Roma città aperta e Due lettere anonime

Roma città aperta, Due lettere anonime, O sole mio!, Pian delle stelle e Un americano in vacanza: la triplice alleanza (1945-46)

                "Noi non chiederemo all'Italia che un pezzo di terra, quello necessario a seppellire i nostri morti"
                (gen. Mark Clarke)

Nel settembre 1945 esce Roma città aperta (100 min.) quarto film di Rossellini e primo della nuova era cinematografica. Dopo essersi impegnato nel cinema di propaganda fascista, firmando come si è detto lavori anche pregevoli, il regista romano filma ora un racconto antitetico nei valori e nelle idee rispetto a quanto fatto in precedenza: da cantore fascista della religione laica della patria egli si trasforma in sincero narratore delle atrocità dell'occupazione tedesca, delle sofferenze della gente comune e delle coraggiose gesta dei resistenti. Come la maggior parte degli italiani, Rossellini ha avuto modo di ricredersi sul regime e soprattutto si è scontrato con la durezza della guerra e della crudelta' nazista. La reazione è dunque abbastanza naturale, facendo parte di quel generale ribaltamento di valori che attraversa l'intera societa' italiana: in fondo tutti i celebrati autori del neorealismo italiano (il discorso si potrebbe estendere agli attori, agli sceneggiatori ecc.) erano gia' attivi sotto Mussolini. Spesso nella letteratura di sinistra si lamenta la mancata epurazione dei fascisti dai quadri della burocrazia e della vita pubblica; il cinema, con la sua esposizione totale, e' lo specchio piu' evidente di quella ambigua continuità: gli stessi volti e gli stessi registi ora affermano cose ben differenti rispetto a un paio di anni prima; e ciononostante non vengono considerati dei voltagabbana bensi' trovano il plauso spesso unanime della cultura progressista. Se non sono stati epurati Rossellini, De Sica, Camerini, Blasetti, Nazzari e Fabrizi perché pretenderlo nell'ambito delle burocrazie o addirittura dei semplici posti impiegatizi?
Dunque il mondo dello spettacolo cambia idea, matura valori nuovi e passa a difendere con forza gli ideali democratici. Lungi da noi criticare questa legittimo anche se assai repentino mutamento nei valori di riferimento, questa discontinuita' nella continuita' che puo' tuttavia destare sospetti di opportunismo. Ciononostante quello che ci pare stonato è voler elogiare a tutti i costi i film posteriori al 1945, inventando per essi nuove, infondate categorie estetiche (il "neorealismo", gli attori non professionisti, le sequenze girate all'aperto, tutti aspetti come si e' visto gia' presenti nel cinema dei primi anni quaranta), laddove le opere cinematografiche precedenti vengono liquidati come esempi di scadente propaganda. Nel caso di Roma citta' aperta la sopravvalutazione appare evidente a chi si accosti all'opera privo di preconcetti e di simpatie aprioristiche. Il film di Rossellini è un'opera filmica di modesto valore artistico, appena superiore in ambito estetico a La nave bianca e Un pilota ritorna, anch'essi peraltro film solo discreti; piuttosto il suo merito sembra essere quello di celebrare la Resistenza e l'alleanza tra la Chiesa e il CLN (la nascente partitocrazia) proprio nei giorni in cui il governo dell'azionista e capopartigiano Parri (giugno-dicembre '45) sembra concretizzare la novita' di una guida politica orientata a sinistra, espressione di quel "vento del nord" generato dallo spirito di sacrificio di quelle forze resistenziali che avevano lottato fino all'ultimo contro il nazismo e la RSI. Non e' inopportuno ricordare che al sud la guerra finisce gia' nell'estate '43, senza generare alcun significativo moto antifascista mentre al centro termina con la liberazione di Roma e Firenze, nell'estate successiva.
Il soggetto del film, scritto da Sergio Amidei, si ispira alle vicende reali di don Luigi Morosini e di Teresa Gullace (uccisa a Roma dai tedeschi nei primi giorni del marzo '44) mentre alla sceneggiatura collabora, oltre a Rossellini, anche il giovane Fellini (in quanto amico di Aldo Fabrizi), il cui contributo riguarda soprattutto la figura di don Pietro ed e' probabilmente sua la trovata poco felice della padellata in testa a un anziano bisbetico e poco collaborante, inserita nel contesto drammatico della sequenza del rastrellamento.
L'intreccio del film, ambientato nella Roma occupata dei primi mesi del 1944, non solo e' convenzionale, ma soffre di quella netta e inverosimile distinzione tra buoni e cattivi che lo apparenta alle altrettanto manichee opere del periodo fascista. In questo affresco corale, privo di un protagonista assoluto, i personaggi principali, tutti affidati ad attori professionisti (in questo dando luogo a un realismo meno sperimentale di quello presente nei primi film dell'autore), sono stereotipi scontati con alcune cadute nella piu' totale inverosimiglianza (gli episodi dei ragazzini e quelli ambientati negli uffici della Gestapo); la conduzione della storia conosce qualche buon momento ma nell'insieme procede in modo prevedibile mentre la fama del film si sostiene essenzialmente su due momenti forti: le sequenze indubbiamente ispirate della morte di Pina e della fucilazione di don Pietro.
Nell'estremistico Uomo dalla croce (1943) Rossellini raccontava il martirio di un cappellano impegnato in una crociata antibolscevica; ora egli presenta in don Pietro una figura totalmente antitetica, legata da una fraterna amicizia proprio con un fiero rappresentante dell'ateo universo comunista. Mentre il sacrificio del cappellano sembrava spianare simbolicamente la strada alle forze della "civilizzazione" nazifascista a oriente, don Pietro muore ucciso proprio dal nazifascismo, mentre lotta per un mondo piu' libero insieme a rappresentanti di forze politiche saldamente legate all'URSS. Nonostante il lacerato e complesso contesto storico, l'accostamento tra queste due contigue opere rosselliniane appare lo stesso stridente e incredibile.
Roma città aperta, salutato da un pieno successo in Italia acquista poi notorieta' internazionale, dapprima a New York nel febbraio '46 dove viene proiettato con il titolo Open City, poi grazie al Gran Premio assegnatogli al festival di Cannes dell'ottobre 1946. Rossellini diviene così il primo "autore" della nuova cinematografia italiana. Nel 1995 Lizzani in Celluloide, tratto da un romanzo omonimo (1983) dello sceneggiatore Ugo Pirro, racconta l'avventurosa realizzazione di Roma città aperta, contribuendo a tener desta la "venerazione" di questo discutibile mito cinematografico.

La prima parte presenta gli attori del dramma: le SS che irrompono in un'abitazione alla ricerca del partigiano comunista Manfredi; Pina impegnata nell'assalto a un forno; don Pietro che gioca a pallone con i ragazzi (se ne ricordera' Moretti in La messa e' finita, 1986) e nasconde i disertori tedeschi; Manfredi in fuga e in cerca di un rifugio. Lo stile e' asciutto, cronachistico, privo di orpelli ma anche di raffinatezze. Quando invece Rossellini passa alla descrizione dell'allegra brigata dei ragazzini che dissemina bombe e alla descrizione dell'ambiente decadente della Gestapo, tra lesbiche, informatrici drogate e un elegante salotto pianistico il film scade nel fumettone. Risulta inoltre incomprensibile la scelta di non sottotitolare i lunghi dialoghi tra i nazisti, rendendo interi episodi di difficile comprensione.
Nel cuore del film invece l'episodio del rastrellamento tedesco, con l'intensa sequenza della morte di Pina, riporta in alto la pellicola (nonostante la comicita' grossolana e fuori luogo del vecchietto bisbetico tramortito a colpi di tegame): improvvisamente le ferite di una realta' recente sembrano parlare con forza e con accenti di verità; allo stesso modo il combattimento alla periferia di Roma tra partigiani e nazisti è un'altra bella pagina cinematografica, nella quale campeggia sul fondo il nuovo palazzo dell'Eur (doveva servire ai festeggiamenti, poi ovviamente sospesi, per il ventennale del fascismo), la cui fredda sagoma indica un'era conclusa, un immaginario grandioso infrantosi contro la dura realtà bellica.
Tra le righe Rossellini racconta le vicende di un popolo diviso tra antifascismo, indifferenza e collaborazionismo: cosi' accanto alla orgogliosa Pina si situano sua sorella che si concede agli ufficiali tedeschi e Marina, la confusa cocainomane fidanzata di Manfredi, causa prima dell'arresto del partigiano comunista; sul versante maschile invece accanto ai personaggi positivi si colloca il servile e timoroso questore, sottomesso al comando nazista. In particolare nel rapporto carnefice-vittima (sebbene, come si è detto, trattato in modo artificioso) che si stabilisce tra la tedesca Ingrid, inserita negli ambienti della Gestapo, e Marina si puo' leggere lo scontro tra due civilta', l'una inflessibile e padrona di sé, l'altra debole, soggiogata e incapace di controllare le proprie passioni. Forse senza accorgersene, l'autore indica cosi' il cuore della tragedia italiana seguita all'otto settembre: l'incapacita' di un popolo (e soprattutto delle sue classi dirigenti, politiche e militari) di agire come nazione organica e autonoma, pagando il prezzo di sangue necessario ad arginare la prepotenza tedesca decisa a trascinare l'Italia verso quella rovina totale ampiamente prevedibile fin dai primi mesi del 1943. Nell'ottica hitleriana il wagneriano "crepuscolo degli dei germanici" deve coinvolgere l'intera Europa occupata.
L'ultima parte del film racconta la tetra permanenza degli arrestati Manfredi e don Pietro negli uffici della Gestapo: sebbene le figure tedesche rimangano stereotipate, la crudeltà degli eventi, cosi' vicina alla famigerata realta' di via Tasso, colpisce nel segno e lascia un ricordo indelebile piu' per la ferocia dei fatti narrati che per lo stile spoglio e frettoloso. L'epilogo lirico, con l'esecuzione di don Pietro, nionostante le artificiose battute del protagonista ("Non e' difficile morire bene, difficile e' vivere bene") segna il punto più alto del lavoro, grazie soprattutto al bellissimo tema musicale di sapore operistico di Renzo Rossellini, tema che esplode come un urlo straziato mentre i ragazzini sfilano mesti sul fondale della citta' eterna. Ancora una volta nella congiunzione di cultura musicale e cinematografica il cinema italiano raggiunge il suo esito piu' sconvolgente.

Nell’immediato dopoguerra Mario Camerini gira Due lettere anonime (divcembre 1945; 90 min.) su soggetto e sceneggiatura di Ivo Perilli (collaboratore abituale di Camerini), cronaca suggestiva di piccoli eventi romani, racchiusi tra l'estate del 1943 e l'arrivo degli alleati nel giugno 1944. Gina lascia Bruno per Tullio, un giovane il quale, nello scenario tormentato dell'occupazione nazista e delle imprese partigiane, si rivela presto un cinico arrivista che non solo traffica con i tedeschi, ma non esita a denunciare i suoi ex amici partigiani, causando la morte di uno di loro nell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Dopo l'ennesima infame iniziativa (con una lettera anonima ricatta la madre di Bruno, arrestato dai nazisti grazie a una sua segnalazione), Gina, esasperata, lo uccide a sangue freddo.
Due lettere anonime e' un'opera misurata, concisa, efficace nell'ambientazione e spietata nella pittura dei caratteri. Il paragone con il coevo, celebrato Roma citta' aperta va tutto a favore del film cameriniano, anche se la critica mostro' di preferire la retorica monocromatica di Rossellini. Eppure il quadro restituito dal piu' anziano regista offre una ricchezza di spunti e un panorama umano ben altrimenti realistico e sfaccettato; forse non piacque proprio questo aspetto: il riuscire a ricreare una diversificata, convincente dialettica tra brutalita' delle SS, tedeschi fanfaroni e traffichini, romani gretti e collaborazionisti, popolazione inerme e attendista, minoranza eroica partigiana. Non una realta' manichea e semplificata, divisa tra ultrabuoni e ultracattivi, bensi' tutte le gradazioni dell'animo umano trovano cittadinanza in questa importante opera dimenticata.
Inoltre al centro della vicenda Camerini e Perilli scelgono di porre non un eroe della Resistenza bensì Gina, ovvero una donna comune, priva di precise convinzioni politiche, innamorata di un collaborazionista, la quale solo lentamente prende coscienza della situazione, preferendo tuttavia nel finale la vendetta individuale alla lotta partigiana. Gina, perfettamente interpretata da Clara Calamai, ben rappresenta quindi la defeliciana "zona grigia", prudente e maggioritaria, ovvero un scelta di vita aspramente criticata dal cinema neorealista piu' radicale.

Gino, reduce dalla campagna di Russia, torna a Roma nell'estate 1943 e scopre che Gina lo ha abbandonato, preferendogli Tullio. L'atmosfera è incerta; si spera nella fine della guerra ma si comprende che la massiccia presenza tedesca in Italia costituisce un grosso ostacolo per un'eventuale normalizzazione. L'otto settembre sorprende i protagonisti distratti dal loro conflitto amoroso: essi infatti quasi non reagiscono alla notizia dell'armistizio, salutata invece con sfrenato entusiasmo dall'illuso popolo romano. La sequenza della gente semplice che inneggia dai balconi di una casa popolare e' un piccolo, commovente capolavoro. Gli scontri armati subito successivi, vinti dai tedeschi contro forze militari e civili italiane prive di una razionale organizzazione, riportano rapidamente tutti con i piedi per terra. La disfatta italiana e' ritratta da Camerini con cruda obiettivita'.
Inizia la seconda parte nella Roma occupata. La tipografia, dove lavorano Gina e Tullio, ora e' controllata dai tedeschi e il giovane diviene il loro uomo fidato mentre il proprietario vive in clandestinita', nelle file partigiane. Il film assume ora la cadenza del giallo: la Resistenza infiltra due operai (tra cui Bruno) nella tipografia per rubare preziose macchine e materiali da stampa; Tullio finge di assecondare tali progetti, al fine anche di assicurarsi una buona fama allorche' i tedeschi se ne saranno andati, ma al tempo stesso denuncia i suoi amici alla polizia nazista. Egli rappresenta il volto piu' bieco dell'opportunismo italico: il nuovo padrone della tipografia non e' un semplice attendista o un personaggio che si barcamena tra due minoranze violente; al contrario egli e' un cinico sfruttatore, attento a non perdere la minima possibilita' che gli si offre per arricchirsi e che a tal fine non esita a ricorrere al tradimento e alla criminale delazione. Cosi' alcuni partigiani verranno arrestati e, in particolare, il figlio del proprietario della tipografia finira' a Regina Coeli nei giorni della rappresaglia delle Ardeatine (marzo 1944). Lo strazio dell'anziano padre, dapprima in pena, poi descritto pudicamente dai compagni, e' una pagina sobria e bellissima del film.
Il lacerato fondale viene descritto con pochi, abili tratti: Camerini sa descrivere la brutalita' delle SS con poche, efficaci immagini (il loro autoritario irrompere nella tipografia; la deferenza impaurita del semplice sergente Karr) mentre all'opposto la pericolosa esistenza clandestina e' perfettamente resa attraverso i frettolosi appuntamenti sugli autobus o nei mercati, nonche' attraverso le inquiete riunioni in oscuri scantinati durante le quali il semplice risuonare di un campanello fa sobbalzare come un segnale di morte.
La terza e ultima parte inizia con l'arresto di Bruno, prosegue con il ricatto di Tullio (la seconda lettera anonima) e culmina nei liberatori colpi di rivoltella esplosi da Gina, vero culmine emotivo dell'opera. L'epilogo festoso mostra gli alleati entrare in Roma mentre per la donna, in galera, si prospetta una detenzione breve.

Anche Giacomo Gentilomo - già autore abbastanza isolato di una serie di gialli nei primi anni quaranta (Brivido, Cortocircuito; vedi) - aderisce al filone resistenziale firmando una delle sue migliori pellicole, O sole mio! (gennaio 1946; 92 min.; soggetto di Mario Amendola e Vincenzo Rovi; sceneggiatura di Mario Sequi e Akos Tolnay), oggi ingiustamente dimenticata. Si tratta del terzo lavoro (dopo Roma città aperta e Due lettere anonime) incentrato sulle recenti, dolorose pagine della guerra civile italiana ed è anch’esso migliore del celebrato film di Rossellini al quale per certi aspetti si ispira, mitigando la rigidità ideologica e manichea di quest’ultimo attraverso evidenti riferimenti al vivace e fortunato Abbasso la miseria (Righelli, novembre 1945; in entrambi i casi si descrive con indulgenza una famiglia di borsari neri).
Nella Napoli occupata dai tedeschi (siamo nel settembre 1943) Giovanni, un agente italoamericano nonché cantante (Tito Gobbi), viene ospitato da una famiglia di ignari trafficanti (Vittorio Caproli e sua sorella Adriana Benetti), riesce a farsi assumere alla radio da Clara, una sospettosa dirigente filonazista (Vera Carmi) e a inserire nelle sue esecuzioni canore dei messaggi in codice (una sorta di alfabeto morse, sovrapposto alla ritmica delle canzoni) per gli alleati. La donna però capisce il trucco, lo fa seguire e arrestare (insieme al gruppo partigiano in cui riconosciamo Arnoldo Foà e Carlo Ninchi). Giovanni riesce a fuggire, gli altri invece vengono torturati dalla Gestapo e Clara ha l’infelice sorpresa di riconoscere tra essi suo fratello (Carlo Ninchi). A quel punto capisce il proprio errore, aiuta i partigiani, si redime e muore uccisa dai tedeschi. Nel finale la popolazione napoletana si solleva contro l’ennesima provocazione delle truppe occupanti e ingaggia una battaglia senza quartiere per cacciarle dalla città. Sulla ribellione delle cosiddette “quattro giornate di Napoli” (28 sett. - 1 ott.) il film termina, con una nota di evidente ottimismo.
Gentilomo racconta un’efficace spy story, calandola nel contesto bellico: egli non dimentica che bisogna innanzitutto interessare il pubblico e pertanto architetta una vicenda coinvolgente e tormentata in cui amalgama differenti generi con grande abilità: la commedia realistica nel ritratto della famiglia dei borsari, il fim a suspense nelle vicende dei messaggi cifrati e della polizia segreta che pedina costantemente il protagonsta, il film musicale nelle numerose esecuzioni di Gobbi e infine, ovviamente, il nuovo genere resistenziale.
Il quadro complessivo è valido su ogni fronte: innanzitutto è credibile il ritratto della Napoli dei vicoli, guardata con evidene simpatia nella sua perenne arte di arrangiarsi. Come nel citato film di Righelli con la Magnani, i borsari neri rappresentano la norma di una realtà caotica e testimoniano della vitalità di un popolo che cerca di reagire alle avversità, tanto è vero che saranno proprio loro i primi a prendere i fucili contro i tedeschi quando la situazioni diverrà matura. Pertanto Gentilomo e i suoi sceneggiatori dipingono la rivolta napoletana come una generale guerra di popolo, in cui proletari e piccola borghesia sono indistinguibili. In tal senso la pellicola non parla di partiti politici, non attua distinzioni manichee e propagandistiche tra strati popolari “resistenti” e borghesia collaborazionista, tipica di autori più “schierati”, e offre una pellicola dal taglio complessivo ottimistico e positivo, patriottico nel senso più ampio del termine. Il Centro Cattolico infatti applaude al film (lo classifica per “tutti”) mentre gli intellettuali di sinistra faranno finta di non conoscerlo poiché lo sguardo generale di Gentilomo, il quale evita le tipiche, forzate “desolazioni d’autore”, non è funzionale alla loro lotta di classe. Basti per tutti l’esempio di Giuseppe Ferrara che nel suo “Il nuovo cinema italiano” (Le Monnier, 1957; 440 pag.) dedica circa diciotto pagine a Roma città aperta più una quarantina di altre citazioni sparse nel lungo testo, mentre non scrive neppure una riga sul film di Gentilomo. Così O sole mio diventa rapidamente un film dimenticato: quando si parla di neorealismo e di cinema resistenziale nessuno sembra mai ricordarsene (destino peraltro condiviso con Due lettere anonime di Camerini). Al contrario il pubblico dell’epoca apprezzò il fim, decretandone un buon successo.
Soprattutto quello che va elogiato in O sole mio è la capacità di raccontare con verosimile equilibrio la guerra civile che divide la nazione. La dirigente filonazista non possiede tratti di particolare ignominia: ha fatto una scelta quasi per caso, come é capitato a molti in quegli anni (ha lavorato a lungo in Germania, prima della guerra) e ad essa si mantiene fedele fino a quando scopre, con dolore, di aver fatto arrestare il proprio fratello che milita coi partigiani: la guerra civile insomma spacca addirittura le famiglie, pronte tuttavia a ricomporre i propri dissidi nella grande rivolta antitedesca che chiude il racconto. In ogni caso i dipendenti fedeli ai tedeschi sono gente qualunque, non troppo diversi dai partigiani; il caso li ha portati dalla parte sbagliata, senza che si tratti di sadici aguzzini o intransigenti fanatici. Perfino i torturatori nazisti vengono tratteggiati senza artificiosi eccessi, il che rende il quadro globale assai più credibile di quello rosselliniano con i suoi nazisti da fumetto. Non mancano poi tedeschi della Wehrmacht trafficoni quanto i napoletani e pronti a disertare nel momento del tracollo (nel momento cruciale, uno di loro chiede un vestito da borghese all’amico borsaro).
Le pagine dedicate ai combattimenti finali, per i vicoli, posseggono un vivo senso realistico e costituiscono una buona prova di quel cinema girato all’aria aperta, nei luoghi reali, capace di ricostruire con passione fatti tanto drammatici e così recenti. Gentilomo, saggiamente, gira per le strade di Napoli ma non utilizza attori presi dalla strada in ruoli importanti ovvero attori improvvisati che in genere rendono inverosimili gli eventi narrati e rischiano di compromettere la tenuta complessiva dell’opera. Semmai all’opposto Gentilomo giunge a inserire nel racconto alcune sequenze di marca espressionista, come quelle che riguardano l’incubo notturno di Clara per le sorti del fratello, prossimo alla fucilazione, tra immagini sghembe, fortemente contrastate e organizzate entro un montaggio convulso, di sicuro effetto.
In definitiva il cineasta non dimentica di essere un regista di solido mestiere e inventa una coinvolgente spy story entro la cornice storicamente pregnante della Napoli occupata. Tutta la parte centrale fatta di sottili ambiguità, false galanterie, lunghi e silenziosi pedinamenti tra la folla (la musica rimane in secondo piano, canzoni a parte), messaggi in codice e riunioni segrete possiede una tensione narrativa degna dei noir americani e di alcune coeve prove hitchcockiane. Il momento culminante del lungo “duello” tra Giovanni e Clara si trova in un’altra sequenza da antologia allorché la donna, turbata dagli inusuali inserti ritmici effettuati dal cantante, rientra nel suo ufficio dove il suono insistente della macchina da scrivere della sua segretaria la perseguita fino a generare in lei l’improvvisa consapevolezza del trucco di cui è stata vittima. Gentilomo lavora con abilità su questa ossessione ritmica con insinuanti movimenti di macchina, riuscendo a rendere palpabile il sospettoso disagio di Clara in un crescendo visivo-sonoro che esplode nel momento dell’acquisita consapevolezza.
Giovanni, un italiano che viveva in America, e Clara un’italiana che aveva lungamente soggiornato in Germania hanno assimilato due differenti way of life; giunti al culmine del conflitto mondiale - un conflitto che riguarda essenzialmente lo scontro tra mondo anglosassone e Germania per il dominio del pianeta - anche nella penisola uno dei due deve soccombere.

Sulla stessa lunghezza d’onda si muove Pian delle stelle (settembre 1946; 95 min.) di Giorgio Ferroni, un autore che, come Gentilomo, aveva pienamente aderito al fascismo e perfino alla Rsi, andando a lavorare al cinevillaggio veneziano. Il racconto resistenziale, firmato dal regista con Indro Montanelli, Vittorio Metz, Mario Bogo e Rodolfo Sonego (ma questi ne parlerà poi in termini dispregiativi come di “un film di nessun conto”), cerca di coniugare il tema della lotta per i nuovi valori di libertà e democrazia con una narrazione tradizionale, attenta alla costruzione di un racconto che faccia presa sul pubblico più popolare. Dunque contenuti inediti dentro una forma ben nota, nella quale si danno appuntamento, tra l’altro, numerosi attori caratteristici del cinema di regime quali Tino Scotti, Dina Sassoli, Roldano Lupi (nel ruolo principale), Aldo Silvani e Nino Pavese. A differenza della pellicola di Gentilomo, Pian delle Stelle è un insuccesso commerciale e viene completamente ignorato dalla critica che lo considera un prodotto ambiguo, vagamente trasformista e, in ogni caso, estraneo alla rigida “parrocchia” della desolazione neorealista.
Il film, per quanto arricchito da inutili trame amorose e da improbabili vicende di spie che si redimono all’ultimo minuto cercando la bella morte, parte da fatti realmente accaduti su quasto altopiano situato a nord di Bolzano; non a caso il lavoro viene finanziato dal Corpo Volontari della Libertà di Padova. Subito dopo l’8 settembre in un paesino delle Dolomiti si ritrovano, nascosti nella canonica del parroco, un ufficiale inglese, un disertore fuggito dai nazisti e un napoletano sbandato. Dapprima cercano semplicemente di sopravvivere ben nascosti: quando la canonica diviene insicura si trasferiscono in montagna. Passano i mesi e un giorno un amico viene a chiedere il loro aiuto poiché i nazisti hanno imprigionato un giovane del villaggio sottostante e sembrano decisi a giustiziarlo. Così, per semplice caso, gli attendisti si trasformano in resistenti. Con un’azione fortunosa e spettacolare irrompono tra i nazisti ubriachi (è la notte di Natale del 1943), ne ammazzano qualcuno e liberano i prigionieri. Da quel momento il gruppetto di Pian delle stelle diviene una brigata partigiana. Nel corso dell’anno successivo la pattuglia si trasforma in un piccolo esercito organicamente collegato con le altre brigate partigiane delle montagne altoatesine nonché quotidianamente impegnata nello scontro con gli occupanti tedeschi.
Nella seconda parte viene inserita la romanzesca vicenda di una spia (Dina Sassoli) che cerca di evitare il peggio ai partigiani, si innamora del loro capo (Roldano Lupi), si redime e finisce per morire in montagna come buona parte della brigata. Il piglio avventuroso si fa allora stereotipato e artificioso (riciclando il logoro schema di Romeo e Giulietta) e anche gli ultimi e decisivi combattimenti si svolgono in un clima umano generico: all’interessante studio dei caratteri della prima parte è subentrato un film bellico come tanti altri, in cui l’asciuttezza delle immagini e i tentativi di alleggerimento umoristico (l’inserimento del partigiano Tino Scotti) riescono solo in parte ad attuttire il carattere retorico dell’insieme.
In ogni caso il film merita una certa attenzione soprattutto per la capacità di rievocare il carattere casuale e contingente che governa la presa di posizione dei singoli personaggi, i quali, fino a un certo momento sono attendisti e solo per caso - per umana pietà (l’aiuto da portare a un condannato a morte) posto in atto in modo istintivo, senza proclami e programmi di lungo periodo – divengono partigiani. Inoltre il film valorizza l’apporto della chiesa al fenomeno resistenziale (si veda l’umanissima figura del curato di montagna che aiuta tutti gli sbandati a rischio della propria incolumità) e ne sottolinea la posizione decisamente antifascista e soprattutto antinazista. La triplice alleanza tutta italiana – forze militari angloamericane, chiesa cattolica, attendisti e resistenti – trova nel film una perfetta esemplificazione.
Riassumendo il film possiede un evidente taglio conservatore (di partito comunista, Urss e rivoluzioone proletaria qui non si parla), attribuibile a Montanelli, Metz e allo stesso Ferroni, così come scontata appare poi la presa di distanza di Sonego, collocato politicamente agli antipodi dei suoi colleghi. Se a questo si aggiunge il carattere non ideologico della scelta resistenziale ci si rende conto che il film risulta estraneo alla cultura battagliera e ideologica degli intellettuali di sinistra e dei critici militanti i quali, come per O sole mio, snobbano in maniera compatta l’esistenza di Pian delle stelle. Anch’esso dunque è introvabile nelle storie del cinema italiano (ad esempio nel citato testo di Ferrara) come pure nel frequenti convegni realizzati sul cinema “neorealista”.

Luigi Zampa nasce a Roma il 2 gennaio 1902. Negli anni trenta si diploma in regia al Centro Sperimentale di cinematografia ed esordisce con Fra' Diavolo (1941) cui seguono altri quattro film poco rilevanti nel periodo bellico. Tra il 1944 e il 1945 gira la piacevole commedia Un americano in vacanza (dicembre 1945; 99 min.) salutata da un buon successo, primo esempio di pellicola finalizzata a celebrare la nuova amicizia tra italiani e americani. Rispetto ai sopracitati film di Rossellini e Camerini, attraversati da momenti di sincera riflessione, il lavoro di Zampa, pur vantando una narrazione fluida e divertente, costituisce uno sfrontato esempio di mera propaganda politica (inutile ricordare che il film nasce con l'aiuto delle forze alleate in Italia, come correttamente recitano i titoli di testa).
Billy Wilder, mandato in Germania nell'estate 1945 a epurare la cinematografia tedesca, invia alle autorita' militari un memorandum intitolato "Come fare propaganda divertendo" in cui deplora l'uso di noiosi e inefficaci documentari e afferma che "ai fini del nostro programma di rieducazione del popolo tedesco" servono film divertenti, in technicolor", con "una storia d'amore un po' speciale, escogitata in modo da aiutarci a trasmettere un messaggio ideologico". La pellicola di Zampa, technicolor a parte, sembra rappresentare perfettamente quel modello di cinema ad un tempo d'intrattenimento e didattico, pensato dal regista austro-americano.
La storia dell'amore nascente tra una dolce maestrina legata agli ambienti della curia romana e un soldato italoamericano in vacanza nella capitale, propone infatti, tra le righe, un elogio entusiastico dell'alleanza vittoriosa tra esercito USA e mondo cattolico italiano. Quest'ultimo è un tema che, come si è ricordato, attraversa in vari modi il cinema dei primi anni quaranta (si veda quanto scritto a proposito di L'uomo dalla croce e I bambini ci guardano) e che tornerà ad esempio nel film di Blasetti Un giorno nella vita (1946). L'affresco delineato da Zampa con toni enfatici e anche vagamente ipocriti (la protagonista vive in un misero paesino distrutto dai bombardamenti, ma in nessun momento del film si riflette sulla condotta alleata colpevole di tali bombardamenti, né sul carattere assai discutibile di tale tecnica bellica di stampo terroristico, peraltro adottata anche dagli Italiani) esalta da un lato il sacrificio dell'esercito americano che combatte in Italia al solo fine di ridare la libertà al nostro paese (secondo le parole dell'ingenua maestrina, la quale espone così le solite favole destinate a un pubblico credulone; d'altronde l'intero film, nonostante gli esterni "veri" e il contributo di personaggi presi dalla strada, ha un proprio sapore fiabesco; altro che "neorealismo"); dall'altro esso mostra la benevolenza degli ambienti dell'alta gerarchia cattolica nei confronti degli USA, aspetto che culmina nella doppia, encomiastica citazione dell'ambasciatore in Vaticano (dal 1939) Myron Taylor, l'uomo chiave dell'alleanza tra due mondi tanto distanti e tradizionalmente nemici quali la democratica e massonica repubblica statunitense e il gerarchico e dogmatico Papato. Taylor è ora l'uomo dei soccorsi e della ricostruzione, della benevolenza USA nei confronti della nuova "colonia" italiana.
Le artificiose immagini finali della maestrina che insegna ai bambini la grandezza della civiltà USA, accanto all'apparizione massiccia nei locali da ballo romani della musica swing, indicano l'inizio della nuova era americana in Italia: dopo gli anni dell' "uomo nuovo" fascista e imperiale, inizia l'epoca del pacifismo servile alla politica estera della nuova superpotenza. L'indottrinamento acritico continua: cambiano i contenuti, non la sostanza di un Potere che sa di doversi fondare anche sul consenso popolare.

Inquadrata tra un prologo e un epilogo ambientati nel paese semidistrutto (Frascati), la vicenda si svolge nella seconda meta' del 1944 per le strade di Roma, spesso ritraendo realta' effettive (Zampa ricorda: "girammo una scena dove oggi c'è il teatro Flaiano e un tempo, invece, c'era una balera per gli americani. Li' riprendemmo i GI che danzavano con le "segnorine", dal vero"); né manca un'appendice turistica, grazie alla visita ai principali monumenti effettuata sia dai due americani, sia dai due "amorosi" che non a caso si dichiarano durante una visita alla cupola di San Pietro, dopo aver partecipato a una funzione religiosa durante la quale il Papa ha benedetto implicitamente la loro unione.
La pellicola narra la difficile "marcia di avvicinamento" dell'italoamericano Nick alla serissima maestrina Maria: il primo e' nella capitale per "divertirsi", la seconda per trovare fondi in Vaticano per la ricostruzione della chiesa, della scuola e delle case del suo paese. Comprimari sono l'amico di Nick e una coppia litigiosa (finiranno col separarsi), lui borsaro nero, lei frivola e in cerca di avventure. I molteplici "improbabili" incontri casuali tra Nick e Maria, così come gli ostacoli al loro amore nascente, hanno il sapore degli inverosimili malintesi che popolavano il teatro lirico, ormai al tramonto (anche la coppia di personaggi femminili, l'una posata, l'altra leggera, deriva dalla cultura melodrammatica); tuttavia ogni incomprensione viene superata e i due innamorati vivono una magica notte durante una sontuosa festa americana, prima di separarsi ed infine ritrovarsi. Insomma una bella fiaba.
Il fondale è certamente più interessante di questi personaggi troppo perfetti: da un lato San Pietro e il colonnato del Bernini continuamente presenti, segni visibili del nuovo potere in Italia; dall'altro i locali ricreativi per soli americani, anch'essi segni significativi della nuova invasione culturale ai suoi inizi. Così, accanto alla proba e incorruttibile Maria compaiono decine di altre ragazze le quali non ambiscono che ad accoppiarsi con ricchi soldati americani (la vicenda secondaria e' in tal senso esemplare). Per una larga parte della popolazione la ricerca del benessere materiale sembra essere l'obiettivo primario ed unico: se prima molte ragazze assecondavano l'invasore tedesco (come accadeva ad alcune figure femminili di Roma citta' aperta), ora esse inseguono gli americani, rivelando la prevalente realtà di una cultura nazionale debole ed incline al compromesso.