La pellicola è di buon livello: bravi tutti gli attori, Totò misurato come si conviene in questo contesto (alla maniera di Guardie e ladri) eppure sempre divertente, Welles straripante e pieno di verve; valida risulta anche la vivace ambientazione in un piccolo paesino di mare (Cetara, vicino Salerno) che riesce a obliare completamente l’origine teatrale del soggetto. Insomma un film riuscito il quale però andò incontro ai fulmini della solita critica saccente e degli eredi di Pirandello. Così su “Cinema Nuovo” si parla di “film goffo e di cattivo gusto”, “privo di qualunque senso e giustificazione”,  nonché “presuntuoso” nel ricorrere al “nome di Luigi Pirandello”, dimenticadnosi che anche quando, nel 1919, il testo teatrale venne rappresentato a in prima mondiale al teatro Olimpia di Milano (in piazza Cairoli), la critica teatrale si disse sorpresa e scrisse cose simili intorno al tono triviale del soggetto...
Gli eredi di Pirandello, dopo alcuni mesi, riescono ad ottenere il ritiro della pellicola la quale rimarrà congelata per motivi legali fino al 1993. Durante questi decenni il film, girato in sfavillanti colori, si rovina ed oggi è visibile solo in un opaco bianco e nero.

Dopo Pirandello è la volta di Eduardo Scarpetta il cui teatro dialettale di fine Ottocento costituisce un terreno ben noto all’estro comico di Totò. Il comico interpreta per lo schermo tre commedie celebri dell’autore, affidandosi al regista Mario Mattoli mentre la sceneggiatura viene curata da numerosi autori tra cui Ruggero Maccari e Mario Monicelli. Il successo comemrciale è notevole mentre la critica più “seriosa” maltratta (come dubitarne) le tre pellicole, parlando di “meschini doppi sensi”, “volgarità” “decadenza borghese”; in particolare per il primo dei tre film si afferma che esso è “il più osceno e pornografico film che sia stato prodotto in Italia da parecchi anni... “ (F. Di Giammatteo). Così la “chiesa rossa” si trova perfettamente allineata a quella (più antica e blasonata) di Roma nel condannare l’umorismo a sfondo sessuale di Totò. D’altronde in queste pellicole si descrive la povera gente dei vicoli come rassegnata alla propria sfortunata situazione, sempre alla ricerca di soluzioni personali (furbesche) e ben poco propensa a gesti di rivolta. Insomma questi umili, privi di una “coscienza di classe”, sono incapaci di mettere in discussione il “sistema” e, per giunta, risultano alquanto divertenti soprattutto presso quel pubblico popolare che si vorrebbe pronto alla “lotta di claasse”. Pertanto sono (per alcuni) un cattivo esempio da stigmatizzare e combattere.
Si comincia con Un turco napoletano (set. 1953; 95 min.) ossia ’Nu turco napulitano (Scarpetta, 1888) il cui cuore narrativo è costituito da uno scambio di persona (il protagonista, Felice Sciosciammocca, prende il posto di un turco) e dall’equivoco che ne consegue. In effetti la qualità prìncipe di questo turco consiste nel fatto di essere un eunuco: a Sorrento il gelosissimo Pasquale Catone (Carlo Campanini) gli affida, felice, la cura di moglie e figlia, certo che si tratti di una persona inoffensiva. Ovviamente Totò se la spassa allegramente in questa insolita situazione fino a quando un complice (insieme, nel prologo, erano evasi da un carcere) lo tradisce. Grande sorpresa, rabbia e confusione cha sfocia però nell’obbligatorio lieto fine.
La figura del turco buffo risale al melodramma settecentesco (c’è già ne Il ratto dal serraglio, 1782, di Mozart) e arriva fino ai primi decenni dell’Ottocento (si pensi all’Italiana in Algeri,1813, e al Turco in Italia, 1814, di Rossini). Scarpetta però coniuga le storie degli harem ottomani con gli accenni più sensuali e scabrosi del teatro popolare, accenni che trovano piena realizzazione in questo cinema di Totò, strettamente legato al mondo “scollacciato” della rivista del primo Novecento.
La realizzazione filmica è più che dignitosa: Totò è brioso e divertente come pure Campanini, gli scenari sono rigorosamente teatrali e la lingua è divenuta (sostanzialmente) quella italiana. Dovendosi attenere a un testo di settant’anni prima, Totò improvvisa con moderazione ed evita eccessi farseschi e surreali che non sarebbero coerenti con l’impostazione della commedia: la sua interpretazione è dunque controllata, non tanto nella direzione “neorealistica” di Guardie e ladri (o di Totò e i sette re di Roma), bensì in quella del rispetto di un testo letterario che possiede un proprio interno equilibrio. Il gioco degli equivoci è ben ritmato e gustoso, anche se estramemente morigerato; un decennio dopo, sulla stessa trovata Germi imbastisce il primo, magnifico episodio di Signore & Signori (1966).
L’anno successivo esce Miseria e nobiltà (apr. 1954; 95 min.) ripresa filmata, sulle tavole di un palcoscenico, della celebre commedia di Scarpetta. Lo stile è quindi lo stesso de Il turco napoletano e l’esito perfino superiore grazie al maggior valore del testo letterario.
La storia è nota: un manipolo di poveracci, capeggiato da don Felice Sciosciammocca (Totò) viene assoldato dal marchesino Eugenio (Franco Pastorino) per impersonare i suoi aristocratici familiari al fine di presenziare in casa di don Gaetano (Gianni Cavalieri), un ex cuoco arricchito. Quest’ultimo, la cui figlia Gemma (Sophia Loren) è fidanzata con Eugenio, pretende infatti che l’intera famiglia del pretendente venga a fargli visita e gli chieda ufficialmente la mano della ragazza. Spassosi equivoci ne conseguono, cui segue l’immancabile scoperta della truffa, l’intervento inatteso dei veri aristocratici e l’obbligatorio finale lieto.
Il testo era già stato felicemente portato in immagini da Corrado D’Errico (1941; vedi) con Virgilio Riento nel ruolo principale. Allora, grazie all’imperante populismo fascista, la simpatia verso questo piccolo esercito di sfortunati era palpabile. Negli anni cinquanta il populismo è stato sostituito da un meno ideologico individualismo borghese: gli umili sono perciò guardati con minore indulgenza (si sottolinea il loro carattere litigioso e francamente egoista) mentre i ricchi sono osservati con simpatia (soprattutto ex poveracci arricchiti come don Gaetano) come pure i nobili.
Totò è bravissimo nell’animare questa commedia dai meccanismi teatrali abbastanza ovvi e la sua presenza rende questa versione assai più interessante di quella degli anni quaranta. Anche gli attori di contorno (con l’eccezione di una monocorde Sophia Loren) sono brillanti e affiatati e lo spettacolo conosce momenti realmente esilaranti, quasi tutti generati dal contrasto tra la fame atavica che anima il gruppetto di protagonisti e l’abbondanza di cibarie presenti nell’opulenta casa di don Gaetano.
La terza ed ultima trasposizione di testi teatrali di Scarpetta  vede Mattoli e Totò mettere in immagini la commedia 'O miedeco de’ pazze (1908) il cui titolo si italianizza in Il medico dei pazzi (set. 1954; 95 min.). L’esito è ancora buono e il divertimento assicurato anche se il film ottiene incassi minori rispetto ai due titoli precedenti. Il film, sceneggiato tra gli altri dallo stesso Totò, è questa volta girato in modo convenzionale, senza riferimenti al palcoscenico, con qualche esterno e numerosi interni.
Lo schema umoristico è ancora quello dell’equivoco che aveva retto Il turco napoletano. Questa volta Felice Sciosciammocca (Totò) è vittima delle circostanze: suo nipote Ciccillo (Aldo Giuffré) gli fa credere di essere il primario di un manicomio travestito da albergo. Felice, perplesso e intimorito, gli dà credito e per tutto il film tratta come un branco di pazzi gli stravaganti ospiti della pensione Stella ovvero uno sgangherato maestro di musica, un attore esaltato (Carlo Ninchi) in procinto di interpretare Otello, un marito (Mario Castellani) gelosissimo della consorte (Franca Marzi), uno scatenato tenore (Giacomo Furia), una vedova inconsolabile e numerosi altri. Gli equivoci si susseguono vorticosi e animano gli spiritosi dialoghi fino al gran finale in cui Felice pensa di avere catturato tutti i pazzi “evasi” dalla “clinica”.
Come già in Totò a colori, si nota una pervasiva e divertente tendenza sarcastica nei confronti dell’arte aulica: il teatro di Shakespeare, il concertismo violinistico e il melodramma rossiniano divengono gli emblemi di un discorso artistico arcaico e un poco presuntuoso e, come tali, vengono simpaticamente sbeffeggiati da questo nuovo tipo di comicità più sobria e caustica, nata sui palcoscenici dell’avanspettacolo e legata ai modi spicci della quotidianità.
In quel periodo Mattoli dirige Totò anche in una farsa vecchio stile modellata sullo schema di Totò a colori (Steno, 1952) ossia Il più comico spettacolo del mondo (ott. 1953; 75 min.). Il titolo riprende quello de Il più grande spettacolo del mondo (DeMille, 1952; uscito in Italia nel feb. 1953), un kolossal americano ambientato nel mondo del circo. Allo stesso modo il film di Mattoli mostra un Totò clown che si aggira nel variopinto universo del circo Togni, inseguito da un commissario di polizia e da alcune fidanzate alquanto gelose. Il film annovera una serie di numeri comici sostanzialmente autonomi nei quali il comico indossa ora i panni del clown, ora quelli del domatore di leoni, ora quello dell’aiutante parrucchiere e massaggiatore gay. Vengono riesumate scenette ben note (o ormai usurate) come quella di Totò-manichino in balia di un marito geloso mentre quelle nuove non appaiono troppo brillanti.
La pellicola fu una delle prime a venire girata in 3d.
Il film, assai stringato quanto a vicende, personaggi e siparietti comici, cerca di intrattenere il pubblico con i classici numeri del circo. Si tratta quindi di una delle pellicole meno interessanti tra le numerose interpretate dal comico napoletano in quel felice periodo.
L’anno seguente Totò e Mattoli tornano a collaborare in un film dal taglio insolito, Totò cerca pace (ott. 1954; 90 min.). La pellicola, ispirata alla commedia Firenze-Trespiano e viceversa (1950) di Emlio Caglieri e sceneggiata da Caglieri, Maccari, dal regista ed altri, mette in scena la tematica alquanto triste di una coppia di vedovi (Totò e Ave Ninchi, entrambi bravissimi) i quali, nonostante l’età avanzata, decidono di sposarsi. I perfidi nipoti dell’uno e dell’altra (tra essi emerge un’efficace Isa Barzizza), in trepidante attesa dell’eredità (gli zii sono benestanti) cercano di ostacolarli in ogni modo, corretto e scorretto (l’affascinante Barzizza cerca addirittura di sedurre Totò). La situazione sembra precipitare, la gelosia tra i neoconiugi rende la convivenza amara fino a quando i due non capiscono di essere vittime di piccoli complotti. Allora restituiscono pan per focaccia: si fingono morti per smascherare la meschina avidità dello sciame di nipoti e cacciarli in malo modo.
Il film è girato con perizia, possiede buoni dialoghi e situazioni interessanti (come pure episodi fiacchi e ripetitivi) mentre i personaggi sono tutti piuttosto stereotipati (soprattutto i terribili nipoti); la comicità di Totò viene imbrigliata in un testo realistico e meditativo, nel quale il comico napoletano può far valere le proprie sfaccettate qualità di interprete, ora umoristico, ora riflessivo e misurato (un po’ come accadrà a Sordi e Tognazzi in alcuni film drammatici degli anni settanta).
La pellicola è nell’insieme interessante e piacevole; il pubblico dell’epoca, invece, non entra in sintonia con questo genere di Totò, troppo serioso e privo di una spalla brillante come Aldo Fabrizi nel simile Guardie e ladri (Steno, Monicelli, 1951); il film ottiene pertanto un successo alquanto modesto, si dimostra un passo falso e obbliga il comico a tornare al proprio stile più consueto.

Ritroviamo nuovamente Totò ladro ne I tre ladri (set. 1954; 95 min.), film diretto da Lionello De Felice ed ispirato al romanzo omonimo (1907) di Umberto Notari. Nell’Italia del 1911 il comico interpreta il ruolo di Tapioca, un ladruncolo che non ha fatto carriera e continua a rubare polli e cianfrusaglie. Per caso, durante l’incursione in una casa di lusso, il suo percorso si incrocia con quello di Gastone (Jean-Claude Pascal), ladro di classe, un tempo suo allievo. L’episodio termina con un grosso furto di quest’ultimo del quale, però, viene incolpato Tapioca. In prigione quest’ultimo viene trattato come un re poiché si crede che abbia nascosto la grossa refurtiva (alcuni milioni); in particolare il poveraccio viene corteggiato dall’imprenditore derubato (Gino Bramieri nella sua unica collaborazione con Totò) che si scopre essere, anch’egli, un insospettabile ladro (sue vittime sono ricchi finanzieri... ). Nel finale tutto si chiarisce...
La pellicola possiede un taglio semirealistico e ci propone un Totò sempre molto bravo che duetta con un simpatico Bramieri. La sceneggiatura, abbastanza rigida pur trattandosi di una farsa, lascia pochi spazi all’improvvisazione del protagonista che deve, tra l’altro, dialogare con un coprotagonista francese. Pertanto egli ci offre un’interpretazione più sobria, che, a tratti, rimanda al ben noto Guardie e ladri (Steno-Monicelli, 1951).
La storia ha poco interesse e propone il solito canovaccio dei ladruncoli ricchi di umanità e dei ladroni cinici e ipocriti. Più gustosa la spietata figura della moglie (Simone Simon) del finanziere che pretende per le normali prestazioni matrimoniali collane di smeraldi e regali di ogni sorta dall’inviperito consorte; inoltre, non appena intuisce che il marito sta per fallire, si affretta a lasciarlo...
Il film ottiene un modesto successo.