Psycho

Psycho, The Collector, Sisters e Dressed to Kill: violenze in un’epoca di transizione (1959-1980)

                 “<Non è pazza>, egli ripeté <... So come si è       presa cura di me in tutti questi anni, quando      nessuno mi badava, so come ha lavorato e ha      sofferto per me, so quanti sacrifici ha fatto        per me... Ma chi è lei per dire che una        persona andrebbe tolta dalla circolazione?>
                Norman risponde a Mary in Psycho (R. Bloch)

Nella notissima chiacchierata di Hitchcock con Truffaut, parlando del romanzo Psycho (1959) di Robert Bloch, il regista afferma: <Credo che la sola cosa che mi sia piaciuta, che poi mi ha convinto a fare il film, sia stato il modo improvviso in cui si commette l’omicidio sotto la doccia... “ (in Il cinema secondo Hitchcock). Come per Vertigo siamo di fronte a un atteggiamento estremamente riduttivo dell’importanza del romanzo, posto in atto dal vagamente presuntuoso regista inglese, atteggiamento accolto nella sostanza da schiere di critici più o meno cinefili che spesso non hanno neppure letto il testo di Bloch e che commentano ogni dettaglio della pellicola come se si trattasse di pura creazione hitchcockiana.
Bisogna invece rimarcare che il film è una fedele trascrizione di quel testo: personaggi, situazioni, dialoghi, principali snodi narrativi vengono portati in immagini senza discostarsi mai dal romanzo. Pochissime sono le novità: l’aggiunta dell’episodio del poliziotto che interroga una Marion semiaddormentata (utile a dilatare la troppo corta prima parte del romanzo, quella che termina con la scena della doccia e della morte della ragazza) e la decisione di raccontare la vicenda secondo una classica continuità cronologica, laddove il romanzo spesso adotta un andamento temporale più libero, passando dalla sfera di Norman Bates (centro assoluto del romanzo) a quella degli sfortunati visitatori del motel.
Non ripeterò nei dettagli il soggetto a tutti noto: Marion (Mary nel romanzo) Crane ruba quarantamila dollari per poter sanare le situazioni economiche del fidanzato Sam e poterlo finalmente sposare; finisce nel motel di Norman Bates il quale vive prigioniero di una tragica schizofrenia, poiché parte di lui si è identificato nella madre morta (dopo averla avvelenata, dieci anni prima); qui viene uccisa a coltellate sotto la doccia dopo aver insultato la madre di Norman (cioé Norman stesso) in un dialogo che costituisce il cuore segreto dell’intero meccanismo narrativo, nonché il suo nucleo ideale; sulle tracce di Mary ci sono il detective Arbogast che finirà ucciso, la sorella Lila e il fidanzato Sam che, invece, riusciranno a rendere inoffensivo il delirante Norman.
Psycho è il massimo successo commerciale di Hitchcock, il suo film più famoso, non per forza il suo film più bello. Dopo le pellicole degli anni cinquanta sempre in bilico tra poliziesco, dramma e commedia, il regista tenta qualcosa di diverso attingendo a piene mani alla tradizione dell’horror inglese degli anni cinquanta con questo “piccolo” film (costato assai poco rispetto ai vari Vertigo e Rear Window) basato sull’archetipo di Jekyll e Hyde e girato in bianco e nero sia per non dare troppa enfasi al sangue nella celebre e violentissima - per gli standard dell’epoca- sequenza della doccia, sia come omaggio a quel popolare cinema dell’orrore, sia per ottenere uno straniante effetto “televisivo” in alcune parti del film, tale da ricordare episodi della celebre serie Hitchcock Presents, in onda sulle reti Cbs fin dal 1955. A tal proposito va ricordato che il regista utilizzò appunto una troupe televisiva per dirigere Psycho e che, in un momento di indecisione e sconforto, stava per trasformarlo in un episodio lungo da trasmettere sul network. Se però l’esito è tanto brillante, buona parte del merito appartiene al testo asciutto e coinvolgente, lineare e perfettamente calibrato del giallista americano Robert Bloch (1913-94).
E’ inutile e poco leale minimizzarne i meriti: Norman e “sua madre”, Marion, la spettrale casa nascosta dietro al motel, la palude che inghiotte auto e persone, l’omicidio sotto la doccia e il cadavere impagliato sono creazioni del romanziere. L’arte di Hitchcock consiste nel farli vivere in immagini di grande suggestione, entro scenari perfetti (dietro al motel tutto si fa nero, minaccioso e incombente, a indicare visivamente il lato scuro della personalità di Norman), neppure inventati per l’occasione (la casa di Norman era uno scenario preesistente a Hollywood) e attraverso superlative interpretazioni (inarrivabile la performance di Anthony Perkins, la quale brilla ancor più se confrontata con il remake di Van Sant, 1999, che sceglie l’inedita, originale e un po’ stucchevole via di una riproduzione quasi identica dell’originale; il maggiore difetto del lavoro di fedele copista di Van Sant appare proprio nell’inadeguatezza degli attori scelti per “sostituire” Anthony Perkins e Janet Leigh).
Come sempre la dimensione musicale appare decisiva, grazie all’artistico contributo di Bernard Herrmann; si ripete ora quanto notato per Vertigo: attraverso una colonna sonora di incredibile bellezza, affidata a una fremente, “percussiva” e bartokiana orchestra di soli archi, il film assume una definitiva dimensione propria, sconosciuta al romanzo, proprio grazie all’impasto formidabile di suoni e visioni. In particolare il celeberrimo tema dei titoli di testa, poi ampiamente riutilizzato nel corso del film, appare una metafora musicale della schizofrenia di Norman, centro ideale del racconto. Vi sono incisi corruschi, fortemente ritmati secondo precise ed efficaci asimmetrie, e sopra di essi finisce con l’apparire una dolcissima linea melodica bitonale che si snoda con fatica sopra un mare di dissonanze: le due anime di Norman, quella persa nell’identificazione con la madre assassina e quella infantile, indifesa e quasi supplicante del giovane direttore del motel, vi trovano così perfetta rappresentazione. Il tema compare in momenti assai differenti, non per forza in presenza di Norman, e tuttavia quel disegno musicale, tanto inquietante, contribuisce in modo fondamentale a porre l’intera avventura - anche i suoi passaggi non terrificanti - sotto il segno dell’incubo e della minaccia. Norman è ovunque nel film, come lo era nel libro, grazie al motivo di Herrmann il quale, come già era accaduto in Vertigo, riesce a donare alle immagini un senso unitario e frastornante di paura e orrore. Altrettanto perfetto è il tema in sovracuto, violentissimo, quasi rumoristico, che punteggia i due atroci omicidi (Marion sotto la doccia e Arbogast in cima alle scale): esso aggredisce lo spettatore e lo rende ancor più vulnerabile alla brutalità delle immagini.
Si racconta che Hitchcock fosse a un certo punto delle riprese deluso e incerto, e meditasse di trasformare l’intera vicenda in un semplice episodio pilota per la serie televisiva che porta il suo nome; e si racconta che fu proprio Herrmann a dissuaderlo facendogli ascoltare il suo commento sonoro. Anche se inverificabile, questo episodio appare altamente verosimile.
Venendo al contenuto della narrazione di Bloch/Hitchcock, proverò a darne una lettura insolita.
Il vero cuore del romanzo/film va collocato non tanto nella celebre scena della doccia (si dice sempre inattesa, ma i critici che non danno la dovuta importanza al romanzo, dimenticano che tutti i lettori di Psycho sapevano perfettamente che Mary/Marion veniva uccisa nelle prime quaranta pagine del libro; in realtà “l’elemento inatteso” di cui parlano i critici è solo l’uscita di scena di una star, Janet Leigh, a un terzo del film: vengono cioé trasgredite le regole di Hollywood, non tanto quelle della narrazione poliziesca, poiché non c’è alcuna originalità nel far morire un personaggio, anche importante, nella prima parte di un film; i critici si ostinano a discutere meccanismi dello star system, per i pochi a cui interessano simili sottigliezze), bensì nel dialogo che confronta Norma e Marion ossia due personaggi agli antipodi. Entrambi hanno commesso un crimine, entrambi sono finiti “in una trappola”, come essi stessi dicono parlando per ellissi e per allusioni di cose che rimangono nascoste, nel fondo della loro anima. Ma i due personaggi non si assomigliano in nulla, anzi. E va aggiunto che senza quel dialogo, che culmina nell’offensiva disquisizione di Marion nei confronti della presunta madre di Norman, non ci sarebbe stato alcun delitto: è quell’aggressione verbale, che inquieta il giovane del motel e soprattutto che fa scattare la vendetta sanguinaria della sua parte “materna”. Vediamo allora, più nel dettaglio, chi sono e cosa si dicono Norman e Marion.
Norman era un bambino sensibile che ha vissuto il trauma dell’abbandono del padre; trascurato da una madre che prontamente si risposa, decide di avvelenare la coppia, simulando un suicidio. In seguito egli ricrea nel proprio intimo una madre immaginaria, quella che lui avrebbe desiderato, attenta, affettuosa, timorosa e dedita al sacrificio; di questa figura rimane prigioniero e con essa vive in solitudine nell’isolato motel. Il mondo sta altrove, la via principale si è spostata e nessuno passa più dalle parti del Bates Motel poiché l’universo immaginario di Bates è quello ormai minoritario (negli USA di fine anni cinquanta, quelli della beat generation) del calore familiare e del rispetto degli impegni genitoriali, ossia di elementi propri di un universo sociale antimoderno. E’ una dimensione in cui non si contemplano il divorzio e la mancanza di attenzioni per un bambino. In definitiva la mostruosità di Bates deriva dalla sua non accettazione della modernità americana (in seguito anche europea).
Al contrario Marion impersonifica compiutamente quell’idea di modernità, nonché quel latente matriarcato che serpeggia nella società americana. E’ una donna impulsiva che ha deciso di sposare il suo fidanzato (non il contraro, si badi, poiché Sam non appare particolarmente entusiasta dell’idea, nel romanzo soprattutto) e dunque prende in mano la situazione. Le difficoltà sono economiche e allora lei ruba quarantamila dollari e se li porta con sè da Phoenix a Fairvale, dove vive l’amato, con l’idea di cambiare identità e farla franca. E’ una donna attiva dunque, più del suo uomo, pronta a trasgredire le regole per realizzare il proprio progetto matrimoniale. Posta di fronte a un uomo che vive isolato e che parla di doveri nei confronti di una madre invalida (ovviamente Marion non sospetta si tratti di una simulazione) la donna ha parole aggressive sull’inutilità di quelle cure, sul tempo sprecato, sulla libertà di movimento: insomma per un attimo Norman vede in Marion, nella sua individualistica “modernità”, nel suo disperato bisogno di socialità (e di un matrimonio), la sua vera madre e dunque ricompie il delitto che aveva già commesso. Marion è certamente anche la tentazione sessuale, è anche l’oggetto del desiderio, un oggetto però di cui si finisce succubi: cedere a Marion avrebbe significato eliminare “l’identita materna” e il tranquilo isolamento dal caos del mondo che essa comporta. Avrebbe significato abbandonare il motel (Marion glielo dice), simbolo di una strana, oscura pace raggiunta, per il mondo degli affetti instabili e dolorosi, soprattutto per un essere sensibile e lacerato come Norman.
Va anche detto che lo sfogo antimodernista di Norman (la sua veemente risposta alla aggressione verbale della donna) sortisce un importante effetto: Marion capisce di avere trasgredito troppe regole sociali e, tornata nella stanza del motel, pianifica il rientro a Phoenix e la restituiione dei soldi rubati.
Il dialogo nel motel dunque implica risonanze così ampie che vanno al di là, non solo della semplice trascrizione filmica di Hitchcock, ma perfino delle intenzioni di Bloch. In quel dialogo si scontrano due mondi: quello dell’aspirazione all’ordine familiare e sociale, alla stabilità degli affetti e quello individualistico del disordine capitalista, basato sull’iniziativa individuale, spesso assoggettata alle più diverse ed egoistiche passioni. Le pugnalate sotto la doccia vengono subito dopo.

Un “seguace” di Norman Bates è Freddie Clegg, il collezionista di farfalle, protagonista del romanzo d’esordio The Collector (1963) dello scrittore inglese John Fowles, trascritto in immagini nell’omonimo film (1965) da William Wyler. La vicenda è, in apparenza, totalmente dissimile: il giovane protagonista sequestra Miranda, una studentessa d’arte di cui è perdutamente innamorato e spera di riuscire a farsi amare da lei. Nel lungo mese in cui la tiene prigioniera in una sorta di ampio locale-cantina - in una casetta tagliata fuori dal mondo esattamente come il Bates Motel -  nessun passo avanti viene compiuto dal timido rapitore nei confronti della moderna giovane la quale non cessa di disprezzarlo neppure per un attimo. Nel tentativo estremo di riavere la propria libertà, Miranda decide di concedersi a lui, mostrando di non avere capito nulla della logica “antica” che anima Freddie, il quale le ricorda che quel tipo di rapporto può averlo a Londra, quando vuole, per poche sterline. Finirà tragicamente, con la morte della ragazza.
Ambientato nella swinging London, The Collector (libro e film) è  una specie di ampio sviluppo del dialogo del motel di Norman e Marion (del legame tra i due personaggi maschili di accorge Terence Stamp il quale, chiamato a interpretare Freddie, afferma di ritenere attori come Anthony Perkins più adatti a ricoprire quel ruolo). Un uomo “arcaico”, solo, introverso, collezionista (le farfalle occupano qui il posto degli uccelli impagliati di Norman) decide di rapire la ragazza che desidera, come si trattasse di una preda. Cerca poi di spiegare il suo gesto, di confrontarsi con Miranda (Samantha Eggar), di convincerla di un suo progetto familiare nel quale lei occupa il posto centrale, di essere galante ma ogni comunicazione è impossibile poiché i due giovani (esattamente come Norman e Marion) appartengono ad antitetici ordini di discorso e di valori.
L’intera storia viene narrata dipingendo Freddie come un mostro senza scusanti, incapace di reale comprensione del mondo circostante (quello in movimento dei primi anni sessanta), prigioniero delle sue lugubri manie collezionistiche (le farfalle morte), illustrando di contro la vivace intelligenza e il talento creativo della giovane come opposti alla sinistra chiusura del rapitore nei confronti di qualunque esperienza artistica (arte, letteratura, cinema sono apertamente odiati da Freddie ed elogiati da Miranda). L’atteggiamento del protagonista è peraltro logico e comprensibile in quanto la parte maggioritaria dell’universo artistico si è sempre schierata con le istanze moderniste della classe dirigente capitalista, supportandole con sincera convinzione.
Tutta la vicenda è costruita dagli autori per ridicolizzare le antiquate ambizioni familiari di Freddie, la sua visione della famiglia quale perno dell’esistenza a scapito dell’universo fatuo delle superficiali e instabili frequentazioni e, di contro, per esaltare l’apertura modernista di Miranda (appunto colei che è “da ammirare”) che infatti discorre costantemente del suo ricco mondo di amici, di libri e di quadri, un ricco mondo dal quale peraltro non sembra in grado di distaccarsi come persona autonoma.
Trattandosi di un esplicito e fervente testo a tesi (impossibile identificarsi con Freddie il quale risulta una povera e faziosa caricatura dell’uomo tradizionale),
The Collector è molto meno interessante di Psycho, di cui tuttavia costituisce un’originale derivazione.

Al contrario continuazioni esplicite e scadenti sono le pellicole che tentarono - tra il 1983 e il 1990 - di ridare vita ai personaggi di Robert Bloch e Alfred Hitchcock. In particolare un certo successo riscosse Psycho II (1983) diretto in modo dignitoso da Richard Franklin, ma basato su una disastrosa e ridicola sceneggiatura di Tom Holland. Vi si immagina che Norman - dimesso dal manimonio criminale - faccia ritorno al suo motel dove Lila Crane (sempre Vera Miles) e sua figlia (Meg Tilly) escogitano ogni trucco per farlo nuovamente impazzire e per poter vendicare, in tal modo, la morte di Marion. Dopo una vera ecatombe (praticamente tutti, intorno a Norman, finicono ammazzati), si scopre che la vera madre di Norman non era quella un tempo avvelenata dal figlio, bensì sua sorella.
Se gli attori se la cavano dignitosamente ed è interessante rivedere il celebre scenario del motel, tutto il resto gira a vuoto, compresa la mediocre colonna sonora di Jerry Goldsmith. Dei successivi Psycho 3 (1986; regia di Anthony Perkins) nel quale Norman torna a uccidere e Psycho IV: the Beginning (1990; regia di Mick Garris) sugli antefatti, non è il caso di soffermarsi.

Come noto Brian De Palma ha sempre attinto a piene mani ai luoghi classici del cinema di Hitchcock. In particolare l’autore italoamericano ha prodotto due varianti esplicite di Vertigo (vedi) e due di Psycho. Anzi va detto che la carriera di regista dell’orrore di De Palma inizia proprio con la prima di queste due varianti, Sisters (tit. it. Le due sorelle; 1972), pellicola che si colloca come settima nella filmografia del regista. Gli esiti cui perverrà, gradualmente, in questo genere filmico faranno dimenticare completamente i primi sei film dell’autore, lavori discontinui che si muovevano nell’ambito della commedia satirica con ambizioni di critica sociale, permeate a livello stilistico, di civetterie godardiane (a questo genere De Palma tornerà in seguito saltuariamente, con pellicole che rimangono risultati minori nel suo percorso artistico).
Sisters rielabora Psycho incrociandolo con la tematica dei gemelli e del doppio. Danielle sembra una fanciulla candida e un po’ tonta; peccato che di tanto in tanto si trasformi nella crudele Dominique (un tempo sua gemella siamese, morta un anno prima degli eventi) e uccida chiunque tenti di avere rapporti confidenziali e intimi con lei (o meglio con Danielle). Ancora Jekyll e Hyde, la metà oscura e la metà infantile, lo sdoppiamento inatteso e misterioso il quale perde tuttavia le risonanze etiche e sociali presenti nel modello di Bloch-Hotchcock mentre tiene presente il celebre noir The Dark Mirror (tit. it. Lo specchio scuro, 1946) di Robert Siodmak sul tema delle gemelle dal carattere antitetico.
Il film, girato a New York da una casa indipendente, si perde rapidamente in una marea di citazioni hitchcockiane e cinefile (Notorious, Spellbound, Rope, Rear Window ma anche Otto e mezzo, 2001: a Space Odyssey) che finiscono col dissolvere l’organicità del film per farne una sorta di piccola enciclopedia del cinema del mistero. Sebbene gli artifici stilistici posti in essere siano numerosi (split screen, finti documentari, immagini dentro l’immagine ecc.), il tutto non si amalgama in un lavoro coerente e significativo; al contrario diventa una specie di vasta palestra in cui critici cinefili si divertono a riconoscere gli infiniti rimandi insiti alla pellicola. Si tratta tuttavia di sterili esercizi che non possono migliorare un film girato con sicuro entusiasmo ma anche con scarso controllo dell’insieme e poca coerenza stilistica.
Neppure la colonna sonora, scritta nientemeno che da Bernard Herrmann, la quale conta almeno su un tema di grande effetto (una fanfara per quarte discendenti che rievoca apertamente le atmosfere sonore di Psycho) riesce a salvare questo strano guazzabuglio in cui De Palma non ha ancora deciso se fare sul serio (ossia girare thriller realmente spaventosi, dotati di un personale marchio) o se divertirsi con infinite rimodulazioni ironiche del patrimonio filmico esistente.
Tra l’altro l’insieme soffre di un taglio visivo sciatto e vagamente televisivo (De Palma, in questo campo, farà in seguito passi da gigante) mentre gli attori appaiono abbastanza spaesati.
Dopo avere rievocato l’uccisione di una vittima inerme (il posto di Marion è occupato da un amante occasionale di Daniel), le indagini iniziano per opera di Grace (Jennifer Salt), una scrittrice femminista che ha visto l’omicidio dalla finestra del suo appartamento e che, dopo avere invano coinvolto un ispettore di polizia (che non le crede, come accadeva allo sceriffo di Fairdale nei confronti di Lila Crane), incarica un detective (Charles Durning è l’Arbogast di turno) di effettuare indagini sul conto di Danielle/Dominique (Margot Kidder). Quest’ultima è protetta dal suo ex marito nonché psichiatra (William Finley) che conosce perfettamente la schizofrenia di quella che un tempo era una sua paziente. La conclusione è simile a quella di Psycho, con l’assassina che viene arrestata e Grace che sopravvive, sebbene piuttosto alterata.
Sisters costituisce una variante tutta filmica di Psycho, dove alla dilatazione di pochi eventi costruiti con cura si sostituisce un fitto reticolo di accadimenti che hanno un effetto stucchevole, sebbene evidenzino il grande talento e la notevole fantasia dell’autore. Il taglio ironico, quasi satirico di alcune sezioni, impedisce di prendere sul serio i personaggi e di sentirli come parte di un definito contesto sociale, precipitando l’insieme nel gelido manierismo di un esercizio accademico.
Sisters, coi suoi ondeggiamenti stilistici e le troppe citazioni, non venne notato dal pubblico dell’epoca. D’altro lato però esso è il lavoro che sancisce il deciso e definitivo passaggio di De Palma al giallo, sbilanciato verso l’horror. In questo cambio di rotta a mio parere ha giocato un ruolo importante il successo americano di The Bird with the Crystal Plumage (1970) ossia L’uccello dalle piume di cristallo, celebre film d’esordio di Dario Argento che ottenne un inatteso successo negli USA. Psycho in fondo era un modello lontano (dodici anni lo separano da Sisters) mentre la risonanza dell’opera del regista italiano, tanto nuova per effetti visivi, sonori e per le drastiche scelte narrative che sapevano coniugare in modo perfetto le cadenze del poliziesco e il sadismo del cinema dell’orrore, dovette essere decisiva nella concezione di Sisters. Il film di Argento costituisce, in più punti, il modello segreto di Sisters: una scrittrice assiste, da lontano, a un omicidio; poi si mette a indagare e scopre una donna con forti turbe psichiche che uccide in modo sanguinario (secondo sadiche modalità che sono quelle di Argento, più che di Hitchcock), aiutata dal marito innamorato e succube. Nel finale la detective viene “catturata” dagli assassini ma si salva per un soffio, mentre il marito muore e la donna viene arrestata.
Raccontata in questo modo la trama di Sisters è anche quella de L’uccello dalle piume di cristallo. E’ assai probabile dunque che il capolavoro di Dario Argento sia all’origine della conversione di De Palma verso un cinema denso di fantasie orrorifiche.

Otto anni dopo Brian De Palma, divenuto figura di spicco nell’ambito del cinema del terrore, firma una seconda, lussuosa versione di Psycho in Dressed to Kill (tit. it Vestito per uccidere) ambientata, come Sisters, a New York. Gli elementi del gioco sono i soliti, abilmente modificati. L’assassino è lo psichiatra Elliott (Michael Caine) che vive in modo conflittuale lo sdoppiamento con Bobby, segreta componente femminile (dunque omosessuale) della propria esistenza; Marion diventa Kate Miller, una signora sessualmente insoddisfatta (Angie Dickinson) che, dopo aver incautamente provocato lo psichiatra, viene uccisa a rasoiate a circa un terzo del film; al posto della doccia c’è un ascensore; la coppia di investigatori è ora affidata a due tipi bizzarri: Liz Blake, una prostituta d’alto bordo (Nancy Allen) che assiste all’omicidio e Peter (Keith Gordon), giovane figlio della vittima nonché brillante inventore di marchingegni elettronici; il poliziotto di turno (Dennis Franz) sembra non capire niente e invece (come in Psycho) salva la dilettantesca coppia di investigatori e cattura l’assassino. La doccia arriva nel secondo finale - quello onirico - in cui la prostituta, in preda a un orrendo incubo, immagina di venire ucisa da Bobby, scappato dal manicomio. Anche la divisione del racconto in tre blocchi viene rispettata: l’uccisione della prima vittima - le mortali peripezie del detective (con la differenza che Arbogast veniva ucciso mentre Liz si salva nella sequenza del metrò) - l’indagine conclusiva della coppia di poliziotti dilettanti.
L’aggiornamento di Psycho è brillante e può contare su un paio di sequenze da antologia (il lungo pedinamento al Metropolitan Museum, eccezionale brano di “cinema muto” dove si incrociano le seduzioni dell’arte visiva, degli sguardi e dei corpi, e quella della fuga in metropolitana, peraltro debitrice nei confronti de Il braccio violento della legge, Friedkin, 1971). L’ottima colonna sonora di Pino Donaggio sostituisce le convulse asprezze di Herrmann con una sensuale e italianissima melodia (apre e chiude il film) mentre citazioni dalle aspre sonorità dello Herrmann di Psycho si colgono solo nella sequenza dell’omicidio. In tal senso musicista e cineasta si accordano per donare alla pellicola un suo potente fascino seduttivo che passa attraverso la combinazioni di dolci melodie, contemplazione di corpi femminili (di entrambe le protagoniste), flessuosi movimenti di macchina e calibrata composizione delle inquadrature.
De Palma peraltro non dimentica il cuore esplosivo del romanzo di Bloch: il lungo dialogo tra Marion e Norman nella saletta degli uccelli impagliati. Anche ora infatti lo scatenamento della violenza maniacale di Bobby nasce da una provocazione femminile esplicita (sia Kate, sia Liz incautamente si offrono a un imbarazzato Elliott, nel suo studio) e quindi dal nuovo tipo di figura femminile emancipata, emblema della modernità americana, che cerca di imporre le proprie esigenze a un maschio in evidente difficoltà, indebolito, simbolicamente dominato da forti tendenze femminili ovvero “femminilizzato”. Sebbene non esplicito come nell’originale, anche in Dressed to Kill si afferma, a livello metaforico, il conflitto tra Modernità e Tradizione, tra una femminilità debordante e una virilità succube (per due volte Elliott, aggredito sessualmente, cerca di trincerarsi dietro alla fedeltà coniugale ossia dentro al perimetro della Tradizione). I colpi di rasoio di Bobby, i quali arrivano dopo un decennio di serial killer che deturpano, con macabro piacere, corpi femminili, a partire dalla rivoluzione sancita dalla trilogia degli animali di Dario Argento (1970-71), appaiono dunque prevedibili (anche se riformulati con insolita arte visiva) e giungono al culmine di una tendenza che, in seguito, tenderà a placarsi. Va ricordato che Dressed to Kill è, non a caso, l’espressione americana che significa inanzitutto vestito in modo seducente mentre il senso letterale è solo secondario laddove il titolo italiano, per forza di cose, rende quest’ultimo quale unico significato, perdendo l’importante gioco di “sdoppiamento” presente nel titolo. Essere “vestite per sedurre” provoca l’accensione dell’omicida, il suo “vestirsi per uccidere”, trasformando Elliott in Bobby.
Va infine ricordato che, come Sisters, anche Dressed to Kill mostra evidenti somiglianze nei confronti de L’uccello dalle pieme di cristallo (oltre alla generica derivazione contenutistica di cui si è detto): l’assassino è abbigliato in modo simile a quello del film italiano, come lui predilige i deturpanti rasoi, i quali sfregiano prima di uccidere ovvero distruggono la bellezza femminile (l’elemento scatenante) ed effettua sinistre telefonate.
L’enorme successo commerciale della pellicola di De Palma, esattamente un decennio dopo quella di Argento, influenzerà l’estetica del giallo americano degli anni ottanta durante il quale l’astiosa violenza nei confronti di donne “dressed to kill” andrà progressivamente scemando: le successive generazioni si formano nella modernità degli anni settanta e pertanto si rivelano assuefatte all’avvenuta parificazione delle figure maschili e femminili, senza più percepirla come una mutazione antropologica.
D’altronde negli ultimi due decenni del Novecento la figura maschile finisce con l’imitare l’altro sesso non solo nel vestiario (ormai divenuto “unisex”) ma perfino nella spasmodica (e francamente ridicola) attenzione alla propria immagine: ora anche lui si impegna per apparire “dressed to kill”.