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Oltre l’amore, Melodie eterne, L’amante segreta, Primo amore, Le due orfanelle, Odessa in fiamme, Harlem e Il campione: patriottismo carbonaro, l’americano redento e i sovietici
sconfitti (1940-43)
“Vissi d’arte, vissi d’amore non feci mai male ad anima viva!... Nell’ora del dolore perché, perché, Signore perché me ne rimuneri così?” Tosca (II atto)
Carmine Gallone, nato a Taggia (in provincia di Imperia) nel 1885 da genitori campani, si afferma quale precoce commediografo. Dalla metà degli anni dieci inizia una solerte attività di regista
cinematografico che riscuote calorosi consensi sia commerciali, sia in ambito critico. A partire dal 1927 lavora all’estero (soprattutto in Francia) e rientra in patria solo per il colossale impegno di Scipione l’Africano (1937), opera di aperta propaganda mussoliniana.
Su posizioni patriottiche si colloca Oltre l’amore (settembre 1940; 95 min.; presentato alla mostra del cinema di Venezia), una riduzione alquanto libera di Guido Cantini del breve racconto di Stendhal Vanina Vanini (1829, edito sulla Revue de Paris, poi nelle Cronache italiane),
con cui il regista esalta la tradizione mssonico-carbonara (in seguito mazziniana) che si trova alle origini del Risorgimento. Gallone rievoca con ardore l’attività delle vendite carbonare, la loro lotta progressista e liberale
contro le forze reazionarie (in questo caso il Papato), al fine di tracciare una linea unitaria nella storia italiana che porterebbe da quei moti fino alla rivoluzione fascista e addirittura alla guerra in corso da circa un
anno (pochi mesi dopo il fatidico 10 giugno 1940). Si pensi che, al colmo del ridicolo, Nazzari e gli altri carbonari, riuniti in una segreta conventicola, salutano e giurano con il gesto romano, tipico del regime fascista.
L’operazione è fallace da ogni punto di vista: quand’anche si volesse sottolineare il carattere massonico-mazziniano e rivoluzionario di alcuni aspetti populisti e nazionalsiti del regime fascista, inteso quale completamento e
consolidamento del Risorgimento italiano dopo la presa di Trento e Trieste, va rilevato che la Massoneria francese e soprattutto angloamericana che appoggiarono e finanziarono carboneria, mazziniani e garibaldini e che
sostennero in vario modo le guerre dei Savoia per l’unità d’Italia, ora, nel conflitto mondiale, si collocano tutte, compattamente, nel fronte antiitaliano; al contrario, il notoriamente “retrogrado” Papato, contro il quale si
è sostanzialmente combattuto per instaurare l’Italia e contro il quale combatte il protagonista del racconto di Stendhal, è divenuto un discreto alleato del regime, a partire dal 1929 (alleato comunque sempre critico, nonché
ostile al nazismo e all’entrata in guerra dell’Italia). Intorno al 1825 Vanina (una bamboleggiante Alida Valli), principessa romana promessa sposa di Livio Savelli (Osvaldo Valenti), nipote del ministro di polizia, incontra
il carbonaro Pietro Mizzirilli (uno stereotipato Amedeo Nazzari) in fuga da Castel Sant’Angelo (come il più celebre Cavaradossi di Sardou - Puccini) e se ne innamora perdutamente. Quando Pietro è in partenza per una missione
altamente pericolosa, la donna denuncia i suoi amici carbonari per salvare l’amato da morte certa. Pietro, a sua volta, si costituisce perché teme di essere considerato una spia. I carbonari riescono poi a fuggire, ingaggiano
un combattimento con le forze papaline, vengono sconfitti e ciononostante, nelle ultime immagini, marciano compatti al lume di cento torce (massoniche?) affermando un fascistissimo domani “vinceremo”. Il racconto di Stendhal si
snoda assai più mesto: i carbonari restano in galera, Vanina intercede per Pietro, ottiene la commutazione della pena capitale in carcere e, in cambio, sposa il nipote del ministro di polizia. La pellicola cerca di
rievocare le accensioni risorgimentali presenti in tanti melodrammi verdiani (di cui riutilizza celebri cori quali O Signore dal tetto natio e Va’ pensiero) ma non riesce ad andare oltre il goffo fumettone. Girato
pressoché tutto in interni (perfino le battaglie avvengono inquadrando solamente gli assediati di un castello e senza mostrare gli assedianti), recitato senza la minima convinzione, la pellicola vorrebbe risvegliare negli
Italiani, scaraventati nella bufera mondiale dall’avventato Mussolini, l’antico ardore ottocentesco. Ma la qualità scadente dell’operazione e le troppe incongruenze rendono il film pretestuoso e assurdo . Si noti che
prudentemente non si cita mai il governo papale di Roma, nemico reazionario dei “gloriosi” carbonari, poiché con esso il fascismo ha sostanzialmente stretto una problematica ma solida alleanza con la Conciliazione del 1929.
Insomma la grande fantasia dei cineasti italiani, memori della grande tradizione del teatro lirico nazionale e dei suoi inverosimili libretti, trasforma un testo esemplare del liberalismo massonico di primo Ottocento in
un melodrammatico strumento di propaganda di un regime autoritario in guerra con le democrazie occidentali. In seguito il racconto Vanina Vanini ispirerà l’omonimo film (1961) di Rossellini e avrà un ruolo di primo piano nel capolavoro di Zurlini la prima notte di quiete (1972).
Nel 1940 il prolifico regista firma altre tre pellicole tra le quali figura il mediocre Melodie eterne (dicembre 1940), goffa e inverosimile biografia di Wolfgang Amadeus Mozart con un impacciato Gino Cervi (attore nato nel 1901) nel ruolo del protagonista, fuori parte anche a causa dell’età “avanzata”, dato che il salisburghese non ha superato i trentacinque anni.
L’anno seguente Gallone torna a lavorare con Alida Valli nello scabroso L’amante segreta (settembre 1941; 100 min.), racconto ispirato al romanzo Mädel in Not di Alfred Heller, sceneggiato da Gherardo Gherardi. Vi si racconta il perfido girotondo di corteggiatori di ogni età e intenzione intorno a Renata (Alida Valli), un’avvenente fanciulla “senza famiglia”, divenuta improvvisamente nullatenente e costretta a lavorare. Dapprima tenta di vendere enciclopedie, poi trova impiego come segretaria: sempre, tuttavia, viene considerata dal folto gruppo di uomini che la circondano (tra essi Luigi Pavese, Camillo Pilotto e l’immancabile Osvaldo Valenti) come semplice oggetto del desiderio sessuale. Il suo principale, pur di metterla in difficltà e costringerla a cedere, provoca un finto ammanco di cassa di tremila lire (circa tremila euro di oggi). Renata, temendo di venire denunciata, accetta di posare nuda per un bizzarro pittore al fine di recuperare la somma. Nella pettegola cerchia di oziosi altoborghesi (siamo sul lago d’Orta, in una paesino nel quale il fascismo e la guerra sembrano inesistenti) la cosa si viene a sapere e la giovane precipita nella disperazione, temendo di perdere il fidanzato (Fosco Giachetti) il quale, invece, comprende ogni cosa e la perdona.
Come si nota il film possiede i consueti tratti del populismo fascista (ne è riprova l’aspro ritratto degli inutili farfalloni, messi a duro confronto col carattere operoso dei pochi, umili oersonaggi positivi impersonati
dalla Vali e da Giachetti), spinti però verso una zona estrema nella quale lo spettacolo indulge a un compiaciuto sadismo nei confronti della vittima designata e si procura il più netto rifiuto delle autorità cattoliche
(giudizio di “escluso”) che in quei primi anni quaranta hanno dichiarato guerra a un certo permissivismo filmico. Se l’intento complessivo è allineato alle direttive conservatrici del regime, il percorso per giungere a questo
esito mette in scena in modo troppo esplicito una serie di allusioni sessuali che, dapprima, sfociano in una tentata violenza (ad opera del principale presso cui Renata lavora) e infine nelle scene di nudo (solo accennate)
nello studio del pittore. Fin da principio il pretendente più paterno (Luigi Pavese) mette in guardia la protagonista riguardo al potere esplosivo della sua bellezza, al suo carattere “provocatorio” e al fatto che tale
bellezza “andrebbe chiusa in casa”, nascosta o, meglio, custodita entro un solido matrimonio. Insomma il pubblico è avvisato: l’emancipazione femminile è un percorso denso di incognite al quale va senz’altro preferita la
tradizionale scelta matrimoniale e la conseguente esistenza domestica (non lavorativa) del gentil sesso, al riparo dalle insidie dei seduttori. Nel ritrarre questo esercito di spasimanti, tuttavia, Gallone calca la mano
fino a ritrarre una provincia italiana popolata dai soliti borghesi sfaccendati, afascisti, nonché odiati dal regime, alcuni dei quali non esitano a utilizzare metodi criminali per ottenere le grazie di Renata. Questa pittura
estremistica, di sicuro effetto cinematografico, doveva riuscire non solo sgradita alla Chiesa, ma, in fondo, poco consona anche all’immagine che il fascismo amava, comunque, dare della realtà italiana. La pellicola
possiede complessivamente un buon ritmo anche se il carattere monocorde dei personaggi finisce col ridurre l’insieme a un modesto e inverosimile fotoromanzo. La Valli è piuttosto noiosa nel suo eterno stupirsi di cosa realmente
vogliono gli uomini da lei, Giachetti ripropone il suo consueto personaggio tormentato e tutti gli altri sembrano esistere solo per molestare la protagonista. L’unico intermezzo riuscito è quello incentrato su un’anziana
cantante lirica che vive con grande malinconia l’approssimarsi della fine: la sequenza in cui ella, dinanzi alla protagonista, tenta inutilmente di intonare la meravigliosa aria “Ah non credea mirarti” (da La Sonnambula di Bellini) è certamente l’unico momento poetico del film. Gallone conferma le proprie doti di autore estremamente sensibile all’universo del melodramma italiano.
L’interesse per la tematica musicale attraversa tutta la filmografia di Gallone e la ritroviamo anche nel valido Primo amore
(ottobre 1941, 113 min.), su soggetto di Lucio D’Ambra, sceneggiato da Cesare Viola, nel quale si affastellano più argomenti, tutti piuttosto intriganti. Il musicista americano Peter Red alias Pietro Redi (Leonardo Cortese), nativo di Amalfi, ha raggiunto il successo nelle metropoli d’oltreatlantico, rimaneggiando motivi della tradizione italiana entro la cornice di vivaci ritmiche jazzistiche, affidandole a colorite orchestrine swing. Colto da una sorta di crisi artistica, dopo l’incontro con un operista italiano di valore (del quale aveva “storpiato” qualche aria), decide di lasciare gli USA e di rientrare ad Amalfi dove viene accolto con calore dalla famiglia dello zio. Qui si affeziona a Nerina (Valentina Cortese), la più giovane delle tre cugine italiane, mentre dall’America giunge la sua vecchia amante Jane Blue (Vivi Gioi), accompagnata dall’anziano produttore discografico Wolkoff (Giuseppe Varni) e decisa a riportarlo oltre Atlantico. Nerina sconvolta tenta di uccidersi e, nel tentativo, mina gravemente la propria salute; da quel momento Pietro non la abbandona più: dopo una corale cerimonia religiosa di supplica alla Madonna affinché Nerina si salvi, la giovane riacquista miracolosamente la salute mentre Jane Blue riparte per gli USA; probabilmente sostituirà Peter Red con il ricco discografico.
Come si nota la pellicola, girata nell’estate del cruciale 1941 - quando gli Stati Uniti non sono ancora entrati nel conflitto - e uscita un paio di mesi prima della sciagurata dichiarazione di guerra italiana alla
potentissima (soprattutto in riferimento all’industria bellica) nazione di Roosevelt, racconta una vicenda assai delicata dal punto di vista della situazione politica. Le sequenze ambientate negli USA (tutte ovviamente in
interni) ci mostrano un universo futile, che si accontenta di deformazioni culturali della tradizione aulica europea (ossia le composizioni di Peter Red): Gallone non infierisce su quegli ambienti che anzi descrive con qualche
simpatia, sebbene rimane scontato che si tratta di un mondo “derivativo”, di gran lunga inferiore a quello italiano. In pratica quegli accenti fortemente critici posti in essere nei confronti della medio-alta borghesia
italiana, tipici del cinema fascista degli anni quaranta (se ne è parlato più volte), vengono ora riservati alle cerchie benestanti d’oltreoceano (che acclamano peter Red), praticamente descritte con gli stessi mezzi
espressivi. Gli Stati Uniti, in ogni caso, non sono ancora il demonio e, ad esempio, l’anziano e astuto produttore discografico che mira alla giovane e bella Jane Blue, ora indispettita dal comportamente di Red, è risolto con
arguzia e qualche ironia, sebbene non manchi, tra le righe, un giudizio morale assai negativo; si sottintende insomma la presenza di una società fatua e corrotta, come dimostra il percorso esistenziale di Jane Blue la quale ha
convissuto a lungo, senza sposarsi e senza procreare, con il giovane compositore, e poi, abbandonata, è costretta a riparare tra le braccia dell’anziano capitalista. Non può mancare infine una sequenza in cui la donna appare
con una veste da camera trasparente, che ne mette in risalto il seno. Di contro l’intera ambientazione italiana, tra il popolo semplice di Amalfi e i devoti contadini degli Abruzzi (nella parte conclusiva), è un costante
inno alla semplicità fattiva di quelle genti, tanto lodate dalla politica del regime, mentre non c’è neppure l’ombra di quella odiosa borghesia, ostile al fascismo, spesso presa di mira dai cineasti (in ottemperanza ai
desiderata del Ministero della Cultura); pertanto, con maggior forza, l’arrivo della snobistica e rapace Jane Blue nella realtà amalfitana costituisce un evidente dissonanza e causa lo scoccare del dramma. Pur di salvare il
giovane compositore di talento da un rientro inopportuno in terra straniera, la giovane, innamorata Nerina si sacrifica fino quasi alla morte e sortisce l’effetto desiderato. In questa seconda parte il film perde ogni gioconda
allegria e diviene un teso melodramma, memore della grande tradizione lirica. Magnifici primi piani della tormentata protagonista, calati in un chiaroscuro contrastato e al tempo stesso dolcissimo e ricco di sfumature, segnano
momenti di intensa poesia figurativa, merito di un regista che evita i facili effetti espressionisti per guardare con soave dolcezza al dramma dei suoi personaggi. La scena si sposta infine in un paesino degli Abruzzi, dando
modo a Gallone di ritrarre il lavoro dei contadini entro immagini di solenne bellezza visiva, evidente omaggio alla politica ruralista del regime. Senza quindi scendere sul piede di guerra, Primo amore delinea una abissale distanza morale tra gli USA e l’Italia, tra la dispersiva e anonima visione economicista americana e la concezione ideale italiana, basata sugli affetti profondi e sull’organica unità della famiglia, tra le facili canzonette swing e le intense romanze della tradizione pucciniana. Nell’ultima parte di questa suggestiva riflessione politica e culturale - tutta interna a una storia amorosa quanto mai prevedibile - entra in gioco il terzo e risolutivo elemento: il potere spirituale della Chiesa. Come numerosi altri film del periodo, anche il Gallone di Primo amore si orienta a coniugare con intelligenza ideali tradizionali del fascismo e del cattolicesimo; è il potere della preghiera corale infatti a salvare la vita della protagonista, irrimediabilmente malata dopo il tentato suicidio, nelle ieratiche e incisive sequenze corali conclusive nelle quali una grande folla di fedeli sfila, cantando e supplicando Maria Vergine di salvare Nerina. Il finale lieto, obbligatorio in conseguenza dei sottintesi elementi di propaganda politica posti sul tappeto, celebrano l’unità di un popolo che, nel momento della difficoltà (la realtà del fascismo, ormai guardato con sospetto, è totalmente assente nella pellicola), si stringe a Madre Chiesa. Nerina quindi salva e redime “l’americano”, ossia colui che aveva rinnegato le proprie radici per motivi materialistici, e lo convince a rimanere nella sua terra dove può finalmente esercitare il proprio talento crativo più puro e naturale, legandosi a una realtà cementata dal forte legame del credo cattolico. Nel frattempo, su una elegante nave di crociera, Jane Blue e Wolkoff discutono, in modo complice, di come sarà facile sostituire Peter Red.
Nel buio “onirico” della sala cinematografica il miracolo si compie: l’unità affettiva, artistica e religiosa del popolo è ristabilita; nella più prosaica realtà storica le cose andranno ben altrimenti: solo due anni dopo,
il sud della penisola festeggerà l’ingresso degli americani come si trattasse di liberatori. Di lì a qualche anno le canzonette swing di Peter Red diventeranno moneta corrente anche in Italia, sancendo l’inevitabile, rapido
declino della aulica e ormai stanca tradizione lirica. Il successivo Le due orfanelle
(agosto 1942; 95 min.) è invece un prodotto di innocuo artigianato, destinato a indulgenti platee femminili. Si tratta della fedele trasposizione (la sceneggiatura è di Guido Cantini) del celebre Les deux orphelines (1874) di Adolphe d’Ennery e Eugéne Cormon, dramma che era già stato portato sullo schermo da Griffith (1922) e da Maurice Tourneur nel (1933) cui seguiranno le edizioni italiane di Gentilomo (1954) e Freda (1966).
La vicenda è nota: alle soglie della rivoluzione francese le sorelle adottive Enrichetta (Alida Valli) e la cieca Luisa (Maria Denis) si perdono a Parigi; la prima viene rapida da un vecchio e potente aristocratico mentre
la seconda finisce nel tugurio di una perfida mendicante. Dopo infinite peripezie, nelle quali entrambe le giovani rischiano di perdere la vita e l’onore, tutto si aggiusta: Enrichetta viene salvata e portata all’altare dal
galante nipote (Roberto Villa) del rapitore mentre Luisa viene finalmente ritrovata dalla sorellastra nonché dalla sua nobile madre. Nel finale, grazie al portentoso intervento di un medico, ritrova addirittura la vista. Questo
stucchevole romanzo d’appendice ottocentesco possiede un’ingenuità che appare eccessiva perfino per il poco esigente pubblico italiano degli anni quaranta il quale, comunque, corse a vedere questo indigesto pasticcio. Sebbene
Gallone giri con buon mestiere, evitando cadute di tono, l’insieme appare noiosamente prevedibile in ogni suo momento, le scenografie sono dozzinali (in un’isolata sequenza compare però la “vera” cattedrale di Notre Dame), il
commento musicale è ordinario e gli interpreti poco convinti. Le due orfanelle è, insomma, un grande spettacolo scacciapensieri, la cui fedeltà al testo francese approda a uno spettacolo avulso dal panorama cinematografico coevo (perfino privo di relazioni con gli altri film girati da Gallone in quegli anni) ed estraneo alle direttive ideologiche del regime.
Un anno dopo Gallone volge il proprio sguardo da ovest a est e filma la prima coproduzione italorumena, Odessa in fiamme
(settembre 1942; 90 min.), opera di esplicita propaganda bellica basata su una sceneggiatura di Gherardo Gherardi e Niculai Kiritescu. Il film, girato per gli interni a Cinecittà e per gli esterni in Romania e a Odessa, viene presentato con successo alla Mostra cinematografica di Venezia insieme ad altre pellicole pervase al medesimo intento patriottico quali Noi vivi di Alessandrini, Alfa Tau! di De Robertis e Bengasi di Genina. L’opera di Gallone sviluppa l’argomento secondo una propria inconfondibile poetica lirico-melodrammatica e inserisce, come sempre, colte citazioni e sottili riflessioni intorno allo stato dell’arte nel mondo in guerra.
La vicenda si snoda tra il 28 giugno 1940 - data dell’annessione forzata della Bessarabia all’Unione Sovietica - e il 16 ottobre 1941 - giorno in cui Odessa cede alle truppe rumene, italiane e tedesche che la assediano da
due mesi e mezzo. A Chisinau, cittadina rumena di confine, la famiglia altoborghese di Michele (Carlo Ninchi) e Maria (Maria Teodorescu) é in piena crisi matrimoniale. Il marito trascura la moglie per l’amante e Maria, cantante
lirica, si consola con la musica (in questo breve prologo si affaccia la ben nota visione critica del populismo fascista antiborghese). L’invasione sovietica sorprende la coppia divisa: Michele, perse le tracce della moglie,
viene richiamato in servizio militare mentre la moglie e il figlio Nico (Brezza) vengono catturati dagli spietati sovietici. Il film si dilunga allora sull’illustrazione della pulizia etnica posta in essere senza indugio dai
comunisiti. Un feroce fanatismo ideologico li possiede: i bambini vengono strtappati alle famiglie e inviati in campi di rieducazione comunista, gli uomini in parte vengono passati per le armi (i più pericolosi e i più ricchi)
o imprigionati nei lager. I dirigenti sovietici vengono dipinti come robot senz’anima, servi di un’ideologia astratta e crudele che pretende tutti uguali e tutti servi della causa marxista. Se la pellicola appare certamente
artificiosa e manichea in queste descrizioni, d’altro canto non va dimenticato che, per puro spirito di potenza imperiale, Stalin invase Bessarabia e (negli stessi giorni) Lettonia, Lituania ed Estonia secondo precisi accordi
stipulati con Hitler nell’estate 1939; né va scordato che le crude immagini della pulizia etnica della popolazione rumena rievocano in modo preciso e sinistro la strage di Katyn (primavera 1940) nella quale almeno ventimila
polacchi (militari e rappresentanti delle classi alte) vennero freddamente giustiziati dai sovietici i quali poi costruirono documenti contraffatti (negli anni cinquanta se ne occuparono, tra gli altri, il “buon” Kruscev e
Andropov, capo dei servizi segreti) seguendo i quali, storici assai poco critici (per non dir peggio) attribuirono (comodamente) per decenni il crimine ai nazisti. All’epoca della realizzazione del fim invece poteva ancora
valere la versione di fonte nazista (poi screditata ad arte) che indicava i corretti carnefici di quella strage. Nella seconda parte assistiamo al dramma di Maria la quale, ricattata dal dirigente sovietico Sergio (Filippo
Scelzo), moderno Scarpia che vuole farne la propria amante, diventa una stella dello spettacolo (lirico e popolare) al servizio delle truppe e delle popolazioni russe. Solo Sergio conosce il luogo in cui viene tenuto il piccolo
Nico (è il n. 778 - gli individui sono stati ridotti a numero dalla kafkiana macchina ideologica sovietica - in un imprecisato lager per giovanissimi). Il racconto si tinge di dramma corale: Gallone descrive fiumi di rumeni
sofferenti, deportati e maltrattati in ogni modo dalle losche autorità comuniste e lo fa utilizando lirici carrelli orizzontali che perlustrano, a più riprese, volti e corpi immobilizzati nel dolore. Maria è una di loro, ma ha
deciso di reagire e di giocare ogni carta in suo possesso per riavere il bambino. Si giunge così al gran finale nel quale non poteva mancare una messa inscena proprio della Tosca (Puccini, 1800), segreto germe ispiratore dell’intera pellicola. Mentre la donna è sulla scena e attende il segnale per la fuga (dopo avere promesso di cedere al desiderio del suo Scarpia), gli eventi precipitano: le truppe rumene invadono Odessa, padre, madre e figlio si ricongiungono secondo moduli narrativi tanto inverosimili quanto funzionali alla conclusione di un simile melodramma, mentre gli ignobili sovietici vengono scacciato dalle forze di liberazione in un tripudio di stendardi e di patriottiche fanfare. Perfino l’unità familiare, tanto compromessa all’esordio della narrazione, viene felicemente restaurata dall’impegno bellico e dall’impegno collettivo contro il Male ateistico. Manca ovviamente il popolo acclamante: nella realtà storica il popolo di Odessa ha resistito per molti mesi, in modo coraggioso, alle truppe nemiche (al punto che Odessa verrà dichiarata - come Mosca, Leningrado e Stalingrado - città eroica) e Gallone non osa spingere troppo in là la propria perorazione retorica. Resta il fatto che, all’interno di questa narrazione, la sciagurata operazione Barbarossa (scattata il 22 giugno 1941) sembra non esistere in quanto tale: l’invasione dell’URSS e l’entrata in guerra della Romania (appunto il 24 giugno 1941) vengono semplicemente mostrate come una giusta e sacrosanta reazione all’occupazione russa della Bessarabia (certamente importante nell’economia degli eventi), avvenuta peraltro un anno prima degli eventi bellici riguardanti Odessa e la Crimea. Insomma il cinema attua, con spudorata faccia tosta, un’operazione di evidente falsificazione storica, volta a giustificare le durezze apocalittiche del conflitto in corso sul fronte orientale.
Sul fronte religioso e storico in senso più ampio non mancano i riferimenti alla Romania come realtà generata dall’antica Roma (in una favoletta narrata da Maria al piccolo Nico) e al cristanesimo salvifico (Michele
battezza un bimbo morente russo); nelle immagini finali addirittura le truppe sfilano verso una cattedrale ortodossa, segno di una ricongiuzione europea nel segno di Cristo, in un’Europa che ha sbaragliato il virus dell’ateismo
bolscevico. Anche Tosca, l’opera pucciniana, perde i propri tratti massonici e anticlericali (qui, più che mai, fuori posto) per divenire semplicemente un simbolo di quella universale ed eterna arte italiana che - nella
sua perfezione lirica - riflette e diffonde un desiderio di pace e di armonia. Se lo stile della pellicola, lirico e sobrio, intenso e spesso emozionante, non cede agli eccessi del patriottismo e si limita a raccontare
un’invasione e la rivolta che ne consegue, d’altro canto nell’organizzazione del racconto il regista svolge una sottile riflessione (non accolta da alcuno; peraltro il film è invisibile da decenni) sulla tragica situazione
dell’artista al cospetto del potere totalitario. Così come a Tosca si chiede di cedere a Scarpia per salvare il suo Cavaradossi, così come Maria deve diventare una “cantatrice” al servizio della causa comunista per rivedere il
proprio piccolo, nello stesso modo, sembra dirci Gallone, gli autori di cinema (e altro) devono sottomettersi ai voleri e alle esigenze della Politica - di cui sono, in buona sostanza, un mero strumento - se vogliono continuare
a lavorare. Il regista, autore dello Scipione mussoliniano, conosce i propri doveri; tuttavia mentre porta il proprio contributo ideologico al regime fascista, è palese che qualcosa non lo convince, al punto che la narrazione lascia da parte lo stile realistico per adottare i vocaboli del grande telone lirico e melodrammatico, nel quale prevale l’inverosimiglianza. Il risultato appare quindi attraversato dal dubbio e indica - allo spettatore che sa leggere tra le righe - la mancanza di autonomia dell’artista. Tale stato di servitù è peraltro un fatto universale nella cinematografia militante: Gallone lo sa e in una bella immagine (Maria in fuga dal teatro, sulla scalinata di Odessa), cita la celebre scalinata della Corazzata
Potemkin (Ejzenstejn, 1925) quasi a voler ricordare che anche quel troppo blasonato film era, innanzitutto, un lavoro di propaganda politica, commissionato da un regime totalitario. Ai giorni nostri, in un’era apparentemente democratica, le riflessioni di Gallone rimangono validissime: mentre infuria la guerra in Medio Oriente, i cineasti di regime (hollywoodiano e non) si schierano tutti con il potente di turno che li ha sul libro paga; c’è chi tace, c’è chi propone modeste obiezioni di maniera o chi solleva qualche timido dubbio sulla possibilità di “esportare la democrazia” facendo migliaia di morti tra le popolazioni civili; nessuno osa dipingere, documentare e denunciare l’apocalisse irachena con sincero orrore e senza infingimenti. Il cinema resta, oggi come ieri, un fedele servitore della nomenclatura.
Un anno e mezzo dopo Primo amore, Gallone è chiamato a firmare un secondo film di critica al mondo americano con il “kolossal” Harlem (aprile 1943; 95 min), scritto da Sergio Amidei (futuro sceneggiatore di Roma città aperta)
ed Emilio Cecchi, con altri, prendendo spunto da una novella di Giuseppe Achilli. In una New York scopiazzata dal cinema di Hollywood (ma ci sono anche alcune efficaci immagini documentaristiche della imponente metropoli
americana), si immagina che Tommaso Rossi (Massimo Girotti) giunga negli USA per accompagnare il nipote, ricongiungersi al fratello Amedeo Rossi (Amedeo Nazzari) e cominciare una nuova esistenza. Scopertosi buon pugile, Tommaso
intraprende con successo questa carriera, anche se in conflitto con il volere del fratello il quale, architetto di buona fama, deve fronteggiare temibili organizzazioni criminali (capeggiate dal solito Osvaldo Valenti).
Quest’ultimo è perfettamente consapevole del fatto che anche il mondo della boxe è controllato da gente poco raccomandabile. I fratelli litigano e si dividono mentre i criminali tramano nell’ombra. Per togliersi di torno lo
scomodo Amedeo (gli è d’ostacolo in un lucrosa compravendita immobiliare), il capo dei malviventi invia una donna killer (Elisa Cegani) che spara a un amico del costruttore nel suo studio. Meccanicamente l’uomo viene
arrestato (sebbene più testimoni possano scagionarlo) e Tommaso, anziché preoccuparsi di cercare la verità sui fatti criminosi che tengono in carcere Amedeo, si limita a disperarsi perché ora non trova più lavoro come
pugile (sempre il boss ha ordinato che venga escluso da ogni competizione). Quando tutto volge al peggio, di colpo si prospetta a Tommaso un importante ingaggio al Madison Square Garden; l’uomo accetta ma allora i criminali gli
rapiscono il nipotino per impedirgli di salire sul ring. Nel finale mozzafiato Tommaso corre in una casa in campagna, libera il ragazzo e arriva appena in tempo per disputare l’incontr, vincere l’avversario, consegnare i
criminali alla polizia e salutare il fratello che, finalmente scagionato, esce di prigione. Come si nota gli sceneggiatori hanno tentato di costruire un meccanismo giallo, abbastanza allineato con quelli di Hollywood,
seppur, come si è visto, con notevoli lacune e banali incongruenze. D’altro canto il loro compito principale era quello di criticare a fondo il sistema americano, a pochi mesi dallo sbarco degli Alleati in Sicilia. Ciò avviene
sebbene con non poche stravaganze e ambiguità. Il film apre su una serie di panoramiche di New York (la maggior parte prese dall’aereo) che finiscono con l’essere una forma di pubblicità positiva: di fronte a un universo urbano
tanto poderoso e suggestivo, nonché così differente da quello delle città europee, il pubblico dell’epoca non poteva che sentirsi angosciato all’idea di essersi scelto un nemico tanto potente, al quale aveva per giunta
dichiarato unilateralmente guerra (dicembre 1941). Certo a queste immagini forti e concrete - inequivocabili come solo le immagini fotografiche sanno essere - si tenta poi di rimediare raccontando essenzialmente un tessuto
urbano largamente dominato dalle organizzazioni criminali. Tale tessuto però governa soprattutto i locali notturni e il mondo degli incontri sportivi, ovvero realtà marginali, e quindi la finalità di ingenerare negli spettatori
disgusto o paura per il sistema americano sostanzialmente fallisce, tanto più che Valenti si limita a ripropone uno dei tanti personaggi malvagi del suo repertorio ai quali tutti hanno fatto l’abitudine. Certo ora c’è anche
l’aspetto poliziesco, la presenza di una spietata assassina che agisce su suo ordine, ma il tutto è talmente gratuito e poco ponderato che approda solo a modesti effetti fumettistici. Se in Primo amore Gallone si dimostrava cauto (gli USA non erano ancora entrati in guerra), ora cerca invece di accontentare - per l’ultima volta - il declinante regime, attaccando frontalmente il sistema americano senza riuscire però a renderlo così differente dalla realtà italiana e così minaccioso come probabilmente era nelle sue intenzioni. Se a questo si aggiunge il lieto fine (anche negli USA dunque la giustizia trionfa), ci si accorge allora che la finalità propagandistica è in larga parte mancata. D’altro lato la guerra appare ormai perduta e, dunque, anche la gente del cinematografo si muove con circospezione, furbizia e senza inutili fanatismi.
Peraltro il film, esaminato come semplice prodotto d’intrattenimento, funziona abbastanza, soprattutto grazie al cast stellare e al brillante ritmo narrativo. Senza mai volare alto, né possedere pagine memorabili, Harlem procede spedito, offrendo un’insolità (rispetto alla media dei film italiani) ricca quantità di eventi, figure e situazioni che finiscono con il catturare l’interesse dello spettatore.
Va infine notata una curiosità. Harlem è la pellicola interpretata da Girotti subito prima del celebre Ossessione (Visconti, 1943) e si può presupporre dunque che la pellicola di Gallone fosse ben nota al regista milanese. Diciassette anni dopo Visconti, trovato in Alain Delon un nuovo e giovane interprete, bello come Girotti, costruirà per lui una storia abbastanza simile a quella di Harlem:
due fratelli emigranti (dalla Basilicata a Milano), dapprima amici, poi nemici, entrambi pugili nelle mani di racket malavitosi. Come il Girotti “americano”, anche il Delon di Rocco e i suoi fratelli (1960) è un boxeur totalmente inverosimile (Gallone riduce al minimo le immagini di Girotti sul ring) che si sacrifica per il fratello (decide di tirare di boxe per ripagare i debiti del fratello Simone ed evitargli la galera). Harlem è, in qualche misura, uno dei germi ispiratori del capolavoro milanese di Luchino Visconti.
Nel solco di Harlem viene prodotto Il campione
(giugno 1943; 85 min.), modesto raccontino girato da Carlo Borghesio su sceneggiatura propria e di Tomaso Smith. La cornice è quella degli incontri pugilistici, in quegli anni assai popolari in Italia (numerose erano le sale cinematografiche che, sporadicamente, li ospitavano; a Milano era il caso del cinema Principe, nel 1960 utilizzato anche da Visconti per girare alcune sequenze Rocco e i suoi fratelli):
l’ottimo manager Martini (Enzo Spalla) scopre Massimo, un ragazzo di talento (Enzo Fiermonte) e, in breve, ne fa un campione. Il giovane si intrattiene dapprima con Wanda (Vera Bergman) una prostituta d’alto bordo, poi si
innamora di Bianca (Fiorella berti), candida figlia del manager e cerca di far dimenticare a tutti (a cominciare dalla recalcitrante Wanda) la sua precedente relazione. Malintesi, conflitti e sofferenze (la giovane si crede
tradita, suo padre ripudia l’allievo), chiarimento in extremis (mentre Massimo è impegnato sul ring) e scontato lieto fine. Il campione è un compitino edulcorato nel quale, molto presto, il triangolo amoroso rende secondaria l’ambientazione sportiva. Pellicola di semplice intrattenimento, prevedibile in ogni sua svolta narrativa, ha il piccolo pregio di mostrare alcuni esterni torinesi (il parco del Valentino, qualche squarcio urbano).
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