It Had to Be Murder, Rear Window, 23 Paces to Baker Street e Manhattan Mystery Murder: un caleidoscopio intorno alla battaglia dei sessi (1954-93)
“I didn’t know their names. I’d never heard their voices. I didn’t even know
them by sight, strictly speaking, for their faces were too small to fill in with identifiable features at that distance. Yet I could have constructed a timetable
of their comings and goings, their daily habits and activities. They were the rear window dwellers around me” C. Woolrich, It Had to Be Murder – incipit (1954)
Nel 1954 Cornel Woolrich pubblica It Had to Be Murder, una breve storia destinata ad avere enorme influenza nell’universo cinematografico. Vi si narra di Hal
Jeffries il quale, immobilizzato su una sedia a causa di un’ingessatura, si diletta nel guardare/spiare i propri dirimpettai. Scopre, o meglio intuisce, da una serie di indizi, un delitto: Lars Thorwald elimina la propria
moglie malata e spedisce altrove, in un voluminoso baule, tutti i suoi effetti personali. Hal avvisa l’amico tenente Boyle e utilizza il domestico Sam per ottenere una serie di informazione riguardanti il presunto carnefice. In
una prima fase il poliziotto non crede ad Hal poichè la presenza di una signora Thorwald, destinataria del baule, è stata prontamente verificata dalla polizia; ma presto l’insistenza del nostro detective dilettante giunge a un
buon esito: la moglie è stata sepolta al piano di sopra (una sorta di cantiere a causa di lavori di ristrutturazione) mentre l’altra è semplicemente l’amante di Thorwald. Quest’ultimo, accortosi di essere spiato, fa irruzione
nell’appartamento di Hal e la polizia arriva appena in tempo per salvarlo. Il racconto è ben condotto e riesce a tenere il lettore in uno stato di continua tensione, come capita in tutti i migliori romanzi di Woolrich, alcuni dei quali verranno trascritti in immagini da
Francois Truffaut.
Alfred Hitchcock si impadronisce di questo breve racconto e lo trasforma in Rear Window
(ago 1954; 121 min.; uscita italiana apr.1955), un sontuoso affresco hollywoodiano in cui viene mantenuto come elemento essenziale il testo dello scrittore americano - rispettato in ogni dettaglio – mentre tutto intorno viene costruito un involucro affascinante nel quale campeggia un tema tutt’altro che poliziesco ovvero il perenne scontro tra i sessi nella società americana, argomento centrale nella filmografia del regista inglese.
La prima fondamentale variazione si trova nella sostituzione del domestico Tom con la strepitosa coppia femminile di Lisa Freemont (Grace Kelly; si noti la presenza del termine free nel cognome) e Stella (Thelma
Ritter): la prima è l’onnipresente, innamoratissima fidanzata che, impegnata nel mondo della moda newyorchese, giunge puntuale ogni sera a trovare Jeff (James Stewart), il proprio riluttante fidanzato mentre la seconda è una
pungente infermiera che, mentre massaggia il nostro eroe, gli ricorda, giorno dopo giorno, i vantaggi e le gioie del matrimonio. Hal, un fotografo amante degli scenari esotici e dei reportage avventurosi (in Africa ed Asia),
sopporta rassegnato il pressing di Lisa intorno alla esigenza di accasarsi e di rinunciare alla propria vita professionale semiselvaggia per accontentarsi di servizi fotografici relativi a sfilate di moda ed affini. Il
contrasto è totale, anche aspro a tratti e risulta essere una sorta di replica in tono minore di quello che anima l’appartamento dell’assassino. Anche in quello sono in corso, all’inizio del film, una serie di evidenti
conflitti verbali. In tutti gli altri appartamenti gli avvenimenti - che osserviamo sempre e solo dalla finestra di Hal, in sostanza come se si trattasse di una serie di film muti – hanno a che fare con la guerra tra i sessi.
Vi è un’avvenente ballerina che deve tenere a bada
decine di corteggiatori, che cede ogni tanto a qualcuno e che, scopriamo alla fine, ha un fidanzato militare; vi è una coppia appena sposata in cui appare già chiara la supremazia femminile (l’uomo, invano, cerca di concedersi qualche attimo di riposo dalle fatiche amorose... ); vi è una donna matura e terribilmente sola che spera invano di trovare un compagno: una sera riesce a portare a casa un uomo, ma questi esige immediatamente un rapporto sessuale, chiarendo il proprio disinteresse complessivo per la donna; ed infine c’è il tetro appartamente di Thorwald (Raymond Burr), quello che spesso, di sera, resta al buio mentre tutti gli altri sono invasi dalla luce: in esso la guerra tra i sessi si risolve nel modo peggiore anche se sembra chiaro che Thorwald si muove in modo criminale non solo per liberarsi di una moglie insopportabile ma anche per accontentare una nuova compagna, complice del delitto. Dunque Thorwald compie un gesto estremo, ma solo per cambiare compagna...
Di fronte a tutte queste situazioni definite troviamo invece quella in fieri di Jeff il quale lotta coi denti per mantenere la propria condizione di celibe e cerca in ogni modo di dissuadere la bella Lisa (spesso
raccontando episodi raccapriccianti relativi al proprio lavoro di fotografo) la quale non esita a giocare la carta estrema e ad imporre la propria presenza notturna all’amato (della quale Jeff non sembra entusiasta) per
forzarlo verso il matrimonio. Il nostro eroe può osservare, di fronte a sé, il carattere fallimentare di tutte le unioni matrimoniali, in differenti stadi e momenti della propria esistenza: dalla ballerina in cerca del consorte
più idoneo, alla coppia di novelli sposi, alla donna sola che, per motivi ignoti, non è riuscita a “catturare” un compagno, fino ai Thorwald ovvero all’esempio tragico di un uomo per il quiale la presenza della moglie è
divenuta insostenibile ed odiosa al punto di attuarne l’eliminazione fisica. Si noti con quale precisione Hitchcock, in questo suo film che giustamente va considerato tra i suoi esiti più compiuti e affascinanti, delinea la
differente attitudine maschile e femminile nei confornti delle cose del mondo. Jeff passa la propria giornata guardando fuori dalla sua abiutazione, cercando di trovare interessi nel mondo reale esterno (anche se, per forza di
cose, si tratta di un universo limitato a vicende familiari) mentre Lisa e Stella appaiono (nella lunga prima parte) del tutto disinteressate a ciò che avviene negli appartamenti di fronte e concentrati nella dimensione
domestica: la figura femminile, per quanto “emancipata” l’affascinante protagonista – che si chiama Freemont e lavora quotidianamente nel mondo della moda (di fatto anch’esso un’appendice dell’universo domestico... ) –
opera innanzitutto per far cadere nella rete la propria vittima; infatti dapprima gli porta un’elegante cena in camera e, in seguito, gli si offre completamente affinché Jeff valuti con attenzione le gioie del futuro matrimonio e, soprattutto, abbandoni la pericolosa abitudine a viaggiare in solitudine verso mete pericolose alla ricerca di fotografie sensazionali. Lisa opera soprattutto attraverso la stimolazione della sensualità della sua “vittima” (dapprima limitandosi all’organo del gusto, poi a quello più completo della sessualità) mentre Stella le fa un ottimo contrappunto, parlando di uomini e donne che devono naturalmente “accoppiarsi come i puledri nelle praterie”. Jeff
si rende perfettamente conto dell’ “attacco” frontale di cui è oggetto e della radicale rivoluzione che Lisa vuole apportare al suo stato e vi si oppone come può. Nel frattempo tuttavia appare alla mercé della donna, in quanto
bloccato tra le mura domestiche, e ancora di più lo apparirà nello spassoso finale (quando le gambe spezzate saranno due), amorevolmente accudito da Lisa che finge di leggere testi sulle vette dell’Himalaya prontamnente
sostituiti da riviste di moda non appena la “vittima” si addormenta. In fondo la sconfitta maschile è totale: Thorwald viene arrestato e Jeff è, in qualche modo, agli arresti domiciliari. Se, come dicevamo, la tendenza
domestica femminile prevale nella prima parte, da un certo momento in poi anche Lisa, convinta dalle osservazioni del fidanzato, rivolge la propria attenzione alla casa di fronte. Scatta in lei e in Stella l’automatica
solidarietà nei confronti della vittima (la moglie scomparsa) nella quale, in quale modo, esse si identificano (sanno inconsciamente che la loro costante pressione su compagni e mariti può portare ad esiti imprevedibili... );
inoltre ora Lisa può dimostrare a Jeff di essere perfettamente in grado di sostenere situazioni pericolose, arrivando – nella sequenza di massima tensione del film – a introdursi nella casa dell’assassino durante una sua
assenza. Ella solo in parte si interessa delle vicende di casa Thorwald (che, come si è detto, costituisce un replica della propria); di fatto vuole soprattutto dimostrare il proprio spregiudicato coraggio al proprio eterno
fidanzato, così da convincerlo al passo fatale. Né è casuale che nel momento apicale del film ella mostri a Jeff, dalla casa dell’assassino, ciò che cercavano ovvero proprio la fede nuziale (della morta) che ora Lisa esibisce
al dito, orgogliosamente.... Hitchcock riesce pertanto a raccontare un ottimo film poliziesco fatto di silenzi e di enigmi (di fatto una creatura di Woolrich), all’interno di un vivace e multiforme affresco intorno alla vita
matrimoniale nella moderna New York. Il suo è una sorta di polittico filmico nel quale, come negli antichi affreschi medievali, in ogni spazio (dipinto o filmato) si collocano eventi diversi, accomunati da un medesimo tema. La finestra sul cortile offre
due lati antitetici e perfettamente integrati in quello che è forse il più sperimentale dei film del maestro inglese. Da un lato Rear Window è una pellicola teatrale esattamente quanto il precedente Dial M for Murder (di
cui, tra l’altro, condivide compiutamente l’argomento ovvero l’uxoricidio) o quannto Rope, poiché si svolge interamente in una stanza. D’altro lato da quella stanza Jeff guarda costantemente dentro altre stanze poste di fronte a sè ed in quel costante spiare l’agire altrui il film mette in scena la pratica filmica per eccellenza, l’essenza stessa del cinema. Rear Window pertanto
sintetizza le due arti del Novecento, fondendole in modo unico e irripetibile: la dimensione teatrale, delimitata in un preciso ambiente e basata sulla parola (la vicenda Jeff-Lisa), è quella tipicamente domestica e femminile
mentre la dimensione cinematografica, nel suo spaziare in un universo potenzialmente infinito (il caleidoscopio degli appartamenti e la vicenda Jeff-Thorwald), allude a un tratto avventuroso e rivolto all’altro da sé, tipicamente maschile. Non dimentichiamo infine che Rear Window racconta ciò che avviene
nel cortile “di dietro”, ovvero racconta solo l’ambito “domestico” dell’esistenza; la facciata principale dell’edificio, il suo ingresso principale, la vita sociale che vi si snoda dinnanzi, ci sono ignoti. Disperatamente Jeff
cerca di intuire cosa combinano i suoi personaggi al di là del cortile, osservando un minuscolo viottolo che immette sulla strada, ma senza successo; ogni volta è costretto ad inviare un “aiutante” fuori casa per avere notizie
più precise. Rear Window, insomma, inquadra e racconta solo l’aspetto “domestico” e pertanto femminile dell’esistenza in quei luoghi dove l’uomo viene trattenuto o con la forza della seduzione o con la “catena” del
matrimonio, una catena che, come si è visto, può generare reazioni violente. Come è ovvio, il film costituisce anche una meditazione sull’essenza stessa del cinema. Jeff, non a caso un fotografo ovvero un osservatore degli
eventi, costituisce uan sorta di alter ego di Hitchcock ed il suo appassionato osservare i casi della vita ripete quello altrettanto curioso e partecipe dello spettatore “rinchiuso” nel buio della sala cnematografica. In un
dialogo apparentemente marginale, nella prima parte del film, un Jeff dubbioso (l’amico poliziotto gli ha appena riferito che la moglie di Thorwald è viva ed ha ritirato il pacco... ) si meravglia di essere deluso del fatto che
- probabilmente - la donna è viva e che il delitto è solo una sua fantasia: in quel modesto dialogo, a parte il comprensibile disappunto del detective dilettante, si annida l’anima tenebrosa del cinema in particolare e dello
spettacolo artistico più in generale ovvero l’attrazione formidabile che ogni forma di tragedia e di disgrazia altrui esercita sullo spettatore dell’opera al punto che l’opera esiste solo a patto di illustrare eventi
drammatici, spesso orrendi (come nel caso in questione), senza dei quali la creazione artistica faticherebbe ad imporsi. Hitchcock sembra coraggiosamente affermare (ed anche confessare) che la natura dell’arte cinematografica è
assai ambigua e si fonda anche sull’inconscio desiderio dell’uomo comune di assistere alle disgrazie altrui. Questa schadenfreude, questa gioia segreta e maligna, è una componente importante dello spettacolo artistico e raramente questo “cuore di tenebra” del cinema è stato rivelato in modo altrettanto schietto da un cineasta.
Due anni dopo Henry Hathaway firma un thriller che deriva dal capolavoro hitchcockiano e contiene elementi che torneranno nei primi film di Dario Argento.
23 Paces to Baker Street (1956; 100 min; tit. it 23 passi dal delitto; Baker Street, ben noto indirizzo di Sherlock Homes, è un riferimento troppo complicato per il pubblico italiano), liberamente ispirato al romanzo The Nursemaid Who Disappeared (1938; tit it. Mandato di cattura)
di Philip MacDonald, sceneggiato da Nigel Balchin (già collaboratore di Hitchcock per Rebecca) costituisce pertanto un curioso ponte tra i due massimi esponenti del thriller del Novecento.
Lo scrittore cieco Philip (Van Johnson) ascolta per caso una conversazione sinistra in un bar in cui si progetta un rapimento e da quel momento si trasforma in un
detecitve dilettante. Lo aiuta Jean (Vera Miles) l’aspirante moglie, già rifiutata da Philip la cui menomazione l’ha spinto su posizioni solitarie e misantrope. Come si nota tutto replica Rear Window: un detective
impossibilitato ad agire, una fidanzata che lo asseconda al solo fine di riguadagnarne i favori e il suo segretario (Cecil Parker; al posto della governante del film hitchcockiano) cui spettano numerosi compiti d’indagine, un
contesto prevalentemente domestico. Il film procede in una Londra nebbiosa, splendidamente ritratta, in un crescendo di tensione, simile a quello del recente modello, fino allo scioglimento in cui il protagonista sfida
l’assassino nerovestito (anzi un’assassina) nella propria abitazione e riesce ad avere la meglio grazie a una serie di trucchi (il buio nelle stanze, fuorvianti voci registrate al posto dei flash del fotografo) simili a quelle
che segnano lo scontro finale tra James Stewart e Raymond Burr. Anche in questo caos la vittoria di Phlip prelude al suo matrimonio... Hathaway firma un poliziesco notevole, di poco inferiore al modello anche se privo di
tutte quelle schermaglie allusive (vagamente misogine in Hitchcock), relative alla battaglia tra i sessi, che segnano il film con Grace Kelly. Atmosfere raggelanti, enigmi nascosti (il dialogo ascoltato ne contiene alcuni di
cui Philip verrà a capo solo in extremis), figure sinistre, una rete criminale perfettamente memitizzata danno vita a un perfetto complotto kafkiano in cui Philip si dibatte solo e disperato, ostacolato dal timoroso segretario e dalla fidanzata e inascoltato da poliziotti svogliati e un po’ scettici. Lo scioglimento con l’aggressione nella abitazione di Philip da parte di una misteriosa figura che sembra uscita da un racconto gotico (come quella che si aggira neò recente La maschera di cera,
1953), è di grande suggestione e ha certamente influenzato Dario Argento nei cui primi film ritroveremo questi elementi approfonditi e perfezionati: l’assasina nerovestita e l’enigma in posizione centrale (L’uccello dalle
piume di cristallo) nonchè la figura del detective dilettante cieco e il rapimento di una ragazza (Il gatto a nove code). Va infine ricordato che Sergio Pastore nel suo Sette scialli di seta gialla (1972;
vedi), pellicola di chiara derivazione argentiana, costruisce il proprio traliccio narrativo copiando spudoratamente tutte le situazioni caratteristiche del film di Hathaway, dalla centralità dell’investigatore cieco (Anthony
Steffen), all’ascolto del dialogo cruciale in un bar, dal pedinamento di una sospettata da parte del servitore (Umberto Raho) del protagonista allo scontro finale tra il non vedente e l’assassina (Sylva Koscina) nel buio della
abitazione del primo. Gli incassi italiani del film furono discreti.
Numerosi sono i film che riprendono la situazione chiave di Rear Window, senza però farne il cardine unico ed ultimo della narrazione. Tra le tante pellicole
ricordiamo Delitto a luci rosse (De Palma, 1984; vedi), il pregevole L’insolito caso di mr. Hire (Leconte, 1989; da Les fiancailles de mr. Hire, Simenon, 1933) e il telefilm Le piace Hitchcock? (Argento,
2005), omaggio complessivo, di qualità modesta, ai principali film del maestro inglese. Nel 1993 Woody Allen gira una sorta di remake di Rear Window in Manhattan Mystery Murder, pellicola solo
parzialmente riuscita. Woody Allen e Diane Keaton si ritrovano a spiare un pericoloso vicino di casa dopo che sua moglie è morta per un attacco cardiaco. E’ soprattutto lei a non credere al malore e a muoversi come una
detective dilettante mentre Allen, intimorito, cerca in ogni modo di frenarla. Insomma i ruoli originari si sono capovolti. Mentre l’intera prima parte, ambientata in una vasto condominio newyorchese, è quella più dipendente
dal modello di circa quarant’anni prima, le seconda parte inanella una serie di colpi di scena decisamente imprevedibili e degni di un romanzo della Christie. Tuttavia Allen ha ben compreso il cuore segreto del capolavoro
hitchcockiano ed infatti mette in scena una serie di coppie e di intrecci sentimentali che si sovrappongono e risultano il vero cuore pulsante del racconto. Ciò peraltro vale per l’intera filmografia alleniana, autore attratto
soprattutto dall’universo “domestico”, il quale si è sempre interessato, innanzitutto, al difficile rapporto tra i sessi e a problematiche di tipo sentimentale-erotico-familiare. La sintonia con Rear Window è dunque
aprioristica. L’esito filmico è, invece, intermittente: vi sono sequenze brillanti e riuscite, soprattuto per merito di una scatenata Diane Keaton (che, imitando Lisa, si introduce di nascosto nell’appartamente dell’assassino
più di una volta), mentre i troppi “balbettamenti” di Woody Allen appaiono manieristici e rallentano eccessivamente la narrazione, indecisa tra comico e tragico. Il finale, con la famosa sequenza degli specchi de La signora di Shangai (Welles, 1948), appare poco felice e genera l’impressione di un film nato attraverso la clonazione di differenti pellicole celebri e privo di una vita coerente e propria. Dove, invece, il film convince maggiormente è proprio nella messa in scena delle tante coppie amorose, alcune stanche (l’assassino e la moglie), altre nostalgiche (Diane Keaton e l’amico Alan Alda), altre in fieri (Woody Allen e Anjelica Huston), le quali generano un caleidoscopio abbastanza completo delle tipologie affettive esistenti: nella visione alleniana è sempre e soprattutto in questo ambito passionale che tutto avviene, che felicità e infelicità si avvicendano e che gli individui, per inseguire una nuova partner, sono disposti a sacrificare e finanche ad uccidere quella vecchia che è ora di ostacolo.
Il cinema di Woody Allen - un cinema tutto al femminile - trova il proprio punto di tangenza con l’universo hitchcockiano nella pellicola più “domestica” del cineasta inglese.
testo scritto nell’agosto 2013; ultimo aggiornamento: dic. 2018
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