Liszt a Milano

Franz Liszt a Milano nel 1837-38 – La ricezione delle composizioni pianistiche di Liszt, Chopin e Schumann nella città lombarda tra il 1840 e il 1918

              “A malapena si sa per sentito dire che Beethoven e Weber
              sono stati di questo mondo”
              Liszt parla della cultura musicale milanese in una lettera
              indirizzata a Schumann (aprile 1838)

              “La musica quartettistica è completamente trascurata [in Italia];
              ad eccezione delle ouvertures delle opere…è press’a poco impossibile
               sentire anche il più piccolo pezzo di musica orchestrale”
              F. Liszt, Sulle condizioni della musica in Italia (marzo 1839)

1 - I concerti

Quando Liszt giunge a Milano, il 29 agosto 1837, la musica pianistica, cameristica e sinfonica d’oltralpe è sostanzialmente ignota ai più. E’ vero che nel catalogo di Giovanni Ricordi figurano già alcune opere di Chopin, ma si tratta di poche gocce nel mare di un catalogo che è giunto a contare già intorno ai diecimila titoli. Peraltro appaiono quasi totalmente sconosciute ai milanesi le opere pianistiche di Mozart, Beethoven, Mendelssohn e Schumann mentre di Liszt – nel suddetto catalogo - compaiono alcune fantasie su temi d’opera.
Il giovane pianista viene accolto con tutti gli onori da Giovanni Ricordi e tiene concerti nei principali salotti milanesi. Innanzitutto si esibisce il 3 settembre a casa del suo editore, in via Ciovasso, all’interno di una variegata Accademia: l’artista sceglie per l’occasione il Divertimento su I tuoi frequenti palpiti di Pacini e il Grande valse di bravura. L’esito è superbo e la cittadinanza è avvisata dell’arrivo di uno dei massimi concertisti della scena europea. Lo conferma lo stesso Liszt scrivendo a Lambert Massart nell’ottobre 1837: <ho fatto furore, furorissimo ad una accademia (è così che si chiamano i concerti in questo paese), sei settimane fa, a Milano da Ricordi…>.
Tra l’ottobre e il novembre di quell’anno Ricordi fa pubblicare su numerosi giornali milanesi un avviso riguardante la presenza di Liszt in città e l’elenco delle sue composizioni già disponibili. Esso recita:
“Essendo tra noi il celebre pianista Francesco Liszt… che non ha rivali nel genere fantastico e ispirato, sarà certamente gradito sapere ai sigg. professionisti della musica e ai tanti esimj dilettanti di piano-forte ond’è si ricca Milano, il sapere come l’editore Ricordi Gio. Ricordi abbia pubblicato le seguenti opere del suddetto autore:
Reminiscenze dai Puritani;
Due Fantasie su motivi delle Soirèes musicales di Rossini
1 La serenata
2 L’orgia
Trois morceaux de salon…
Grande valse di bravura per pianoforte a 2 e a 4 mani
Reminiscenze degli Ugonotti
Reminiscenze de la Juive
Album d’un voyageur: 1° anno 1837
Trois airs suisse pour le piano…”
Liszt si esibisce inoltre durante i cosiddetti venerdì musicali che si tengono nella residenza di Rossini tra il novembre 1837 e il gennaio 1838, in quello della contessa russa Samoyloff e, infine, in quello della contessa Maffei nel 1838, dove non incontra il favore della padrona di casa.
I momenti culminanti dell’attività cncertistica milanese di Liszt sono rappresentati dai tre concerti che Liszt tiene al Teatro alla Scala, il primo proprio nella grande sala (10 dicembre 1837; pezzi principali: I tuoi frequenti palpiti di Pacini, Serenata e l’Orgia da Rossini e lo Studio in sol minore destinato a trasformarsi in Visione nella versione finale degli Studi trascendentali; nel concerto questi pochi brani pianistici sono dispersi tra duetti, cavatine e cori operistici), gli altri due concerti nel Ridotto del teatro (18 febbraio e 15 marzo 1838), eventi organizzati dall’impresario Bartolomeo Merelli nei quali ancora il pianista non si esibisce in solitudine bensì, secondo le usanze dell’epoca, in un lungo concerto antologico ove figurano cantanti, ballerini e pezzi per orchestra e coro. I brani proposti da Liszt sono per lo più inerenti al repertorio operistico, ben noto ai frequentatori del massimo teatro milanese con l’aggiunta del Settimino di Hummel. In quel periodo il catalogo delle composizioni di Liszt non offre ancora molti brani totalmente originali (la prima raccolta dei 12 Studi viene stesa proprio in quei mesi) e le sue esibizioni si situano quindi nell’ambito consueto del divertimento virtuosistico su temi noti, quasi sempre di origine vocale.
Va inoltre aggiunto che Liszt si esibisce nel Ridotto della Scala anche il 3 dicembre 1837, in un concerto collettivo (con Hiller ed altri), eseguendo l’Ouverture del Flauto magico in una spettacolare trascrizione a sei mani su tre pianoforti. In sala è presente Karl Thomas Mozart (secondogenito del compositore salisburghese, residente a Milano).
Le esibizioni ottengono comunque unanimi recensioni positivi, spesso entusiastiche in relazione al trascinante virtuosismo del pianista e, fin dall’autunno 1837, si parla di <Paganini del pianoforte>, di <pubblico estasiato>, di <modo di suonare grandioso, irrompente, energico che pare più non si tratti della sonorità del pianoforte ma della maestria d’un orchestra intera ed è una vibrazione che vi scuote, vi elettrizza, sbalordisce e non di rado vi produce un senso d’ansia e d’agitazione> (<La Moda>, 11 dicembre 1837). Solo lo Studio in sol minore (eseguito, come si è detto, il 10 dicembre 1837) non ottiene consensi unanimi tanto che, un po’ovunque, viene citata la battuta di quello spazientito ascoltatore che si lamenta in quanto <va a teatro per divertirsi e non per studiare>.
Nel secondo concerto – tenuto domenica 18 febbraio 1838 – accanto al Gran Settimino op.74 di Hummel, eseguito con altri strumentisti tra cui Ernesto Cavallini, il pezzo forte è costituito dalle Variazioni di bravura sopra un tema dei Puritani di Bellini (una versione quasi completa del cosiddetto Hexamèron , opera collettiva nata a Parigi, nel salotto della principessa Belgiojoso) ovvero quel Suoni la tromba, e intrepido che sottintende un preciso invito alla lotta patriottica antiaustriaca. In tale occasione tra il pubblico è presente l’amico Rossini.

2 - La polemica

Il pianista, accompagnato da Marie d’Agoult (nel dicembre 1837 nasce a Como la loro secondogenita Cosima Liszt, poi Wagner), abbandona Milano in quel marzo 1838 con l’intenzione di tornarvi nel settembre successivo, in occasione dell’incoronazione di Ferdinando I  re del Lombardo-Veneto. In quello stesso mese, però, invia una perfida corrispondenza alla <Revue Musicale de Paris> (edita nel maggio 1838) nella quale dice tutto il male possibile della Scala, dei milanesi che la frequentano e, in generale, della città lombarda. Il celebre articolo <La Scala> viene anche “rifinito” dalla contessa d’Agoult, per ora solo agli inizi di una lunga e brillante carriera di scrittrice e giornalista impegnata per la causa progressista, e viene inviato a Parigi nella certezza che farà scalpore. Puntualmente la polemica esplode: i principali giornali milanesi reagiscono tutti negativamente, alcuni con toni signorili, altri in modo più viscerale, alle assurde accuse mosse dal ventiseienne pianista. Liszt risponde agli attacchi con una lunga lettera a Lampato, il direttore de <La moda>, cercando di minimizzare la portata delle proprie affermazioni attraverso patetiche scuse (le quali lascerebbero intuire che le forzature antimilanesi del testo siano più opera della d’Agoult che del pianista) e, sopratttutto, argomentando una pretesa superiorità della cultura musicale austriaca e tedesca rispetto a quella operistica italiana. Trent’anni prima della nascita della Società del Quartetto milanese e dell’apparizione di un partito musicale “filotedesco”, quello caldeggiato da Boito, ecco comparire le prime affermazioni (in terra italiana) intorno alla superiorità armonico-contrappuntistica delle sinfonie di Beethoven, dei quartetti di Mozart, dei lavori di Weber, opere che la cultura milanese, stretta intorno al suo famoso teatro, sembra voler deliberatamente ignorare.
Eppure tutto questo dibattito – se ben contestualizzato - appare sostanzialmente delirante. Un giovane pianista, di formazione tedesca (Liszt è un cosmopolita che non parla l’ungherese), accusa La Scala di essere <un luogo tetro e sporco> dove si fa musica mediocre di fronte a un pubblico distratto e volgare. Ciononostante egli, esibendosi al pianoforte, utilizza principalmente temi della musica operistica italiana e francese quale base delle proprie variazioni (Divertimento su I tuoi frequenti palpiti di Pacini, la Fantasia sui temi della Serenata e dell’Orgia dalle Soirées musicales di Rossini; il recente Hexaméron,1837, sul tema belliniano <Suoni la tromba>, brano che contiene un’evidente allusione “risorgimentale” che dovette sfuggire alla rigida censura austriaca; le salottiere Réminiscences des Puritain, dedicate dalla principesa di Belgiojoso nel 1837, in cui si riascolta anche il tema di <Suoni la tromba>), pagine di modesto valore musicale le quali si inseriscono pienamente nell’atmosfera sonora italiana che il concertista si diverte a denigrare. Si veda poi l’elenco degli spartiti lisztiani pubblicati presso Ricordi (quelli pubblicizzati dall’editore sui giornali milanesi) nel quale prevalgono le fantasie su temi di opere italiane e francesi e le parafrasi da Rossini. Pur avendo la possibilità di far conoscere le sonate di Beethoven, di Weber o di Mozart, Liszt ripiega invece sul più effettistico Settimino in re minore op.74 di Hummel (1816) che, peraltro, sembra esser stato salutato da un buon successo nel concerto del 18 febbraio 1838, proprio alla Scala. D’altro lato il pianista non possiede ancora un proprio differente e originale repertorio e dunque le accuse di provincialismo, rivolte alla scena musicale lombarda, appaiono velleitarie.
Si noti che nel concerto tenuto da Liszt il 29 dicembre 1837 al Teatro Sociale di Como tengono banco le solite parafrasi rossiniane (La Serenata e l’Orgia) cui seguono improvvisazioni libere su temi proposti dal pubblico. Anche in quella occasione Liszt non sembra preocuparsi di diffondere il verbo musicale austro-tedesco. Insomma il Nostro predica bene e razzola male.
Bisogna inoltre ricordare con fermezza che la musica beethoveniana, illuminista e rivoluzionaria, è stata boicottata prima di tutto nella Vienna degli Asburgo dove Kapellmeister fu, fino al 1824, Salieri (deciso nemico del verbo beethoveniano) e in cui le opere del compositore di Bonn venivano guardate con sospetto, quanto meno fino agli inizi degli anni venti. I teatri di corte negavano perfino le sale a quel compositore “straniero”, ammiratore di Napoleone, e i suoi pochi concerti andavano semideserti. Al contrario nell’universo di Francesco I e poi di Ferdinando I era proprio la semplice e aproblematica musica operistica italiana ad avere il ruolo principale nella vita ufficiale di corte. Inquadrato in questo contesto storico, la provocatoria lettera intitolata <La Scala>, come pure le successive polemiche con Lampato, suonano pretestuose. Pretendere a Milano quello che non accadeva neppure a Vienna - fino a qualche anno addietro - era palesemente assurdo.
In una lettera del settembre 1838 (a Lambert Massart) Liszt ribadisce lo scarso interesse del pubblico scaligero per il suo Studio in sol minore; tuttavia può trattarsi di un episodio isolato e poco significativo (introdurre la nuova musica romantica, partendo dagli Studi anziché da Scherzi, Polacche, Notturni e Ballate era anch’esso un atteggiamento alquanto singolare) poiché se quell’uditorio mostrò di gradire l’ampio pezzo di Hummel, non c’è motivo di credere che non avrebbe apprezzato anche altre sonate di Mozart e Beethoven. Invece, sempre nella stessa missiva, il pianista si ostina a delineare la rozza antitesi tra “musica sensuale” del sud (Bellini, Donizetti e Mercadante) e musica “selvaggia” del nord (Beethoven, Weber e Moscheles) per concludere che <la Germania ha potuto dare le sue leggi alla Lombardia, ma dovranno passare ancora degli anni prima che la sua musica vi sia accettata. Le baionette possono imporre le leggi ma non potranno mai imporre dei gusti>. E’, quest’ultima affermazione, bizzarra sotto molteplici aspetti.
Innanzitutto, come si è già notato, gli imperi centrali avevano privilegiato fino agli anni venti proprio lo stile sensuale e disimpegnato degli Italiani. Salieri garantiva una musica “non rivoluzionaria” a corte (dove era ancora vivo il ricordo dell’umiliazione subita ad opera di Napoleone negli anni dell’occupazione della capitale, umiliazione sfociata nelle nozze forzate di Maria Luisa con “l’orco” francese) mentre Rossini veniva festeggiato come il più importante operista vivente al teatro di Porta Carinzia nel 1822 (evento che, come noto, irritò non poco Beethoven). Dunque se gli Asburgo non erano interessati a diffondere l’accesa musica romantica del tedesco Beethoven nella loro capitale, non si vede come questa potesse essere conosciuta nelle province periferiche come Milano. Inoltre appare stravagante che un liberale e progressista, addirittura repubblicano, quale Liszt si lamenti della mancata imposizione di un discorso artistico estraneo all’Italia sulla base della semplice dominazione politica.
In ogni caso è bene ricordare che intorno alla fine degli anni trenta nel vastissimo catalogo del milanese Ricordi compaiono ancora pochissime composizioni pianistiche della cosiddetta nuova ondata romantica: di Chopin vengono editi negli anni trenta le Mazurche op. 33 e l’Improvviso op. 29, lo Scherzo op.31 e gli Studi op. 10 e op 25 mentre di Liszt Ricordi stampa in quel decennio numerosissime fantasie su temi d’opera (per lo più da Rossini, Bellini, Donizetti e Meyerbeer) cui si aggiungono la prima versione di Album d’un Voyager, i 24 grandi Studi e il Galop cromatico op.12. Negli anni quaranta gli spartiti a disposizione del pubblico milanese e italiano vanno aumentando innanzitutto con la fondamentale pubblicazione delle sinfonie di Beethoven, nonché dell’integrale delle sonate pianistiche, violinistiche e dei trii del compositore di Bonn. In questo nuovo decennio il catalogo lisztiano non fa troppi passi avanti mentre Ricordi amplia le pubblicazioni chopiniane stampando i Notturni op.9 e op.37, la Sonata op.35 e l’Improvviso op. 36, i 24 Preludi, la Ballata op.38 e l’Improvviso op. 51. Di Schumann, nella prima metà degli anni quaranta compaiono solo i Pezzi fantastici op.12 e lo Scherzo e Giga op. 32.
Appare evidente che solo a partire dalla seconda metà degli anni quaranta il pubblico milanese (e italiano) comincia ad avere a disposizione un quadro abbastanza ricco di spartiti tedeschi e francesi, né va confusa la data di pubblicazione con quella di reale acquisizione all’interno della cultura musicale milanese: la maggior parte di queste pagine cominceranno ad essere frequentate con continuità, nelle sale da concerto, solo alcuni decenni dopo.
Nel breve saggio Sulla condizione della musica in Italia (marzo 1838) Liszt ribadisce il proprio ostinato e preconcetto disprezzo per la situazione italiana, parlando di generale “negligenza dei compositori” e giunge addirittura a minimizzare il valore di opere largamente diffuse in quel decennio quali L’elisir d’amore, Lucrezia Borgia, Parisina e Lucia di Lammermoor alle quali il pianista contrappone, in modo artificioso, la corrente dell’opera riformata di Gluck; ciononostante, quando si tratta di trascrivere al pianoforte materiale operistico, sono (in questa fase) i lavori di Bellini e Donizetti a prevalere.
Tornando alla nota lettera sul Teatro alla Scala e alla inerente polemica, va rilevato che, se si prova a guardare ad essa come a un atto politico deliberato, allora alcune cose potrebbero divenire più chiare. E’ di pochi anni prima la stesura del manifesto sulla “musica umanitaria” di Liszt (Über zukünftige Kirchenmusik ossia Sulla musica religiosa dell’avvenire, in <Gazette musicale>, 30 agosto 1835, probabilmente anche in quel caso aiutato dalla più colta Marie d’Agoult) in cui l’autore appare influenzato dalle idee rivoluzionarie di Lamennais e, in particolare, dal suo acceso testo Parole di un credente (aprile 1834), redatto nei toni veementi di una profezia (anticipando, per certi aspetti, lo stile nietzschano), testo nel quale il pensatore bretone inneggia a una sorta di rifondazione umanitaria e liberale della dottrina cristiana. Allineandosi a questa visione Liszt caldeggia, in ambito sonoro, un’improbabile musica universale, guardandosi bene dal definirne i dettagli concreti. La battaglia illuministica per il riscatto delle società civile dai regimi ancora largamente legati all’assolutismo, avviene – secondo il pianista -  anche attraverso un nuovo tipo di musica “umanitaria”, continuatrice di quella beethoveniana (non a caso messa al bando dal regime conservatore di Francesco I), della quale Liszt e Marie, assai delusi al riguardo, non hanno visto traccia a Milano.
Nel testo del 1835, redatto pochi mesi dopo la permanenza di Liszt presso la residenza bretone di La Chênaie di Lamennais, si trasporta il cristianesimo mistico e ribelle del riformatore all’interno del discorso musicale e si pone l’accento sul binomio popolo – Dio, di sapore protestante, con l’implicito fine di escludere le gerarchie cattoliche dalla partita. Questo manifesto - nella sostanza anticlericale e massonico – caldeggia dunque una musica solenne e universale che arrivi direttamente al popolo (descritto come l’insieme delle classi sociali più semplici, quelle degli artigiani, dei lavoratori più umili ecc.) e che lo innalzi a Dio (un Dio slegato dalle tradizioni rivelate), escludendo la necessità di una ecclesia, dei suoi dogmi e dei suoi sacerdoti. Compreso il senso recondito del testo, non stupisce veder citato, quale unico esempio di musica “umanitaria”, il canto della Marsigliese ovvero un canto fondamentale della rivoluzione violentemente anticlericale iniziata nel 1789. A tal proposito Liszt scrive:
“la musica deve occuparsi del popolo e di Dio, andare dall’uno all’altro, migliorare, moralizzare, consolare l’uomo e glorificare Dio… questa musica... chiameremo “umanitaria”, riassumerà in proporzioni colossali il Teatro e la Chiesa… La Marsigliese e i bei canti della rivoluzione sono stati i terribili precursori di questa musica… presto udremo risuonare nei campi, nei casali, nei sobborghi, nelle officine e nelle città dei canti, delle canzoni, delle arie e degli inni nazionali, morali, politici, religiosi “fatti” per il popolo, “insegnati” al popolo e “cantati” dai lavoratori, dagli artigiani, dagli operai, dai ragazzi e dalle ragazze, dagli uomini e dalle donne del “popolo”… Sarà il “fiat lux” dell’arte”.
Non può sfuggire, all’orecchio esperto, il carattere massonico di questo insolito manifesto musicale, che incontrerà la piena approvazione del pensatore bretone.
Il giovane pianista è stato ospite presso la residenza di Lamennais nell’estate 1834; si è preparato a questo evento leggendo l’opera della svolta del prete rivoluzionario (Le parole di un credente) e aveva maturato una sconfinata ammirazione per il personaggio e, si badi, esclusivamente per il “nuovo” Lamennais, quello che ha radicalmente preso le distanze dalla curia romana con il suddetto testo nel quale ipotizza una sorta di Cristianesimo affrancato, liberale e umanitario, in rivolta contro le gerarchie ecclesiastiche e la loro visione conservatrice. In quei giorni Liszt scrive alla d’Agoult: <io amo quell’uomo> e, in una lettera di ringraziamento successiva alla partenza da La Chênaie, si rivolge al proprio “padre spirituale” affermando: <Noi abbiamo tanto bisogno di voi, delle vostre parole e delle vostre azioni>. Liszt, che all’inizio degli anni trenta si era legato alle cerchie dei seguaci di Saint Simon, diviene un entusiasta discepolo dell’ideologo bretone e possiamo, insomma, supporre che una serie di scelte, di spostamenti, di relazioni e di giudizi della coppia Liszt-d’Agoult negli anni successivi (1835-39) avvenga nel segno delle teorie democratiche e rivoluzionarie di Lamennais.
Negli ultimi giorni di maggio 1836 Liszt è a Parigi e tarda a ricongiungersi con Marie d’Agoult che lo attende a Ginevra. Sta aspettando l’arrivo di Lamennais per un colloquio che sembra essere di capitale importanza. Finalmente l’abate giunge nella capitale francese e il loro incontro sembra essere decisivo; nella telegrafica lettera spedita da Liszt all’amante il 2 giugno 1836 vi si afferma:
“l’abate è arrivato – ci siamo visti e intesi – la mia incombenza infine è terminata. Adesso tutto andrà per il meglio. Domani venerdì alle cinque e mezzo di sera riparto per Ginevra”.
Si intuisce che il musicista abbia qualche importante messaggio da comunicare all’abate e si intuisce pure che egli consideri Lamennais come un proprio superiore gerarchico all’interno di un ordine o di una confraternita, superiore dal quale sembra attendere indicazioni e ordini. In tal senso appare fondata l’ipotesi che l’attività del Liszt viaggiatore della seconda metà del decennio si svolga sotto il benevolo auspicio di Lamennais e di una precisa cerchia politica.
Va inoltre ricordata la fondamentale lettera spedita da Liszt all’abate il 18 dicembre 1837 da Milano. Il concertista è reduce dal fragoroso successo scaligero e, tuttavia, appare scontento, quasi frustrato, come se la sua attività musicale fosse solo una mera copertura. Scrive infatti:
”La mia vita sarà sempre macchiata da questa oziosa inutilità che mi pesa? L’ora della dedizione e dell’azione virile non verrà affatto? Sono condannato senza remissione a questo mestiere di saltimbanco e di imbonitore dei salotti”.
Sono parole rivelatrici se ben esaminate: Liszt sembra solo sopportare la propria carriera musicale, in attesa di una qualche azione politica (non meglio definita ovviamente in lettere soggette alla censura asburgica), in direzione certamente rivoluzionario- repubblicana.
Non dimentichiamo che nel giugno 1834 – sotto il diretto influsso dell’opera chiave del “secondo” Lamennais – il pianista scriveva a una Marie ancora non  del tutto conquistata alle nuove idee repubblicane che
Le parole di un credente non sono che un semplice monito ai governi brutali che ci umiliano e ci opprimono. Prima di prendere le armi noi useremo tutti i mezzi pacifici e illuminati. Ma, infine, quando verrà il giorno in cui apparirà in tutta evidenza che esiste un’assoluta impossibilità di conciliare i privilegi di alcuni con il benessere generale, allora se bisognerà combattere, combatteremo, se bisognerà morire, sapremo morire”.
Va detto che il tempo ribalterà le posizione dei due amanti: in quel 1834 un giovane Liszt, conquistato dalle idee cristiano repubblicane, cerca di far colpo sulla contessa d’Agoult, ancora esitante (legata, per la sua storia passata, alla nobiltà reale) mentre negli anni quaranta sempre più Liszt sembrerà cercare l’appoggio degli aristocratici (sarà totalmente assente, come Schumann e diversamente da Wagner, nello scenario rivoluzionario del 1848-49, subendo al riguardo anche l’attacco ironico della contessa Belgiojoso) mentre la d’Agoult – dopo aver rotto con il pianista nei primi anni quaranta – lo accuserà di essere solo uno scaltro parvenu (nel romanzo Nelida, 1846) e si trasformerà nella giornalista e scrittrice Daniel Stern, animata da sicura fede repubblicana.
Infine possiamo ricordare che la composizione pianistica Lyon – presente nella prima edizione de l’Album d’un voyager (1835-36) come brano d’apertura ed ispirato alla rivolta degli operai lionesi (aprile 1834) - era dedicata a Lamennais e portava come epigrafe <Vivre en travaillant, mourir en combattant>. Non a caso questa composizione fremente e burrascosa, evidente pittura dei tumultuosi giorni della rivolta e del sangue - peraltro non lontana dalla scrittura cabalettistica del melodramma italiano - scomparirà nell’edizione definitiva, intitolata Annéès de Pèlerinage. Premiere Annèe; Suisse (1855).
Come si è detto il contesto intellettuale parigino in cui si muove il giovane Liszt è improntato alle nuove idee repubblicane di Lamennais il quale, a sua volta, è in contatto con La Giovine Italia di Mazzini. Quest’ultimo cita costantemente con ammirazione l’intellettuale francese e, a partire dal 1837, i due sono in costante contatto epistolare; medesima ammirazione l’ideologo genovese ripone nei lavori letterari di George Sand, scrittrice amica di Lamennais e legata alla coppia Liszt – Marie d’Agoult. Allorché nell’estate 1838 la polizia perquisisce l’abitazione francese di Lamennais, Mazzini ne dà conto alla madre (lettera del 1 agosto 1838). Nel giugno 1840 Mazzini – ben consapevole della appartenenza del pianista alla cerchia di Lamennais - si reca ad ascoltare un suo concerto a Londra, ne loda l’arte e ricorda alla madre (in una lettera del 1842) che Liszt è amico della Sand, che a differenza di tanti altri artisti è sensibile alle questioni sociali e politiche e che infine <Liszt è repubblicano>. Negli anni quaranta Mazzini e Lamennais “dialogano” per il tramite di Michele Lampredi, il fiduciario della Giovine Italia a Parigi. Nel luglio 1841 Mazzini scrive una lusinghiera biografia di Lamennais sulle pagine de <L’apostolato popolare>, giornale del movimento mazziniano che viene regolarmente inviato anche a George Sand. Dal 1843 Mazzini e la scrittrice instaurano un rapporto epistolare diretto. Possiamo pertanto dedurre da questi accenni che, per il tramite di Lamennais, Liszt agisce all’unisono anche con la capillare ed estesa organizzazione mazziniana.
Il pianista, dopo avere letto e studiato Dante con il pensatore bretone, comporrà in seguito la celebre Fantasia Dante i cui tumultuosi passaggi possono evocare, oltre che l’Inferno letterario del poeta fiorentino, anche gli atteggiamenti combattivi, eroici e rivoluzionari di quella musica nata negli eleganti salotti parigini dei fuoriusciti italiani e polacchi. Un intimo legame ideologico collega il Marin Faliero di Donizetti e I Puritani (1835) di Bellini, alle Polacche e alle Ballate (ispirate queste ultime ai testi d’esule Mickiewicz) di Chopin, alla Fantasia Dante e, infine, all’opera collettiva Examèron sul tema patriottico di Suona la tromba, e intrepido.
Tornando al testo chiave <La Scala>, va infine ricordato che esso non è opera del solo Liszt ed, anzi, si potrebbe ritenere soprattutto la d’Agoult responsabile degli eccessi presenti nella provocatoria relazione. Infatti all’amico Ferdinand Hiller la contessa così scrive nell’aprile 1838:
“Liszt mi ha lasciata a terminare una lettera sulla Scala e, in generale, la facciata musicale di Milano. Allora me la sono goduta… Mi aspetto che questa lettera farà un gran hoho quando arriverà nella capitale della Lombardia!”.
Come si nota l’intento polemico è deliberato e da attribuirsi più alla bellicosa Marie che al concertista il quale – in quanto dipendente dai favori del largo pubblico per la propria attività musicale -  non poteva certo avvantaggiarsi di un simile scostante atteggiamento. Al contrario la contessa - probabilmente già da quel 1838 più assorbita del compagno nel dibattito politico culturale (come dimostrerà il prosieguo della sua esistenza) - appare ben contenta di dare uno scossone alla scena milanese che aveva più volte giudicato – con fare sprezzante e artificioso - inerte e apatica. Va ricordato – anche se è cosa scontata – che la coppia, repubblicana e ammiratrice dell’epopea napoleonica, è animata da fiera antipatia nei confronti della polizia austriaca e in generale degli oppressori del Lombardo-Veneto. Se ne trova ampio riscontro nel diario che la contessa tiene con cadenza quasi quotidiana.
Venendo ai contenuti del testo va innanzitutto detto che la descrizione dell’attività scaligera come routine e mortorio appare mendace: tra il settembre 1837 e il marzo 1838 il teatro mette in scena non meno di due opere al mese, alcune totalmente nuove per Milano (Marin Faliero di Donizetti; Il giuramento di Mercadante), altre di repertorio (la Cenerentola e la Semiramide di Rossini e L’Ajo nell’imbarazzo donizettiano), alcune salutate da buon successo, altre ritirate dopo poche repliche, a testimonianza di un universo musicale vitale e variegato. La Scala, insomma, non era allora l’elegante museo odierno e, ciononostante, Liszt ne parla con sufficienza e perfino disprezzo, dando peraltro l’impressione di non avere seguito con attenzione l’intera programmazione del periodo. Appare insomma il giudizio di uno straniero, abbastanza disinteressato alle caratteristiche precipue del teatro d’opera italiano, nonostante la sua abilità nel riprenderne i motivi più famosi nelle note improvvisazioni. Se ne trova netta conferma nei giudizi sorprendenti che il pianista invia a Berlioz l’anno seguente (settembre 1839); gli scrive: <…non avendo nulla da cercare nell’Italia di oggi, mi misi a frugare nel passato; avendo poche cose da chiedere ai vivi interrogai i morti…>. Voglio brevemente ricordare che – come ognuno sa - gli anni trenta dell’Ottocento sono stati tra i più fecondi per il teatro lirico italiano; lo dimostrano capolavori indiscussi quali Norma e Sonnambula (entrambe del 1831), Anna Bolena (1830), Elisir d’amore (1832), Lucrezia Borgia (1833) e Lucia di Lammermoor (1835), solo per citare le creazioni più note e, si badi, note allo stesso Liszt che utilizza numerosi temi di questi melodrammi in fantasie e parafrasi. La posizione del giovane compositore appare quindi prevenuta nei confronti dell’arte italiana (atteggiamento che lo accomuna a Robert Schumann, il quale però si è tenuto alla larga dai temi musicali di Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti) e, in definitiva, contradditoria.
Sulla base delle suddette premesse, si può ipotizzare una lettura simbolica dello stravagante testo sulla vita culturale di Milano: rilevata l’insensatezza delle critiche, poste in essere, tra l’altro, dopo un breve soggiorno di pochi mesi che non poteva, in alcun modo, dare un quadro esaustivo della storia culturale della città (critica puntualmente mossa a Liszt dalle riviste lombarde, allorché reagirono allo scritto del pianista), non resta che pensare al testo della coppia come a un messaggio politico rivolto a tutti i liberali di Francia e d’Inghilterra intorno alla situazione statica che si è trovata a Milano. A quel punto i corridoi sporchi del teatro, il pubblico distratto, la qualità musicale scadente divengono una sorta di criptico reportage politico che indica Milano come una piazza dove è, per ora, impossibile porre in atto iniziative liberali o rivoluzionarie. Si noti che nel suo diario Marie d’Agoult nei primi mesi di quel 1838 annota:
“Ho trovato nella società di Milano lo stesso vuoto e la stessa stupidaggine che altrove. …sotto questo aspetto Milano supera molte altre città, cosa che si spiega con le pastoie poste al pensiero dal governo austriaco, dalla inazione forzata dei giovani che non vogliono servire i loro oppressori… “.
Appare chiara l’ostilità della compagna di Liszt (nonché probabile coautrice del testo <La Scala>) nei confronti del regime asburgico.
L’incipit di quel testo è particolarmente suggestivo poiché sembra alludere, in termini simbolici, all’eterna lotta tra Chiesa e Massoneria:
“Il Teatro alla Scala… fu costruito… sull’area dell’antica chiesa di Santa Maria alla Scala, come se l’antico serpente, il principe dei demoni, avesse voluto dare una clamorosa smentita alla profezia, ponendo il piede superbo sulla fronte vinta della donna”.
Dopo questo inizio solenne e compiaciuto, inizia il lungo elenco delle doglianze.
“…Non conosco nulla di più sporco, di più nero, di più fetido delle scale e dei corridoi della Scala, che è e vuole essere il primo teatro al mondo… Quando la Scala si chiude, la società si scioglie; si direbbe che… il rumore degli strumenti le è indispensabile per nascondere a se stessa la sua nullità…
per fare una conversazione, abbiate innanzitutto argomenti di conversazione; ora come trovarli in un paese che non ha né movimento politico, né tanto meno artistico?… c’è un ordine di bellezze al quale il sentimento degli italiani è quasi completamente estraneo: una profondità di pensiero… che essi non desiderano. Essi temono tutto quello che richiede la benché minima attenzione… Riassumendo… potete concludere che la Scala si trova in uno stato di decadenza, di cui è impossibile prevedere la durata…”.
Decadenza delle cose musicali (negli anni d’oro di Bellini e Donizetti, entrambi a lungo festeggiati proprio nella Milano di pochi anni prima) o, forse, delle cose politiche?
Si tenga conto, infine, che la permanenza di Liszt in Lombardia viene discretamente controllata dalle autorità asburgiche (anche su richiesta del conte d’Agoult) e che, in una relazione del barone Puteam al governatore Hartig (datata Como, 22 dicembre 1837) si riferisce che Liszt, pur non nascondendo le proprie idee repubblicane, tralascia le discussioni politiche. Quando poi la coppia Liszt - d’Agoult parte per Venezia (16 marzo 1838) comunica ai giornali la falsa direzione di Napoli, quasi certamente per complicare il lavoro della polizia asburgica.
Liszt e Marie rientrano a Milano il 15 luglio 1838. Lo scritto su <La Scala> – edito a Parigi -  è noto da pochi giorni nella città lombarda. Il 17 luglio sul giornale <Il Pirata> esce la risposta del direttore Francesco Regli intitolata <Guerra al signor Liszt>  in cui si legge:
“allorquando uno straniero ci fa argomento di mille menzogne e pubblicamente ne insulta, dopo aver passato diversi mesi tra le nostre mura e sotto il nostro cielo… quale di noi… non sorgerà a distruggere le sua false accuse, a smascherare le sue ingiustizie, a punire la sua tracotanza?”.
L’autore prosegue con un’appassionata e condivisibile difesa della Scala, dei suoi valenti autori, noti (Rossini, Mercadante) e meno noti (Conti, Ricci, Coccia), dei cantanti, del coro, dei ballerini e dell’orchestra. Certo vi si ammette qualche elemento di decadenza, ma come fisiologico all’interno di una storia che possiede alti e bassi, decadenza condivisa in quel frangente dai massimi teatri italiani. Una simile bellicosa risposta era nell’ordine delle cose, tanto più che le accuse di Liszt apparivano superficiali e faziose a larga parte dei milanesi.
Il 18 luglio esce invece una replica ancor più feroce ossia <Un poco più forte perché si senta> su <Il corriere dei teatri> a firma Luigi Prividali. In quest’ultima viene messo in discussione il musicista Liszt nel suo insieme: lo scrivente palesa di essere rimasto del tutto indifferente ai suoi concerti, di averli trovati un semplice guazzabuglio di note nei quali
“pigliando temi dalle nostre cabalette, per passare dall’una all’altra senza connessione, ed anche senza artifizio… la sola materiale velocità delle dita, e fosse anche unica, e pareggiasse anche il lampo, mi farebbe apprezzare quel così straordinario materialismo… ma non mi lascerebbe la pù lieve impressione”.
Come si nota, molto prima che i funambolismi dei virtuosi divengano tematica dominante a Milano come altrove, il Prividali sembra già intuirne la vacuità e stigmatizzarne l’inutilità, descrivendo le esibizioni del Liszt milanese, improvvisatore su temi operistici. Nell’articolo si contesta inoltre, con molta durezza e qualche ironia, il continuo paragone tra la vita culturale milanese e quella parigina, trattandosi di realtà differenti e soprattutto essendo la città lombarda un sesto circa di quella francese (si usano i termini di “colosso” e “pigmeo”) e, dunque, impossibilitata a seguire la capitale francese nel suo fasto. Infine si difende la cultura operistica scaligera dalle offensive generalizzazioni del musicista (<racconta il sig. Liszt come si scrivono le opere in Italia… e quantunque tutte queste cose da tutti si sappiano già da tre secoli, le espone nondimeno con una misera inesattezza, con una ridicola esagerazione>), la cultura teatrale italiana più in generale (<tutta l’Europa ascolta le nostre opere anche moderne e tradotte nella sua favella… perfino l’America e l’Africa attendono dei cantanti nostri le spedizioni>) e ribatte, non senza un certo umorismo, che <il sig. Liszt… ci fa la grazia di dichiararci mediocri; noi siamo buoni giudici della mediocrità, lo che avrà egli probabilmente dedotto dal sentirsi, nelle sue Accademie, sonoramente applaudito>.
Invano Liszt cerca di replicare, di scusarsi e di correggere il tiro in una lettera pubblicata sul <Supplemento alla Moda> del 19 luglio 1838 nella quale, dopo avere ribadito l’arretratezza della scena milanese in quanto Beethoven,Weber e Mozart sono in essa trascurati o del tutto ignoti (il pianista cita Fidelio, la sinfonia Pastorale, la Sinfonia coi cori, il Freischütz e l’Euriante come esempi di capolavori mai eseguiti a Milano), conclude <protestando contro il senso erroneo che si è dato alle mie parole…>. Ma ormai l’intesa con il pubblico della città lombarda doveva ritenersi rotta per sempre e le scuse tardive, abbastanza goffe. La tensione anzi arriva a un punto tale che si parla di duelli e di bastonature. Prudentemente Liszt e la sua compagna lasciano Milano il 23 luglio 1838.
Nei primi quindici giorni di settembre Milano accoglie Ferdinando I per solenni festeggiamenti in occasione della sua incoronazione nel duomo di Milano. Liszt rientra nella metropoli lombarda in quell’occasione, assiste annoiato alle cerimonie e decide di dare un nuovo concerto nel Ridotto della Scala. Dopo le aspre polemiche, tuttavia, non può permettersi di chiedere un onorario e dunque suona per beneficenza, cercando in qualche modo di ritrovare una qualche sintonia con almeno una parte della città. Lunedì 10 settembre, nel suo quarto concerto scaligero (anche questa volta un’accademia vocale e strumentale), il pianista esegue una propria trascrizione dell’ouverture del Guglielmo Tell rossiniano (ovvero un’opera semiproibita dalla censura asbugica per il suo contenuto liberale, andata in scena nel teatro ampiamente rimaneggiata con il titolo Guglielmo Vallace nel 1836), una libera fantasia su temi operistici, di nuovo L’orgia (dalle Soirèes) e il Gran Galoppo cromatico. Come si vede il solito programma “italianeggiante”, “disimpegnato” e senza composizioni di Beethoven e di Weber… . I Milanesi, in ogni caso, accorrono abbastanza numerosi e applaudono Liszt, nonostante tutto. Regli, su <Il Pirata>, snobba l’appuntamento e recensisce altre manifestazioni musicale del periodo (numerosissime in quei giorni). Gli altri giornali si mostrano tiepidi e non dedicano grande spazio all’ultimo concerto milanese di Liszt.
Tornando alla possibile lettura della clamorosa lettera sulla Scala come a un messagio in codice va rilevata la sconcertante, duplice reazione a quel testo da parte della principessa Cristina di Belgiojoso, amica e protettrice di Liszt fin dalla metà degli anni trenta. Come noto il salotto della nobile milanese è, a Parigi, un centro nevralgico della cultura italiana liberale. Ciononostante l’aristocratica, ritiratasi in Inghilterra nella primavera del 1838 a causa di una gravidanza celata ai più, scrive una lettera quasi scandalizzata a Liszt:
“Ho riceuto la vostra lettera in cui dite un male terribile dei miei compatrioti… Ne ho avuto stizza… Mi sono sentita offesa doppiamente per i miei compatrioti e per me… In tutt’altro tempo vi avrei scritto… ma in questo momento ero troppo oppressa dal resto per dire qualcosa…”(18 giugno 1838).
Perfino l’amica principessa è dunque sconvolta dalla durezza della lettera e, con le ultime righe, ricorda al pianista di essere rimasta tagliata fuori dalla vita politica parigina da alcuni mesi. Liszt risponde giustificandosi in qualche modo (la lettera è perduta) e ottiene un effetto incredibile sulla nobildonna la quale così gli scrive qualche mese dopo:
“Ho ricevuto la vostra lettera e le spiegazioni che mi date. Sapete che non le attendevo e che sono stata incantata allorché mi avete offerto una via per discendere dal mio risentimento” (8 agosto 1838).
Sembra di poter dedurre, da queste poche parole, che gli insulti scaligeri della corrispondenza parigina possano avere una motivazione segreta tale da far mutare radicalmente umore alla principessa Belgiojoso la quale si dice addirittura “incantata”. Ne esce insomma rafforzata l’ipotesi che si sia trattato di un qualche messaggio cifrato intorno allo stato delle cose politiche milanesi.
Negli anni successivi Marie d’Agoult confermerà la propria fede repubblicana e il proprio impegno politico dedicandosi, con passione quasi univoca, a una lunga carriera di scrittrice durante la quale, con lo pseudonimo di Daniel Stern, pubblicherà numerosi testi inerenti l’auspicata svolta democratica e repubblicana. Appena rientrata a Parigi, alla fine del 1839, vi apre un salotto animato da idee progressiste (in aperta concorrenza con quello della Belgiojoso, che di lì a poco lascerà la capitale francese) nel quale intervengono Lamennais, Lamartine, Hugo e Tocqueville. Ardente ammiratrice di Mazzini, anni dopo si intratterrà con l’ideologo in una lunga corrispondenza epistolare (1864-72).
Nella biografia della contessa, tuttavia, notiamo di sfuggita alcune incongruenze tra teoria e prassi, tra sfera pubblica e privata, tra sermoni universalistici e semplice agire quotidiano. Nel giugno 1839 in una lettera all’amica Carlotta Marliani, Marie annuncia la nascita di Daniel Liszt (il terzo figlio della coppia; i primi due erano stati affidati alla madre di Liszt) scrivendo: <…dimenticavo di dirti che il mese scorso a Roma, ho partorito un figlio e l’ho lasciato là…>. Come si intuisce da queste poche sprezzanti parole la contessa d’Agoult, troppo impegnata nelle proprie battaglie ideali, si occupò sempre assai poco dei tre figli avuti da Liszt e lo stesso si potrebbe dire (con alcune differenze che, in questa sede, non è il caso di ricordare) del padre. In loro sembra agire quella forma di alienazione - ricorrente in queste figure di accesi riformatori (ad esempio in Mozart e in Mazzini ritroviamo un simile disinteresse nei confronti dei propri figli).- che li porta ad essere completamente assorbiti dalle problematiche del mondo e incredibilmente sordi a quelle del “proprio mondo”.

3 – Le scuole musicali

Nel periodo di permanenza milanese, il giovane Liszt – strenuo difensore, nei suoi scritti, della musica tedesca -  è l’unico concertista presente in città. In una delle tante lettere a Lambert Massart, commentando la situazione musicale a Milano, afferma: <In fatto di concerti nulla, se non il vostro umile servitore…> (febbraio 1838). Il compositore non sembra peraltro avere dedicato alcuna attenzione all’unica sede nella quale si coltiva con continuità e dedizione la musica strumentale ovvero il Conservatorio musicale, inaugurato nel 1808 nei locali dell’ex Convento della Passione.
D’altronde l’istituto milanese è ancora una scuola di piccole dimensioni: per il pianoforte (come per tutti gli altri strumenti, escluso l’insegnamento del canto) vi è una sola cattedra. Nei primi anni la detiene Benedetto Negri (1808-23); gli succede Giovanni Stockerdal (1824-27), poi Antonello Angeleri (1827-50). Solo nel 1850 si istituisce una seconda cattedra (all’Angeleri si affianca Francesco Sangalli) e nel 1857 una terza (affidata a Disma Fumagalli). La presenza di tre cattedre indica il crescente interesse per questa materia, come si può dedurre anche dall’osservazione dei saggi pubblici.
Le classi rimagono tre per un lungo periodo; nel 1871 l’Angeleri viene sostituito da Carlo Andreoli. Nel 1897 anziché aumentare esse vengono ridotte a due, a causa dell’istituzione di una nuova classe di pianoforte complementare e tali rimangono fino ai primi anni venti del Novecento.
Scorrendo l’elenco dei saggi degli allievi si scopre poi che il pianoforte classico-romantico è pressoché assente fino al 1860. Fanno eccezione le sporadiche esecuzioni di un concerto per pianoforte e orchestra di Kalkbrenner nel 1838 e di un concerto per pianoforte e orchestra di Hummel nel 1853. Negli anni sessanta rileviamo la presenza di qualche Trio di Beethoven e un concerto pianistico di Mendelssohn (nel 1860) e sappiamo per certo (ce lo dice il Filippi in alcuni scrttti sulla <Gazzetta musicale di Milano>) che in classe l’Angeleri usa costantemente gli studi di Chopin quale base indiscutibile per l’insegnamento della tecnica concertistica. Nel 1870 è la volta di un concerto pianistico di Chopin (ripetuto nel 1872) mentre nel 1874 viene eseguito il Concerto in la minore di Schumann. A parte un paio di studi lisztiani (delle serie paganiniana) c’è poco altro da segnalare nel decennio.
Negli anni ottanta si notano esecuzioni di S. Francesco che cammina sulle onde, di S. Francesco che predica agli uccelli e della versione concertistica della fantasia Wanderer (Schubert) di Liszt, della Fantasia op. 17 e dell’Introduzione e Allegro appassionato op. 92 (per pf e orch) di Schumann, della 4° Ballata di Chopin e, infine, il Concerto in sol maggiore di Mendelssohn. Anche in questo decennio l’interesse per il pianoforte romantico appare complessivamente piuttosto modesto.
Anche nel successivo decennio le tre (due dal 1897) classi di pianoforte non fanno miracoli se giudicate dai saggi pubblici. Ritroviamo la Fantasia op. 17 (solo il 1° movimento), cui si aggiungono gli Studi sinfonici e la Sonata in sol minore op. 22 (solo il 1° movimento) di Schumann, il Mephisto valzer di Liszt, la Terza sonata, la 1° Ballata e l’ Andante spianato e polonaise op. 22 di Chopin.

A partire dal 1891 al Regio Conservatorio si affianca la Scuola musicale di Milano, istituto situato dapprima in via Carlo Alberto (attualmente via Mazzini, a pochi passi da piazza Duomo) e, due anni dopo, nella vicina via Unione. La scuola, destinata a diventare per importanza la seconda sede di insegnamento musicale nella città lombarda, segue <i metodi più moderni e le regole adottate nei Regi Conservatori > (così recita lo statuto) ma al tempo stesso conforma cattedre e insegnamenti alla richiesta reale dell’utenza. Osserviamo dunque che nel 1892 su 70 allievi ben 39 sono pianisti e che, su nove cattedre esistenti, quattro sono dedicate al pianoforte (solo due invece quelle di canto). Nel 1900 gli studenti di pianoforte sono diventati addirittura 132 su 165 totali. Dunque è certo che nei due ultimi decenni dell’Ottocento il pianoforte guadagna quella centralità nel gusto musicale della maggioranza (dapprima presso il pubblico amatoriale, poi, progressivamente, presso tutti gli attori dell’universo sonoro) che avrebbe mantenuto fino ai nostri giorni (sebbene oggi, dopo oltre cinquant’anni di egemonia planetaria della rockmusic, tale posizione appare chiaramente insidiata dalla chitarra, quanto meno nella sfera amatoriale e tra i più giovani; tuttavia gli odierni giovani sono gli adulti di domani…).
La Scuola musicale di  Milano sembra interpretare, meglio del Conservatorio, la nuova prevalenza della musica strumentale in generale e del pianoforte in particolare. Nel 1898, commentando un saggio pubblico della Scuola musicale, il giornalista de <Il Commercio> scrive: <Non sappiamo con quale criterio sia stato compilato il programma di ieri. Dei sedici pezzi che vennero eseguiti, quattordici erano per pianoforte>. Il tono, indeciso tra la sorpresa e la velata critica, ci fa comprendere che siamo proprio nel bel mezzo di una generale trasformazione del gusto di cui questo nuovo istituto si fa portatore e naturalmente non manca chi, legato a vecchie abitudini (alla prevalenza del canto e all’accademia intesa come varietà dei generi), oppone resistenza.

4 – La carta stampata

Come dicevamo Liszt è un concertista isolato nella Milano di fine anni trenta, né la situazione muta nel decennio seguente. A partire dal 1842 esce con regolarità  <La Gazzetta musicale di Milano> (fino al 1902, con qualche breve interruzione; l’editore è Ricordi), la quale registra con una certa fedeltà la vita musicale della città, oltre che della penisola e dà notizia dei principali fatti artistici europei. Negli anni quaranta non c’è traccia di concerti che abbiano per tema la musica di Chopin, di Liszt e di Schumann. Di contro la rivista propone fin d’ora una serie di saggi e recensioni intorno alla musica di questi romantici, soprattutto in relazione alla coeva pubblicazione degli spartiti presso la casa Ricordi. Tali saggi sono interessanti ma significano poco quanto alla reale ricezione della musica di questi autori: indicano solo l’esistenza di una elite che conosce questi nuovi testi e che, probabilmente, li pratica all’interno di un contesto musicale privato e, come tale, difficilmente investigabile. Filippi, recensendo (nel 1866, sulla suddetta <Gazzetta>) l’ennesima antologia chopiniana in uscita presso l’editore Ricordi, parla di “grande popolarità” dell’autore di queste composizioni; tuttavia bisogna aggiungere che tale fama appartiene interamente alla sfera del privato, dei salotti borghesi e delle piccole o grandi accademie che vi si tengono; la sfera pubblica dei teatri in questa fase ignora la musica del pianista polacco.
Nel 1851 la <Gazzetta> pubblica in 17 puntate la monografia di Franz Liszt dedicata a Chopin, quasi in contemporanea con la pubblicazione sulla <France musicale> (il testo uscirà in volume in Francia nel 1852), la qual cosa tuttavia non sembra cambiare il contesto musicale poiché non si ha comunque notizia di concerti dedicati al musicista polacco negli anni cinquanta. Al contrario la successiva pubblicazione in sette puntate (dall’ottobre al dicembre 1877) sulle pagine del periodico di Federico Chopin – La sua vita, le sue opere e lettere di Moritz Karasowski – un testo destinato ad avere larga eco in Europa - cade in un’epoca ormai fervida di interesse per la musica dell’artista, i cui brani vengono eseguiti con una certa regolarità nelle principali sedi concertistiche della città.
Lo scenario degli anni settanta comporta ancora un quadro di notevole approssimazione riguardo ai concerti di musica strumentale. Negli ultimi decenni dell’Ottocento il <Corriere della Sera> (fondato nel 1876) fornisce notizie quotidiane degli eventi musicali nella rubrica  “Bollettino degli spettacoli d’oggi”: in essa gli spettacoli operistici vengono segnalati con buona completezza (autore, titolo, interpreti, recensioni esaustive) mentre per i concerti - che risultano eventi più occasionali – le indicazioni sono insufficienti. Analizziamo un caso esemplare.
Il 24 marzo 1876 all’Accademia dei Filodrammatici (a pochi metri dalla Scala) viene offerto un concerto antologico per il finanziamento del monumento alle Cinque Giornate di Giuseppe Grandi. Mentre le arie operistiche vengono citate una per una con autore e titolo, viene invece segnalato un Concerto per clarino e un Concerto per contrabbasso senza il nome degli autori. Nella successiva recensione le cose non vanno meglio: vengono elogiati gli esecutori dei due concerti strumentali, senza indicare tuttavia il nome dei compositori dei suddetti brani.
Per mesi sul quotidiano non compare alcuna indicazione inerente a eventi concertistici, poi magari, con grande risalto, appare la notizia di un concerto pianistico al teatro Manzoni, risalto dovuto al fatto che la pianista è una bambina di otto anni (Gemma Luziani). Tutto questo testimonia che, al livello più generale (il quotidiano rimane un perfetto indicatore degli interessi e dei gusti nella società milanese), il pubblico del capoluogo lombardo non ha ancora maturato un proprio gusto nell’ambito della musica strumentale e, soprattutto, non la percepisce come fatto culturalmente importante.
Il noto critico Filippo Filippi nel saggio La musica a Milano (1881) segnala il fatto che negli anni sessanta e settanta la musica sinfonica e cameristica è quasi completamente assente nella città. L’attività dei numerosi teatri è assai vivace, ma snobba quasi totalmente il concertismo. Sono operanti, oltre ai punti di riferimento obbligatori di Scala, Carcano, Re e Canobbiana, anche teatri relativamente minori quali il Fossati, il Santa Radegonda, il Dal Verme (dal 1872) e altri. Anche questi teatri offrono regolari stagioni d’opera e può accadere che le prime assolute di melodrammi poco importanti avvengano in questi teatri secondari. Di eventi concertistici neppure l’ombra.
Nel primo decennio del Novecento sul quotidiano milanese compare ormai un riquadro specifivo – <Il corriere teatrale> – nel quale si danno notizie precise sull’attività dei teatri cittadini, elencati sotto il titolo <Spettacoli d’oggi> (non diversamente da quanto accade oggi con gli spettacoli cinematografici): vengono elencati La Scala, il Manzoni, l’Olympia, il Fossati, l’Eden e il Dal Verme. L’attività concertistica rimane latente, priva di uno proprio spazio giornalistico e legata ad annunci saltuari all’interno di quel quadro di riferimento. Nel secondo decennio quasi nulla muta: sempre troneggia il nostro <Corriere teatrale> con anessa rubrica <Spettacoli d’oggi>; vi si è aggiunto un altro riquadro intitolato <Echi di spettacoli, ritrovi ecc.> - destinato a durare per un paio di decenni – nel quale si dà notizia soprattutto dei principali eventi cinematografici delle sale del centro. Il concerto quale attività organizzata in luoghi deputati (la sala del Conservatorio innanzitutto) e con programmi dotati di una propria continuità è ancora assente alla fine degli anni dieci, la qual cosa in definitiva indica sia la mancanza di una richiesta consistente di tale tipo di spettacolo, sia la diffusione ancora relativamente elitaria della musica strumentale d’oltralpe, romantica e non.
L’elenco di quei teatri è destinato a venire dapprima affiancato (negli anni venti), poi decisamente surclassato (a partire dalla metà degli anni trenta) dal lungo elenco delle sale cinematografiche, mentre sulle pagine del quotidiano uno spazio sistematico e continuativo dedicato all’attività concertistica risalta solo a partire dagli anni trenta.
Notiamo infine che i teatri Fossati, S. Radegonda e Dal Verme diventeranno – a partire dai primi decenni del Novecento – dei cinematografi (il teatro S. Radegonda diventa dapprima il cinema S. Radegonda e nel 1927 viene “sostituito” dal cinema Odeon, tuttora funzionante come Multisala in via S. Radegonda), come pure il Carcano e perfino, in alcuni periodi, il teatro Lirico, successore del teatro Canobbiana. Il pubblico del melodramma trasmigra gradualmente dal racconto in musica al racconto per immagini (per numerosi aspetti il vero erede del teatro d’opera), continuando a frequentare gli stessi luoghi materiali dello spettacolo e dell’intrattenimento. Negli ultimi decenni del Novecento, di fronte all’inarrestabile crisi del cinema monosala, avvengono invece curiosi “restauri”: mentre il film trova modalità di fruizione sempre più domestiche, attraverso la nascita del cosiddetto mercato home video, alcuni di quei locali tornano a essere teatri: è il caso del Carcano, del Dal Verme e perfino del Fossati che si trasforma nel Teatro Studio (gestito dallo storico Piccolo Teatro strehleriano di via Rovello).
Il Teatro Lirico ospita nel novembre 1901 un evento rilevante per la nostra ricerca: la prima rappresentazione dell’opera Chopin di Giacomo Orefice su libretto di Angiolo Orvieto. L’opera, che ottiene un pieno successo e diviene il lavoro maggiormente noto dell’autore vicentino, racconta il tormetato rapporto tra il compositore e George Sand e utilizza le più note melodie dell’artista. Vi si possono ascoltare il celebre Notturno in do minore op.48 n. 1, la cui melodia principale (riutilizzata senza alcuna modifica) diviene un drammatico duetto e la tempestosa cavalcata del primo movimento della Seconda sonata “Marcia funebre” quale sostegno di un recitativo obbligato che introduce un’aria sulle note del Notturno in sol minore op.15 n.3. Vi compare ovviamente anche la melodia che apre il Terzo studio op.10 (anch’essa trascritta nota per nota) nel duetto Sera ineffabil mentre il Notturno in fa minore op. 55 n. 1 si trasforma nell’aria Io sono un fior. Tale operazione, di dubbio gusto seppure certamente dotata per l’epoca di un certo valore divulgativo, sta a indicare due cose: da un lato che la figura e la musica di Chopin sono ormai abbastanza popolari, dall’altro che - in un’epoca in cui le stucchevoli variazioni pianistiche su temi d’opera sono in via di estinzione -rimane la tentazione forte  di ascoltare queste melodie in un contesto lirico-teatrale anziché nelle più idonee sedi concertistiche.
Intorno alla crescente popolarità di Chopin – uscendo dall’ambito strettamente milanese - va infine rilevato che negli anni dieci escono addirittura tre film italiani (ovviamente muti) nel cui titolo si fa riferimento al compositore polacco. Si tratta de Il notturno di Chopin (Luigi Maggi, dicembre 1913), Notturno in do minore (Oreste Gherardini, dicembre 1914) e Notturno di Chopin (Il romanzo di un musicista) (Giovanni Vidali, settembre 1919), pellicole le quali – si può star certi – vennero accompagnte nelle sale cinematografiche da commenti pianistici infarciti da notturni, mazurche e valzer chiopiniani. Si può dunque notare come le due forme di spettacolo più popolari del periodo – melodramma e cinema – si occupino di Chopin (niente di simile troviamo in riferimento a Liszt, Schumann e Mendelssohn) e constribuiscano a diffonderne le opere musicali più facilmente comprensibili.D’altronde è noto che nei repertori di accompagnamento dei film muti dei primi decenni del Novecento vi erano numeorose pagine popolari di Chopin (la marcia funebre innanzi tutto, la sezione cantabile dello Studio op.10 n.3 ecc.), di Schumann e di Mendelssohn (il Rondò capriccioso, la marcia nuziale dalle musiche di scena del Sogno di una notte di mezza estate).

5 – Le istituzioni concertistiche

Luigi Capranica, romanziere e librettista (amico di Francesco Maria Piave), stabilitosi a Milano nei primi anni sessanta, invia regolari ed esaurienti resoconti della vita teatrale milanese nei quali non manca nessuno dei teatri milanesi più importanti. E’ invece assente qualunque riferimento a eventi musicali di tipo strumentale. Capranica è certamente un difensore della tradizione operistica italiana al punto che, in riferimento alla spasmodica attesa del Faust di Gounod alla Scala, appare poco entusiasta e scrive che gli “piace andare al teatro per ricrearsi l’anima e non per studiare il contrapunto” (lettera del 24 novembre1862; riecheggia qui il celebre commento dello spettatore del 1837 che andava alla Scala per divertirsi e non per “studiare”). Ciononostante lo scrittore non è disinteressato alla musica strumentale poiché nelle lettere dell’estate 1864 egli registra favorevolmente la nascita della Società del Quartetto milanese e ne caldeggia le sottoscrizioni.
A Milano, nei primi anni del regno d’Italia, la musica romantica d’oltralpe è presente, dunque, solo sugli scaffali degli editori.
Un’isola nel deserto appare quindi la Società del Quartetto, fondata nel settembre 1863 per iniziativa dell’editore Ricordi e tuttora attiva. La sede era – allora come oggi – la sala del Conservatorio, assai criticata nell’Ottocento in quanto fredda e buia e, addirittura, soprannominata “cantinone” (ricordiamo di sfuggita che quella attuale – modernissima – venne inaugurata nell’ultimo dopoguerra). Vi si cominciano a dare degli Esperimenti (questo il termine più utilizzato in quel periodo per indicare un evento concertistico) di tipo antologico: trii, quartetti, lieder e pezzi pianistici si avvicendano durante lo stesso pomeriggio (in genere si iniziava alle ore 14). Nei pochi concerti che vengono proposti (mediamente cinque o sei ogni anno) la presenza del pianoforte solo è assai rara e ancor più la presenza di brani del repertorio romantico. Negli anni sessanta, accanto a un paio di sonate di Beethoven, stupisce la presenza sia del Quintetto con pianoforte op. 44 di Schumann (autore ancora largamente ignoto in Italia), accolto con grande interesse, sia del Quartetto con pianoforte op. 47: A questo proposito bisogna dire che – a differenza del resto della sua produzione - la musica cameristica con pianoforte del musicista di Zwickau appare già quasi assimilata in quel contesto. Sulla <Gazzetta musicale di Milano> del 15 aprile 1866 Filippi, recensendo un concerto del Quartetto durante il quale Carlo Andreoli ha eseguito l’op 47 scrive:
“Io sono uno dei grandi amiratori dello Schumann, ma qui devo confessare che preferisco il quintetto dello stesso autore, ove le idee sono più chiare, le combinazioni armoniche strane ma ragionevoli, l’identità meno vaga e subordinata alla melodia”.
Come si nota non siamo più ai primi approcci, bensì si fanno confronti tra differenti pezzi (nell’articolo, inoltre, si commentano anche diverse esecuzioni del brano in questione) e si tirano già le somme. Si tratta tuttavia di un casa abbastanza isolato. Filippi parla poi di pubblico <numeroso>, <sceltissimo> e <attento> e, con tali fugaci annotazioni, illumina una Milano musicale che sembra avere già trovato una propria consuetudine nel concerto strumentale pubblico, anche se il numero di manifestazioni di tal tipo appare ancora estremamente esigua.
Negli anni settanta nei programmi dell’associazione si notano la replica del Quartetto con pianoforte op. 47 di Schumann nel 1873, Venezia e Napoli e una Polacca (Liszt) nel 1870, la 1° Ballata di Chopin nel 1874 (eseguita da Anton Rubinstein), nuovamente il Quintetto op. 44 e una parte della Kreisleriana op. 16 di Schumann unitamente alla 3° Ballata di Chopin nel 1878, il 1° Scherzo e una Polacca di Chopin nel 1881, e 3° Ballata e Polacca op. 53 di Chopin, nonché 2° Rapsodia ungherese di Liszt nel concerto del pianista d’Albert nel 1885, Polacca fantasia e Allegro da concerto op.46 di Chopin nel 1886, di nuovo il 1° Scherzo di Chopin nel 1889.
Come si nota un quadro abbastanza disarmante in cui prevale nettamente il pianismo romantico di Chopin, laddove Liszt, Schumann e Mendelssohn appaiono quasi del tutto assenti.

Nel gennaio 1877 vengono inaugurati – sempre nella sala del Conservatorio – i Concerti Popolari ideati da Carlo Andreoli (come si è detto docente di pianoforte nel prestigioso istituto musicale) i quali si tengono la domenica pomeriggio alle ore 14. Essi portano un fondamentale contributo alla vita musicale cittadina per un intero decennio. Mentre la Società del Quartetto tende a invitare quasi esclusivamente concertisti stranieri – la qual cosa non manca di provocare aspre polemiche da parte di settori della critica milanese che accusano tale istituzione di esterofilia preconcetta – l’organizzazione dei Concerti popolari è la sede privilegiata per le esibizioni dei docenti e perfino degli allievi più capaci del Conservatorio.
Questi pomeriggi musicali sono “popolari” solo in riferimento al costo del biglietto. Il repertorio che vi si propone è invece complesso e adeguato al periodo storico: la letteratura strumentale austrotedesca in particolare è presente in modo. Nell’ambito del repertorio pianistico vengono suonate pagine fondamentali degli autori romantici: in particolare di Schumann vengono eseguiti il Concerto op. 54 (feb. 1881), il Carnaval (feb 1886), gli Studi sinfonici (apr. 1883) e, di nuovo, il Quartetto con pianoforte op. 47 (per due volte: gen. 1880, mar. 1881) e il Quintetto con pianoforte op. 44 di Schumann (per ben tre volte: gen. 1877;  feb.1880, apr. 1883). Di Chopin invece si ascoltano il Primo concerto op. 11, quasi tutte le ballate e gli improvvisi, le principali polacche, gli studi di maggiore effetto, il 1° Scherzo. Di Liszt ancora gli studi di più facile presa (La leggerezza, Un sospiro, Il lamento), alcune rapsodie e le polacche (sono assenti tuttavia le opere più impegnative). Del Mendelssohn pianistico invece sono presenti alcune Romanze senza parole e poco altro.
E’ dunque soprattutto grazie a questa serie di concerti che autori considerati difficili ed estranei alla cultura milanese e italiana come Schumann e Brahms (di cui si ascolteranno i Quartetti con pianoforte op. 25 e op. 26 e il Quintetto con pianoforte op.34) divengono gradualmente patrimonio apprezzato e imprescindibile della scena musicale cittadina. Di altri, considerati più semplici e vicini alla cantabilità italiana come Chopin e Liszt, si attua una ricognizione più ampia e definitiva. Si tenga conto che in altre sedi concertistiche milanesi vengono eseguiti ed apprezzati ancora di Schumann sia la Sonata n. 1 op. 11 (la esegue Luisa Cagnetti nel 1882), sia i Trii con pianoforte op. 63 (nel 1882; alla tastiera c’è Giovanni Rinaldi) e op. 110 (nel 1891), sempre suscitando interesse nel pubblico e giudizi lusinghieri nei commenti critici, editi principalmente dalla solita <Gazzetta musicale di Milano>.
Trascorsi quarant’anni dalle isolate esibizioni lisztiane alla Scala, la cultura milanese è finalmente approdata alla valorizzazione di questo universo musicale nel quale il pianoforte tralascia i riferimenti alla cultura operistica, le variazioni, le fantasie e le parafrasi e offre un proprio, compiuto e specifico mondo espressivo. Possiamo anche aggiungere che appare abbastanza evidente che, nell’ultimo decennio del secolo, la musica di Schumann, considerata anni prima come la più introversa e difficile da comprendere, si è guadagnata uno spazio superiore a quella degli altri tre coevi autori romantici poiché non solo si espande la conoscenza del ricco universo pianistico del compositore di Zwickau, ma largo spazio è riservato anche ai suoi lavori cameristici, orchestrali e sinfonici.

Negli anni novanta e nel primo decennio del Novecento – conclusasi l’esperienza dei Concerti Popolari - i programmi della Società del Quartetto tengono conto delle numerose acquisizioni fatte nelle rassegne gestite da Andreoli e divengono più “intraprendenti”: accanto ai lavori acquisiti di Chopin, ecco dunque estendersi la presenza schumanniana con la Kreisleriana op.16 (nel 1890), il Carnaval op. 9 (nel 1892 e nel 1897, eseguito quest’ultima volta da Paderewski), la Fantasia op. 17 (nel 1894), il Concerto per pianoforte op.54 (nel 1897), le Variazioni Abegg op.1 (nel 1899), il Carnevale di Vienna op.26 (nel 1901), le Scene infantili op. 15 (nel 1903 eseguite da Casella), gli Studi sinfonici e una selezione dalle Danze della lega di Davide op.6 (nel 1904), la Sonata op.11 (nel 1905 e nel 1909) e la Sonata op.22 (nel 1913). Come si nota non manca quasi nessuna delle pagine principali dello Schumann pianistico. Di Mendelssohn si ascoltano le Variation serieuse (nel 1894) mentre di Liszt risuonano il Mephisto Valzer e la Benediction de Dieu dans la solitude (eseguiti da Busoni nel 1896), le 2 Leggende dedicate a S. Francesco d’Assisi e S. Francesco di Paola (nel 1908, ancora eseguite da Busoni), la Rapsodia Spagnola (nel 1909) e, finalmente nel 1906, la Sonata in si minore (eseguita da d’Albert) e nel 1908 la Fantasia Dante. Di Chopin accanto a Scherzi, Studi, Polacche e Ballate, già abbastanza presenti nei decenni precedenti, compaiono solo in questa fase la Fantasia op.49 (nel 1899) e la Terza sonata op.58 (nel 1900), la Seconda sonata op.35 (nel 1907) e infine i 24 Preludi (1913).
Va segnalato che nel crescente interessamento per il pianoforte schumanniano la Società del Quartetto giunge a proporre, per la prima volta, un concerto monografico sul compositore di Zwickau il 15 aprile 1910: in quell’occasione la pianista Fanny Davies esegue una selezione di brani della Kreisleriana, la Fantasia op.17, il Carnaval e le Scene infantili. Qualche mese dopo, il 28 dicembre 1910, è la volta di un concerto monografico dedicato a Chopin nel quale il pianista José Vianna da Motta esegue 1°, 2° e 4° Ballata, la Terza sonata, la Polacca op.53 e la Barcarola.
Se la prestigiosa società è la prima a proporre un concerto monografico sul pianoforte di Schumann, è tuttavia stata preceduta dalla meno rigorosa Famiglia artistica, un’associazione culturale interessata a tutte le arti, fondata nel 1873 e poi ridisegnata nel 1891 come associazione dedita all’organizzazione di serate musicali (concerti ed anche conferenze) nella nuova sede di via S. Paolo 10. Lunedì 11 aprile 1892 tale associazione ha in programma appunto una Serata Schumann durante la quale vengono eseguiti l’immancabile Quintetto op. 47 e il Concerto in la minore (in versione per due pianoforti), alcuni lieder e alcune pagine cameristiche (in particolare si nota la presenza del secondo e del terzo movimento della Seconda sonata per violino e pianoforte op.121).
A cavallo tra Ottocento e Novecento il carattere semplice e concreto dei pubblico milanese, poco incline allo sfarzo e all’esibizionismo – carattere che si rispecchia nell’impostazione urbanistica complessiva e nelle singole architetture di una metropoli che assai poco concede all’effetto monumentale e gratuito – trova dunque una speciale sintonia con la musica lirica, intensa e introversa del compositore sassone.

Nel generale fiorire d’interesse per la musica sinfonica che abbiamo riscontrato a partire dagli anni ottanta si inserisce il contributo della Società Orchestrale , fondata nel 1879 con il sostegno di Ricordi. I concerti sinfonici si tengono alla Scala dal 1879 al 1898 (anno in cui la Società si scioglie) e sono singolarmente sordi alla letteratura pianistica. Durante le venti stagioni non verrano mai eseguiti concerti con pianoforte e, potremmo dire, concerti in generale sebbene lo Statuto reciti che <scopo della Società è l’organizzazione di grandiosi concerti istrumentali e vocali>; il repertorio è rigorosamente ristretto al campo delle sinfonie, delle ouverture e dei pezzi orchestrali di natura varia (non mancano bizzarre trascrizioni da pagine pianistiche) mentre di concerti ne compare solo uno – quello in mi minore per violino di Mendelssohn - nel 1895. L’eccezione, un po’ misteriosa, che conferma la regola.
A partire dagli anni ottanta e novanta, il pubblico milanese appare dunque notevolmente cresciuto nel gusto musicale; d’altronde è l’intero discorso musicale che è divenuto più complesso e impegnativo in ogni settore artistico. Nel melodramma, che rimane il genere musicale egemone, i milanesi applaudono in quegli anni alla Scala i due complessi capolavori verdiani da Shakespeare (Otello, 1887; Falstaff, 1893) nei quali i riferimenti alla scrittura sinfonica e cameristica tedesca sono numerosi. D’altro lato buona parte della cosiddetta scuola veristica viene formandosi proprio tra le mura del Conservatorio milanese: negli anni ottanta, immersi in suggestioni wagneriane, vi studiano Puccini e Mascagni.
Se nell’ultimo scorcio dell’Ottocento tende a comparire una scrittura musicale europea maggiormente omogenea (si pensi, tra tutti, all’ultimo Verdi e al primo Puccini), in cui vengono in parte accantonate le vecchie diatribe tra melodisti e quartettisti, il merito è da ricercarsi anche nella coeva presenza del repertorio pianistico e cameristico dei romantici d’oltralpe nelle sale concertistiche milanesi e italiane.

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