Ossessione: la forza del destino (1943)
"Quando ero a Parigi nel '36, per lavorare nel cinema , ero una specie di imbecille.... non un fascista, ma un fascistizzato, sì. Furono i miei amici ad aprirmi gli
occhi. Loro erano tutti comunisti, con tanto di tessera..." (L. Visconti, Intervista ai Cahiers du cinéma, 1959)
Luchino Visconti nasce il 2 novembre 1906 a Milano, figlio di Giuseppe duca di Modrone (cugino di Giulio Ricordi) e di Carla Erba. Vive l'infanzia e la giovinezza in un'ambiente estremamente colto e ha modo
di coltivare il proprio interesse per la letteratura e il teatro (la famiglia Visconti possiede un palco fisso alla Scala); inoltre Luchino studia seriamente il violoncello. A meta' anni trenta passa lunghi periodi a Parigi ove
riesce a inserirsi nell'entourage di Renoir, quasi un gruppo militante vicino alle posizioni del partito comunista francese, partecipando dunque a un clima politico e ideale antitetico a quello dell'Italia fascista. E' uno dei tanti collaboratori del regista francese durante la realizzazione di Una partie de campagne (1936). Dopo alcune esperienze teatrali e cinematografiche minori, nel 1940 Visconti stringe amicizia con De Santis e collabora con la rivista Cinema (diretta
da Vittorio Mussolini) dove pubblica Cadaveri (giugno 1941), un articolo sarcastico e provocatorio intorno alla sonnolento grigiore del cinema italiano ("Andando per certe societa' cinematografiche capita che s'intoppi troppo sovente in cadaveri che si ostinano a credersi vivi... ": questo il significativo "incipit").
Dopo numerosi progetto abortiti, Visconti decide di raccontare in immagini un truce romanzo americano che gli aveva fatto conoscere Renoir. Aiutato da De Santis, Alicata e Puccini, con Ossessione
(143 min.) egli porta sullo schermo The Postman Rings Always Twice (1934) di James Cain, un modesto giallo che aveva già avuto una trascrizione in immagini in Le Dernier Tournant (1939) di Pierre Chenal (versione
probabilemente ignota a Visconti, tuttora inedita in Italia) e che avrà in seguito due altre versioni (entrambe intitolate come il libro) nei film di Garnett (1946) e Rafelson (1981); quest'ultimo in particolare,
sceneggiato da David Mamet, risulterà essere il più fedele al testo originale. L'idea di trasportare nei dintorni di Ferrara e nell'Italia fascista, un racconto tipicamente americano fatto di cupidigia, violenta lotta per la
vita, miseri vagabondaggi (sono gli anni della grande depressione) e passioni quasi animalesche costituisce una stravaganza che procura al film un carattere di assoluta originalità che verrà travisato in un inesistente
"nuovo realismo"; l'idea e' invece quella di utilizzare l'ambiente padano come un fondale grigio sul quale far risaltare maggiormente l'acceso temperamento dei due protagonisti, non diversamente da quanto accade nei
melodrammi verdiani ove la Spagna di Carlo V (Ernani) o la Scozia dell'anno 1040 (Macbeth) sono fondali indifferenti al tormentato dramma dei personaggi. Si è voluto indicare, da più parti, l'opera prima di
Visconti come il film fondatore del neorealismo italiano. Si tratta di un errore plurimo, causato dal carattere politico-ideologico prevalente nella storiografia cinematografica. Come si è visto un nuovo realismo, sobrio e
perfino documentaristico, esordisce con i film bellici di De Robertis e Rossellini del biennio 1941-42, evento sgradito ai futuri storici del cinema, prevalentemente orientati a sinistra, che vogliono nascondere le radici
fasciste della nuova scrittura cinematografica preferendo invece far coincidere il loro "neorealismo" con la fine della guerra e con le pellicole nate dalla Resistenza. All'interno di tale schema Ossessione viene inteso come l'anticipazione piu' significativa di Roma citta' aperta (1945) e di Sciuscia' (1946).
Al contrario invece la pellicola di Visconti ha ben poco di realistico, a parte qualche fondale urbano (Ancona e Ferrara), strutturandosi invece in quattro distinti atti (circa mezz'ora ciascuno) di taglio melodrammatico. Il
modello viscontiano è insomma il teatro lirico (uno schema simile, quattro atti, 120 min. circa, lo ritroviamo in innumerevoli opere da Nabucco a Ernani, dal Trovatore a Boheme) e non solo,
ovviamente, nella strutturazione del racconto. La presenza di quattro soli, isolati e a loro modo grandiosi personaggi, i loro gesti estremi, il loro tormento espresso in lunghi monologhi (corrispondenti alle arie operistiche)
e duetti, l'improbabilità del racconto (il teatro lirico e' il luogo principe dell'inverosimiglianza), la colonna sonora di matrice operistica, l'uso di una fotografia fortemente chiaroscurale e di sofisticati movimenti di
macchina volti a enfatizzare ogni atto dei protagonisti sono tutti aspetti che mostrano come venga instaurato un ponte tra questi due generi artistici. Ossessione dunque inaugura da un lato la filmografia di uno dei
massimi autori italiani, filmografia che si manterrà coerentemente all'interno di questa visione melodrammatica; dall'altro il lavoro indica un percorso stilistico esattamente antitetico a quello realistico (o
"neorealistico") in quella scrittura "lirica" che Pasolini, molti anni dopo, definira' "cinema di poesia" (in Empirismo eretico, 1972). E proprio in tale ambito il cinema italiano si
proporra' come degno erede di una tradizione operistica destinata ad un artificioso crepuscolo (al riguardo mi permetto di rimandare alla mia Storia dell'opera italiana, 2000, scritta in collaborazione con F. Dorsi),
producendo risultati sorprendenti come testimoniano le filmografie di Fellini, Antonioni, Pasolini, Bertolucci, Bellocchio e perfino Leone e Argento. Ossessione è certamente un film fondamentale proprio in quanto primo compiuto esempio di cinema "operistico".
Girato nella seconda metà del 1942 Ossessione esce nel maggio 1943 e sembra essere al centro di un piccolo scandalo. Il film viene proiettato in anteprima a Roma il 16 maggio, nei giorni in cui gli italiani perdono la loro ultima battaglia africana in Tunisia e dunque in un clima di profonda depressione (e in Africa Visconti aveva appena perso il fratello Guido, morto a El Alamein nell'ottobre 1942). Le autorità fasciste, di fronte a questo film tanto atteso, splendidamente melodrammatico nella scrittura ma attraversato da un evidente fastidio per il regime e per i suoi valori, sono colte di sorpresa. All'anteprima Vittorio Mussolini sembra abbia pronunciato il noto commento: "Questa non e' l'Italia"; asserzione irrisa dalla futura critica progressista, in realtà essa coglie (almeno quanto alla scelta del soggetto, poichè lo stile lirico-melodrammatico, antitetico alla scarna scrittura di Cain, è invece pienamente calato nella tradizione italiana) esattamente il nocciolo del problema: Ossessione trasporta su fondali ferraresi una disperata vicenda squisitamente americana. La pellicola gira poco e male: in interviste di un paio di decenni dopo (intervista a The
Observer, 1961), Visconti parla di sequestri, di accese polemiche, di boicottaggio cattolico e di arcivescovi che benedicono le sale cinematografiche dopo la proiezione del film maledetto. Si tratta di racconti generici
(accolti acriticamente e reperibili in molti libri sempre identici), tutti da verificare, considerando anche che nei mesi in questione, segnati dalle sconfitte belliche decisive (Tunisia, Pantelleria e poi l'invasione della
Sicilia) l'interesse generale e' ben focalizzato altrove. Tuttavia ad esempio a Milano Ossessione non esce affatto, né negli ultimi mesi del regime (giugno-luglio), né nei quaranta giorni badogliani e in certo modo
antifascisti. Si tratta dunque di un curioso boicottaggio totale poiché sullo scarno <Corriere della Sera> di quel periodo non compare una riga, né pro, né contro il film. Fin da prima che uscisse, Ossessione conta comunque su una schiera di autorevoli estimatori; ad esempio il giovane Pietrangeli difende preventivamente i personaggi in nome di una "spinta irruenta per cui desiderare e prendere costituiscono un unico atto spontaneo al di qua del bene e del male" (su Cinema,
luglio 1942, durante le riprese del film); ma, al di là delle innegabili qualità formali e liriche, il soggetto riproduce le malsane qualità del testo di Cain ed è stolto cercare scuse: ai due amanti niente ostacola la fuga; se
ammazzano quel poveraccio del Bragana (al di là delle possibile letture simbolico-politiche del gesto) ciò accade soprattutto perché Giovanna (che aveva deciso di sposare il "vecchio" per mero opportunismo,
"sedotta" dalla "catena d'oro al taschino" del futuro marito) non vuole rinunciare alla "roba" ovvero al benessere garantito dalla sua locanda e dal posto ormai guadagnatosi nel consorzio civile
("io non sono fatta per vagabondare come te" dice all'amante), mentre Gino agisce annebbiato dalla passione erotica. Esaltare questa scelta criminale e materialista come un gesto esemplare appare grottesco: il difetto
è nel rozzo testo di Cain, nei parametri di ingorda avidita' tipici della società americana che riflette; né il piccolo esercito di sceneggiatori italiani ha saputo correggere tali carenze, migliorando il quadro psicologico dei
protagonisti. Certamente Ossessione, per il tipo di valori a cui fa riferimento, per l'esaltazione di una liberta' amorale e istintiva, per la simpatia con cui guarda all'universo degli irregolari e' il primo film
antifascista; ma non è questione di regime politico: se fosse uscito negli anni cinquanta sarebbe stato allo stesso modo un film antidemocristiano. Ossessione è in definitiva sia una pellicola profondamente italiana nella scrittura melodrammatica, sia un'opera antisistema violentemente eversiva (e come tale isolata), un'opera permeata da una forte insofferenza nei confronti di un complesso di valori familiari e tradizionali tuttora largamente prevalenti.
Come nel melodramma ottocentesco, il primo atto inizia presentando i singoli personaggi: il sempliciotto e rude Giuseppe, l'inquieta Giovanna sua moglie (la sua "aria di sortita" è il
monologo lamentoso sulla deludente vita matrimoniale con un "vecchio") e il vagabondo Gino. L'introduzione di quest'ultimo è segnata da una particolare enfasi: dopo una lunga serie di inquadrature che ritraggono il
protagonista sempre di spalle, finalmente Visconti ce ne svela e illumina il volto attraverso una soggettiva "meravigliata" di Giovanna. L'artificio linguistico volto a creare attesa e stupore segna il film fin
dall'inizio: la sequenza puo' essere considerata una sorta di "crescendo" lirico che sfocia nello sguardo incantato di Giovanna. La schermaglia tra i due futuri amanti si snoda sotto gli occhi ignari dello stupido
Giuseppe che non esita a lasciar soli una moglie insoddisfatta e un giovane affascinante (inverosimiglianza degna del tatro lirico). Nel finale della prima parte i due fuggono (il rapimento dell'amata e' un altro luogo canonico
del melodramma) ma il senso pratico e materialistico di Giovanna vince e Gino parte da solo. Il secondo atto si svolge ad Ancona e possiede un carattere più corale (così come il terzo centrato intorno alla festa nella
trattoria; anche nel teatro lirico gli atti centrali sono quelli piu' spettacolari). Visconti ritrae con evidente compiacimento la bellezza di Girotti (acconciato con indumenti decisamente ambigui, alla faccia del
"neorealismo", l'attore è certamente l'oggetto del desiderio dell'autore; ai tempi si parlò di lettere d'amore spedite da Visconti a Girotti) ed ora il regista allude, nei limiti consentiti dalla censura dell'epoca,
comunque più permissiva di quella democristiana, a una storia omosessuale tra Gino e lo Spagnolo, un artificioso personaggio simbolo di tutte le libertà, sessuali e politiche (il suo soprannome allude alla recente guerra civile
spagnola, naturalmente alla parte repubblicana, mentre la sua scelta di un'esistenza errabonda e di una condotta sessuale trasgressiva lo rende, agli occhi dell'autore e di una certa parte politica, l'emblema di una libertà
assoluta; ovviamente tale episodio non esiste nel romanzo di Cain). L'incontro di Gino con Giuseppe e Giovanna li porta al concorso lirico (squarcio realistico seppur inficiato da un tono caricaturale) e poi a vagabondare per
la citta'. L'anziano marito descritto ora come un uomo totalmente tradizionale (cameratismo, ricordi di guerra, il desiderio di un figlio) diviene un evidente simbolo del fascismo cosi' come i due sbandati che di li' a poco lo
uccideranno, rappresentano una gioventu' inquieta che vive spiritualmente al di fuori del regime. L'omicidio di Giuseppe avviene fuori scena: Visconti non osa mostrarlo poiché il personaggio possiede una sua simpatica seppur
rozza umanità e descriverne la fine violenta avrebbe contribuito ad allontanare le simpatie del pubblico dalla coppia assassina. L'omicidio costituisce il culmine e la conclusione della seconda parte. Nell'episodio del
concorso vocale (anch'esso ovviamente assente nel testo americano) Visconti sembra quasi alludere alla natura melodrammatica del suo film, anche se egli prende le distanze da questa versione popolana della cultura lirica,
facendone un'impietosa caricatura. Peraltro la colonna sonora di Giuseppe Rosati, nel suo ripercorrere i vocaboli più ovvi del repertorio musicale operistico, suona anch'essa piuttosto dozzinale ed è certamente un punto debole
del film. Visconti sarà, in seguito, più raffinato nelle sue scelte filmico-musicali.L'assassinio di Giuseppe significa l'agognata libertà in quanto simbolica morte del padre (non a caso il Bragana canta "Di Provenza il
sole, il mar" ovvero l'aria morale del severo Germont, padre di Alfredo; la scelta di Traviata peraltro allude alla molteplice "diversità" dei due protagonisti) e al tempo stesso del paternalistico regime.
Solamente qui e' rilevabile un riferimento all'attualità, in un film che sembra collocarsi in un'Italia atemporale (certamente non in stato di guerra): l'uccisione del "padre", della sua pedante ideologia nonche' la
scelta di un romanzo americano con due protagonisti "irregolari" e implicitamente estranei all'universo dei valori fascisti, indicano l'avvenuto distacco di una buona parte del mondo intellettuale nei confronti della
cultura del regime. Distacco e irrequietezza ma, si badi, non esplicito e netto antifascismo che è qualcosa di posteriore all'otto settembre. Non è irrilevante ricordare che i futuri protagonisti del cinema italiano
prevalentemente filocomunista per ora lavorano tutti dentro al regime, seppure da posizioni larvatamente critiche: De Santis (cosceneggiatore del film), Antonioni, De Sica, Rossellini, Pietrangeli, Pasolini, Fellini,
Aristarco, Chiarini. I due spostati scoprono quasi subito di volere cose differenti: Gino ha ucciso perche' invasato dalla passione erotica; Giovanna soprattutto per assicurarsi il proprio benessere. Il terzo atto
racconta soprattutto l'ossessione di Gino, il rimorso. I due amanti ora litigano, appaiono piu' soli di prima nel desolato panorama della locanda, inseguiti inoltre da una polizia sospettosa. Dopo l'inevitabile "scena di
gruppo" (la festa) che serve a Visconti per accentuare il senso di oscuro isolamento dei due protagonisti, la massima tensione dell'episodio viene toccata con lo scontro tra Gino e il ricomparso Spagnolo, in quella che e'
una vera e propria scenata di gelosia omosessuale. L'atto termina con lo Spagnolo che si allontana, ripetendo cosi' il finale primo: in qualche modo Gino contempla se stesso allontanarsi poiche' ora lo Spagnolo, il suo doppio,
rappresenta per lui quella liberta' e quell'innocenza definitivamente perdute nell'atto sanguinoso. Il quarto atto torna ad una dimensione piu' intima e si concentra sui due personaggi attraverso una serie di lunghi
monologhi e duetti nei quali essi sfogano il loro tormento. Anche l'episodio della prostituta e' secondario: Anita, nuovo simbolo di purezza innocente (Visconti cede al solito stereotipo della mercenaria di buon cuore, vittima
delle circostanze; ancora un riferimento alla Violetta verdiana dunque), e' poco piu' di una spalla utile al protagonista per "intonare" il suo dolore. Nel triangolo sentimentale al quale Visconti ora accenna, si
sente l'eco di un altro luogo comune del discorso operistico: la rivalita' tra una donna autoritaria e gelosa e una donna dolce e angelicata (triangolo presente ad esempio in Norma , in Aida o in Carmen di cui il
film cita l'aria piu' famosa). La pacificazione con Giovanna (la poetica sequenza amorosa sulla spiaggia del Po) nel segno della nuova vita che deve redimere la coppia dal rimorso, sfocia nella beffarda conclusione (nonche' Hohepunkt del
quarto atto): in un incidente d'auto causato dalla nebbia (evidente simbolo della confusione morale in cui si dibattono i due amanti) Giovanna muore e lascia Gino solo e disperato, in un'enfatica sequenza, emblematica del nuovo
lirismo cinematografico di derivazione operistica. Il finale quarto ripete cosi' il finale secondo in una sorta di contrappasso dantesco cosi' come il finale terzo replicava, capovolgendolo, il finale primo. Da attivi e
spietati cospiratori alla ricerca di un'illusoria felicita' materiale, i due amanti, nella terza e quarta parte, si sono trasformati in impotenti vittime delle proprie ossessioni, trascinate alla rovina dalla maledetta
"forza del destino".
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