Rocco e i suoi fratelli

Rocco e i suoi fratelli: un intenso, contrastato melodramma (1960)

                “Magari non fossimo venuti via mai dal nostro paese...
                Ma vuol dire che così era il nostro destino. Il tuo, il mio e
                quello di Simone...”
                Rocco parla con Ciro

                “Anche se vivessi a Roma cent’anni... rimarrei sempre
                un milanese”
                L. Visconti

Antonioni, Fellini e Visconti costituiscono la terna di autori più importanti della storia del cinema italiano. Il primo si mosse all’interno di un cinema da camera rigoroso e sofisticato, asciutto e sperimentale; il secondo scelse la via dello spettacolo onirico il cui l’intreccio si perdeva spesso nei labirinti del sogno; il terzo perfezionò il melodramma italiano, fornendone una sontuosa e affascinante versione filmica. L’autore di Ossessione fu il meno “innovatore” dei tre e fu anche colui che, più di tutti, concepì il racconto per immagini quale unico erede della tradizione lirica ottocentesca: Rocco e i suoi fratelli (set. 1960; 170 min.) ne è l’esempio più alto e riuscito.
Sui titoli di testa Nino Rota, ideatore di una colonna sonora di eccezionale valore, presenta due (dei quattro) temi che saranno protagonisti di infinite varianti durante il racconto: il tragico Leitmotiv di Nadia in apertura (di netta derivazione pucciniana, più precisamente memore di certe atmosfere cupe di Tosca) e la straziante melodia popolare “patria mia” (rielaborazione di un canto barese) il cui andamento declinante e dolente (i cromatismi finali) segnano fin dall’inizio il senso più profondo dell’odissea della famiglia Parondi. Queste note musicali si legano all’apparizione della stazione di milano, porta di accesso alla metropoli lombarda, emblema di una modernità fredda e razionale alla quale la famiglia lucana non è preparata. Poco dopo vediamo la madre (la bravissima Katina Paxinou) e i suoi quattro figlioli Simone (Renato Salvatori), Rocco (Alain Delon), Ciro (Max Cartier) e Luca (Rocco Vidolazzi) guardare stupiti le luci notturne della città mentre Rota presenta il suo terzo tema, quello mosso, asciutto e sincopato - simile ad alcuni futuri temi felliniani ed in netto contrasto con i due motivi iniziali - con il quale il compositore esprime il ritmo indifferente e spietato del “nuovo mondo”.
Sistematisi in un freddo scantinato i giovani cominciano ad affacciarsi nella metropoli come spalatori di neve: Visconti ce li descrive volenterosi ed entusiasti in una gelida mattina d’invenro mentre Rota utilizza il proprio quarto ed ultimo tema, un delicato valzer (che anticipa alcune movenze di quello de Il padrino, Coppola, 1972) il cui andamento soave ed equilibrato diverrà un simbolo di quella distaccata e razionale  modernità, prevalente nella quotidianità milanesi.
Fin dall’inizio si nota che Simone si muove ad un ritmo differente rispetto ai fratelli: è pigro, opportunista e poco interessato a rispettare le regole del gruppo, già abbastanza in difficoltà. Si aggiunge quasi subito Nadia (un’eccezionale Annie Girardot), una prostituta che irrompe casualmente nol loro scantinato e che fa colpo sui nuovi arrivati, soprattutto su Simone: il tema musicale più importante ed intenso (già udito in apertura) si lega alla sua presenza e al suo dramma. Il timido Rocco e il tenace Ciro lavorano e cercano di inserirsi gradualmente nella realtà milanese mentre Simone non ha pazienza e tenta la boxe ovvero una scorciatoia per arrivare subito in alto. Vince qualche incontro ma presto si perde dietro a Nadia, non riuscendo a disciplinare un’esistenza sempre più disordinata che lo porterà prima alla rovina come pugile, poi come uomo.
Passano gli anni, Rocco torna da un anno e mezzo di vita militare, incontra Nadia sul proprio cammino e cerca di redimerla. La coppia vive un insolito amore: Rocco ha maturato una propria distaccata visione del mondo fatta di amore universale, una sorta di cristianesimo radicale che gli permette di leggere i mali del mondo come malattie di un’umanità sofferente e umiliata. In particolare vive sempre di più il distacco dalla propria terra d’origine - la Lucania - come il peccato originario da cui derivano tutti i guai familiari e, in particolare, quelli di Simone il quale appare sempre più soccombente e prigioniero di pulsioni e vizi che non riesce a controllare. Il motivo “Patria mia” torna più volte ad illuminare questo tema del racconto che è poi il cuore stesso del film che viene pertanto a configurandosi come un’intensa raffigurazione della radicale antitesi di Tradizione e Modernità. La Lucania patriarcale, da dove provengono, viene ripensata da Rocco come luogo povero in cui, però, esisteva un’armonia di fondo, secolare, tra le persone e le cose, un’armonia che a Milano è andata in frantumi al cospetto di ritmi ed esigenze produttive estranee ai abitudini di questi ex contadini. Non a caso la famiglia ha potuto salire a Milano solo dopo la morte del padre-padrone della famiglia il quale non voleva abbandonare la propria terra; al contrario è la madre - simbolo automatico di uno sradicamento e di una ricerca più banale di benessere, slegata dalla natura profonda della cultura degli individui - ad essere la vera protagonista di questa svolta esistenziale. La donna esprimerà tutto ciò in un lungo, struggente monologo - un’aria si direbbe nel linguaggio operistico - nella seconda parte del film, accompagnata dalle note del motivo Patria mia. Ciro, come pure il fratello più grande Vincenzo (Spiros Focas), si sono rapidamente integrati e danno ragione alla madre; Rocco rimane solo a sostenere la propria tesi che possiede tuttavia un importante fondo di verità. Visconti (con i suoi numerosi sceneggiatori Suso Cecchi d’Amico, Vasco Pratolini, Enrico Medioli e Pasquale Festa Campanile che si sono anche ispirati alla raccolta di racconti Il ponte della Ghisolfa 1958, di Testori) intuisce fin d’ora questo scontro di civiltà che sarà tra le cause non secondarie del ’68, dei movimenti operai degli anni settanta e perfino del terrorismo rosso, spesso appannaggio di ex operai venuti da sud, insofferenti alla dura ma non impossibile disciplina della catena di montaggio (si veda tra tutti il caso emblematico del brigatista Raffaele Fiore, uno dei protagonisti del sequestro Moro, di origini baresi e il suo racconto ad Aldo Grandi nel libro L’ultimo brigatista, 2007).
Si giunge al Finale primo del film (idealmente diviso in due atti) con Rocco e Nadia aggrediti da un Simone reso folle da una gelosia immotivata il quale, sotto gli occhi di compiacenti amici (tra cui Corrado Pani e Nino Castelnuovo), violenta Nadia e pesta a sangue Rocco. La sequenza, di rara potenza espressiva, viene accompagnata nella prima parte dal tema di Nadia reso oltremodo minaccioso e cupo. Lo scenario neorealistico dell’introduzione (l’arrivo a Milano, la ricerca di un impiego...) e dell’epilogo (Ciro all’Alfa Romeo) è una cornice di maniera, che attinge superficialmente a stilemi del recente dopoguerra ma che si sfalda presto per lasciare campo libero a figure umane stilizzate ed estreme, degne di un palcoscenco operistico: Rocco il santo in cui Visconti riprende i lineamenti de celebre Myskin (L’idiota di Dostoevskij, 1869), che prende su di sè le colpe di tutti e si sacrifica fino allo spasimo, Nadia la traviata (anch’essa memore di Nastassia de L’idiota) che si interpone tra i due fratelli e li mette l’uno contro l’altro, Simone ossia l’uomo perduto e dedito al Male (come il Rogozin de L’idiota), la figura nera (il nero è il colore ce lo contraddistingue in quasi tutto il film), irredimibile e scombinata che funziona anche da oppositore rispetto al legame degli amorosi Nadia e Rocco (come in tutti i melodrammi ottocenteschi dove sempre un baritono si opponeva alle nozze di un tenore e di un soprano).
All’inizio del “secondo atto” Rocco abbandona una stupefatta Nadia in una magnifica sequenza ambientata sul tetto del duomo di Milano: mentre risuonano le dolenti note del consueto Leitmotiv, ora piegate da Rota a toni rarefatti e interrogativi, in quel luogo simbolico (essendo collocato nel cuore della metropoli) ad un tempo dello spirito cristiano (Rocco/Myskin) e della Modernità (la traviata Nadia), il giovane confessa a Nadia di non volerla più vedere poichè Simone soffre troppo a causa del loro rapporto e la invita a riappacificarsi col fratello. Inizia così la discesa agli inferi della donna che si lega, per rabbia, all’uomo che più odia e che, nel Finale secondo, in una sequenza di abbacinante bellezza figurativa, la ucciderà al colmo di una follia quasi demente. Mentre a casa Parondi tutti festeggiano Rocco, divenuto controvoglia campione di pugilato, piombe inatteso uno sconvolto Simone e la tragedia irrompe in modo definitivo: il grumo di malvagità oscura che egli porta con sè, porta la rovina su questa famiglia lucana: Rocco - fautore del perdono incondizionato e delle regole della famiglia ancestrale  - vorrebbe ancorta proteggerlo, mentre Ciro, ormai convertito alle regole della società moderna e divenuto indifferente alle regoli patriarcali del meridione, vorrebbe denunciare il fratello. In questa sequenza che non può non ricordare il celebre finale di Bohème - quando Mimì malata e in fin di vita irrompe nella gaia soffitta in festa di Rodolfo e Marcello - Visconti mette a segno un secondo finale operistico di straziante forza comunicativa, cui rimane essenziale il contributo del Leitmotiv rotiano di Nadia in una delle sue apparizioni più drammatiche.
Nel gelido e poetico epilogo, tra i casermoni luminosi e periferici che circondano la fabbrica dell’Alfa Romeo (Arese), Ciro “intona “ la propria aria in un suggestivo monologo in favore del novo ordine, implicito nelle metropoli industriali; le note del delicato valzer di Rota accompagnano quelle parole colme di speranze mentre il piccolo Luca ascolta felice; poi se ne va, osservando il volto di Rocco, campione di boxe, che occhieggia sui manifesti che ricoprono i muri della città. A quel volto e a quelle squadrate urbane si lega l’ultima apparizione del tema nostalgico (“Patria mia”): questa complessa combinazione, in un finale da antologia, ci ricorda la problematicità della realtà italiana in quel complesso inizio di decennio. Non diversamente dal pesce-mostro che chiudeva La dolce vita, questo epilogo falsamente rassicurante sembra ricordare i numerosi interrogativi che hanno attraversato l’odissea dei Parondi: sarà realmente roseo il futuro di questa Italia in cui il benessere sembra alla portata di tutti mentre, ad un lviello più profondo, si scontrano due culture, una rurale e una industriale, una patriarcale e una tendenzialmetne ugualitaria e matriarcale?
Il film di Visconti, un grande successo commerciale, esce nel travagliato 1960, quando due fronti politici si stanno aspramente combattendo per decidere quale direzione dovrà prendere l’Italia. Il governo Tambroni, sostenuto dalla destra Dc e dal Msi, è stato fatto cadere grazia anche ai disordini di Genova, provocati in modo artificioso con tale esplicito fine. Ora i partiti preparano il futuro centrosinistra a guida Moto che arriverà solo nel dicembre 1963, dopo una lunga fase di transizione affidata a un governo Fanfani (dal lug. 1960). In questo acceso contesto dapprima La dolce vita (gen. 1960) diviene il centro di una battaglia ideologica che coinvolge tutto il paese, dalle sezioni di partito alle parrocchie, dai dibattiti parlamentari agli interventi censori. Lo stesso destino accompagna Rocco e i suoi fratelli sebbene in questo film non vi sia un attacco frontale ai valori forti, alle credenze religiose o all’ordine politico come invece era percepibile, seppur a livello simbolico, nel capolavoro felliniano. Tutt’altro. Il “comunista” Visconti, soprannominato il “conte rosso”, ha raccontato una storia di immigrazione in cui è assente qualunque rimando alla lotta di classe, in cui i padroni sono sostanzialmente assenti e il sistema sociale non è messo in discussione. Vi è, certamente, una grande empatia con l’universo deli ultimi, ma tutto ciò è semmai assai vicino alla mentalità dei cattolici e dei democristiani di sinistra. Non avendo reali argomenti politci cui agganciarsi, le forze conservatrici attaccano il film per la sua violenza esplicita - peraltro platealmente melodrammatica e non lontana da quanto accadeva sui palcoscenici lirici dai tempi di Carmen (Bizet, 1875) - e, soprattutto, per il richiamo esplicito ad una storia omosessuale (Simone, disperato, cede alle lusinghe di un ricco omosessuale, inserito nel giro degli incontri pugilistici). Si ritorna, pertanto, alle argomentazioni di andreottiana memoria intorno ai panni sporchi che non vanno mostrati in pubblico (la lettera del leader democristinao a De Sica del 1952 a proposito di Umberto D; vedi), nonchè alle accuse di mostrare volutamente solo gli aspetti negativi della realtà italiana ed, infine, si sottolinea il carattere fortemente immorale del racconto; insomma si rileva che l’opera obbedisce all’antica e ben nota logica di quel cinema di propaganda che dicendo tutto il male possibile del presente storico cerca di suscitare una reazione più o meno violenta contro la classe dirigente. Senonchè, questa volta, il bersaglio viene totalmente mancato. Il film di Visconti è un grande spettacolo che affascina e commuove: in nessun momento indugia su una negatività statica e compiaciuta e si limita a riproporre, sullo schermo, le esagerazione tipiche della grande tradizione melodrammatica italiana. L’opera è in linea con la tradizione e, in tal senso, assai poco rivoluzionaria. Rocco viene apertamente contestato alla prima proiezione (Festival di Venezia) dove non riesce a vincere il leone d’oro (assegnato a Il passaggio del Reno di Cayatte); simile sorte ha poi la prima milanese (una serata di gala al cinema Capitol, quello che aveva ospitato anche la prima de La dolce vita): in entrambi i casi una parte del pubblico contesta apertamente le sequenze più estreme ed insolite del racconto. La destra politica attacca frontalmente la pellicola e la procura di Milano, con una procedura inusuale (il film non viene sequestrato), impone ai produttori l’oscuramento (non il taglio) delle sequenze più violente del racconto (ottenendo, tra l’altro, il plauso de “L’ Osservatore romano”); tutto ciò non riesce a scalfire la grande e meritata popolarità (e l’enorme successo commerciale) del capolavoro viscontiano. In quei mesi la tensione politica è talmente alta e diffusa da invadere ogni “campo di gioco” possibile al fine di condizionare l’elettorato.

testo scritto nel gen. 2016