San Giovanni decollato, L’allegro fantasma, Il pirata sono io!, Non me lo dire!, Il chiromante e Il vagabondo: le maschere di Totò e di Macario (1940-41)
Amleto Palermi, regista di origini siciliane, nasce nel luglio 1889 a Roma; a partire dalla metà degli anni dieci diviene uno dei più attivi registi del cinema muto (almeno cinquanta le pellicole dirette in
tale periodo). Negli anni trenta gira in media un paio di film l’anno. Nel biennio 1940-41 dirige Totò (Antonio de Curtis) agli inizi della carriera cinematografica in San Giovanni Decollato (dicembre 1940; 87 min.) e L’allegro fantasma (1941). Il comico napoletano, nato nel febbraio 1898, diviene famoso sulle scene dell’avanspettacolo, del teatro di rivista e dell’operetta negli anni trenta. In qualità di attore cinematografico esordisce senza troppo successo in Fermo con le mani (G. Zambuto, 1937) e Animali pazzi (C. L. Bragaglia, 1939). E’ invece con il primo dei due film di Palermi che Totò solleva un completo entusiasmo: si tratta della commedia teatrale dello scrittore siciliano Nino Martoglio San Giuvanni decullatu (1908; già trascritta per lo schermo nel 1917 da Telemaco Ruggeri), sceneggiata da Cesare Zavattini, Aldo Vergano e dallo stesso Palermi. La vicenda, trasportata nella prima parte dalla Sicilia a Napoli, racconta le vicende di uno stravagante ciabattino-portiere fanaticamente devoto a San Giovanni del quale tiene in gran conto un altarino eretto nel cortile del caseggiato dove lavora. Intorno a questa figura ruotano vicende ed intrecci ordinari: inquilini stanchi delle trovate rumorose del portiere, una figlia in fuga per amore, uno spasimante rifiutato da quest’ultima, una festa di nozze (in un paesino della Sicilia, ove si dipana la seconda parte) che termina con una incredibile “piattata” (gli attori si lanciano piatti veri, come si nota dalle ferite sanguinanti sui volti di alcuni di essi).
Questo tipo di farsa è un sottogenere cinematografico piuttosto comune e assai poco entusiasmante: essa si basa su macchiette irreali e stereotipate volte a creare un semplice, pretesuoso girotondo intorno al mattatore al
fine di concedergli l’opportunità di mettere in mostra le proprie doti mimiche e umoristiche. Esso attraversa il cinema italiano (così come quello straniero) propinando intrecci, paesaggi e figure mortalmente note e noiose,
spesso girate in modo trasandato (le potenzialità del linguaggio filmico sono tutte inesorabilmente tracurate) mentre lo spettacolo si accende solo nel momento dell’ “assolo” del capocomico. La medesima tipologia farsesca segna
l’intera stagione della commedia sexy degli anni settanta con Lino Banfi e Renzo Montagnani quali attori “solisti” (in quel caso i film si reggono inoltre sulle esibizioni delle procaci bellezze dell’epoca) e la sopravvalutata
filmografia di Roberto Benigni degli anni ottanta e novanta. Anche in questi casi (se ne potrebbero citare numerosi altri), la vicenda narrativa è un mero traliccio e la tecnica cinematografica risulta alquanto primitiva.
Tornando al San Giovanni di Palermi si ricordano alcuni numeri esilaranti di Totò quali l’esibizione canora “muta” nel cortile mentre aggiusta alcune scarpe, il duetto con il “collega” siciliano che pretende di avere realizzato calzature da sogno le quali vengono ridicolizzate dalla impietosa e sarcastica analisi di Totò, l’atteggiamento vittimistico ricalcato su quello del santo prediletto e tuttavia venato di un irridente patetismo, allorché egli offre la propria testa su un piatto al collerico padre dello spasimante rifiutato; il resto è noiosa paccottiglia. Peraltro l’arte del primo Totò appare in larga parte mutuata nella gestualità, nella camminata e anche nella mimica dalla maniera di Charlot.
Preso atto del buon esito commerciale della pellicola Palermi e Totò ci riprovano con L’allegro fantasma
(marzo 1941; 85 min.), un musical comico su soggetto e sceneggiatura di Carlo Ludovico Bragaglia e Ettore Margadonna cui contribuisce lo stesso regista siciliano. I numeri musicali sono affidati al trio Primavera composto dalle giovanissime Isa Bellini, Wilma Mangini e Thea Prandi (età compresa tra i quattordici e i diciotto anni), già attivo presso l’EIAR. La storia verte intorno all’eredità del defunto Pantaleo e di tre gemelli (il vagabondo Nicolino, il compositore Gelsomino e il mimo Antonino) figli illegittimi di quest’ultimo i quali si ritrovano per la prima volta nella elegante dimora paterna e si spartiscono il piccolo tesoro con grande rabbia di buona parte degli altri parenti. Lo stile farsesco e inconsistente è il medesimo che animava San
Giovanni decollato con la differenza che ai frastornanti numeri musicali, messi in atto dal portiere-ciabattino nel cortile di casa generando grande indignazione negli inquilini, si sostituiscono gradevoli canzoni a tre voci, ad una delle quali partecipa pure il comico, dando vita a uno spiritoso quartetto vocale.
Il punto di forza della pellicola consiste ovviamente nel virtuosismo interpretativo di Totò, ora alle prese con il classico espediente del triplice ruolo: così le maschere del comico si moltiplicano, proponendo nella
stessa immagine la mimica furba ed estroversa del vagabondo, quella timida ed impacciata del musicista e quella sorniona del mimo (quest’ultimo peraltro “giunto in scena” solo nel finale della pellicola). Di contro la trama
risulta il consueto risibile canovaccio e i personaggi di contorno sono poco più che “tappezzeria”. Il cinema comico di Totò soffre, come si è detto, delle intermittenze tipiche di quei generi cinematografici le cui
pellicole appaiono pensate per essere il mero veicolo per un mattatore o per eventi forti ed estremi (si pensi a tanto cinema orrorifico nonchè all’intera produzione hardcore). Più avanti il cinema nazionale troverà invece,
nella magnifica stagione della cosiddetta commedia all’italiana degli anni sessanta e settanta, il perfetto equilibrio tra sceneggiatura e cast, racconto e performance dell’attore, realismo narrativo e fantasia degli
interpreti. Amleto Palermi muore a Roma nell’aprile 1941, a soli cinquantuno anni. L’elisir d’amore (maggio 1941), versione cinematografica della popolare opera di Donizetti (1832), esce postuma.
Se il debito di Totò verso Chaplin è abbastanza marginale, quello di Macario nei confronti della comicità hollywoodiana (non solo Chaplin ma anche i fratelli Marx) appare invece ingente fino alle soglie della
pedestre riproduzione e del plagio. Le sue prove filmiche del biennio 1939-40 sono affidate alla regia di Mario Mattoli. Quest’ultimo nasce a Tolentino (Macerata) nel 1898. Abbandonata negli anni venti la carriera di
avvocato, il giovane si dedica dapprima al teatro, poi passa al cinema in qualità di produttore nei primi anni trenta. L’esordio come regista avviene con Tempo massimo (1934) cui seguono, nel periodo 1936-39, un notevole numero di pellicole (circa tre l’anno) tra le quali prevale il genere della commedia brillante.
Nei primi giorni del giugno 1940 - quelli in cui l’Italia entra in guerra - la troupe di Mattoli gira negli studi toscani della Tirrenia Il pirata sono io!
(ottobre 1940; 82 min.), parodia (sceneggiata da Marchesi, Metz, Steno e dallo stesso Mattoli) delle numerose pellicole salgariane che intrattenevano l’ingenuo pubblico di quegli anni. Nei presunta Caraibi del 1795 un governatore imbecille (Enzo Biliotti) cerca di ingraziarsi un altrettanto rimbambito vicerè (Mario Siletti) in visita organizzando un finto attacco di pirati, capeggiati dallo svanito Josè (Macario). Questi però viene preceduto dai veri pirati di Bieco de la Muerte (Juan de Landa) che rapiscono tutte le donne e le portano sulla loro isola. Josè corre a salvarle mentre il governatore ordina l’immpiccagione del governatore. Si susseguono scontri, duelli e arrembaggi durante i quali Josè stravince e giunge appena in tempo per salvare il collo del governatore, nonché zio della sua amata Olivia (Dora Bini).
La pellicola scorre senza rivelare grandi pregi, avvalendosi di una ricostruzione d’ambiente di buon livello (vengono riutilizzati scenari e costumi di numerosi altri film pirateschi). Qua e là però la vena surreale di
Mattoli e Macario, in buona parte derivata da quella dei Marx, risulta inattesa e graffiante, grazie soprattutto ai numrosi anacronismi. Così vediamo un cavallo che “fa rifornimento” con una specie di pompa di benzina, un
duello raccontato da uno spettatore come in una radiocronaca (l’elsa della spada funziona da microfono), uno scontro tra pirati in cui i morti risorgono (spettacolare e riuscita sequenza in cui le immagini scorrono al
contrario, riportando in azione i “cadaveri” e facendo risalire dal mare i pirati precipitati in acqua), rianimati da un canto d’amore del protagonista e così via. Gustosissima risulta infine la sequenza dell’impiccagione con
il fluviale, letargico testamento del governatore (volto a ritadare il più possibile l’esecuzione) che provoca un fuggi fuggi generale. Le freddure di Macario e il suo stucchevole andamento ballerino vengono, in tal modo,
riequilibrati entro contesti complessivamente accattivanti: si veda, quale ulteriore esempio, la divertente visita del comico ai pirati che non vogliono dormire, durante la quale i nonsense si succedono rapidi e incalzanti,
spesso basati su particolari comici di natura semplicemente visiva. Insomma Mattoli e Macario giocano con una certa abilità con gli stereotipi del genere e offrono un divertimento metafilmico abbastanza audace e smaliziato
per l’epoca. Il gioco si fa palese e il divertimento - per quanto piuttosto intermittente - annulla qualunque verosimiglianza cinematografica a favore di un andamento che coniuga avanspettacolo e satira filmica. Infine non
si può non ricordare l’ultimo di una lunga serie di insulti rivolti da José ai pirati di Bieco: “inglesi!”. Nei giorni dei primi bombardamenti francesi e inglesi lungo le coste tirrene e liguri, i nostri teatranti devono
continuare a fare il loro lavoro di semplici intrattenitori e, tuttavia, qualcosa della scottante realtà del momento filtra nella pellicola e vi lascia un segno indelebile. In Non me lo dire!
(dicembre 1940; 70 min.), diretto sempre da Mattoli, ancora su una sceneggiatura di Vittorio Metz, Marcello Marchesi e Steno, l’evidente modello è, di nuovo, costituito dalle stravaganti farse dei Marx Brothers. L’attore si cala nei panni di un nobile caduto in rovina e perseguitato dai creditori. Questi ultimi decidono di mettere in atto un inconsueto stratagemma per riottenere i loro denari: assicurano la vita del malcapitato con una polizza milionaria e subito dopo tentano con ogni mezzo di farlo fuori; il tutto calato in una noiosa e ripetiva cornice di surreali freddure. L’ambiente è quello della vacua aristocrazia, più volte sbeffeggiato nei lavori dei Marx (si pensi, tra tutte, al celebre Duck Soup;
1933), il trio dei creditori indossa maschere che ricalcano la tipica fisionomia di Groucho mentre Macario, sulle orme di Chico, si esibisce in un numero comico al pianoforte. In nessun momento la pellicola riesce a essere
divertente, tanto più che continuamente sfigura al paragone dei modelli americani che va copiando; essa fa parte di una corrente sempliciotta, derivativa e alquanto provinciale all’interno del panorama cinematografico italiano.
Rimane quale motivo di parco interesse l’insolita ambientazione piemontese: la villa reale di Stupinigi è la residenza di Macario e alcune sequenze sono girate nel centro storico di Torino (piazza S. Carlo e dintorni).
Nella successiva, mediocre pellicola firmata da Oreste Biancoli, Il chiromante
(ott. 1941; 75 min.), Macario è un imbonitore alle giostre torinesi (situate sul Po, nelle vicinanze del castello del Valentino) ed anche, per una serie di circostanze, un improvvisato chiromante. In questa veste conosce una bella fioraia (Luisella Beghi) fidanzata a un bellimbusto (Enzo Fiermonte) che la tratta con sufficienza e la sfrutta per i propri traffici illegali. La giovane non si rende conto di essere divenuta complice inconsapevole di una cerchia di falsari e, solo con l’aiuto di Macario, innamorato e temerario, riuscirà a tirarsi fuori dai guai.
La pellicola prende spunto, questa volta, da Chaplin e dal suo City Lights (1931); il comico torinese utilizza tutte le smorfie del suo repertorio e sebbene appaia simpatico, si fatica molto a sopportare l’insulsa storiella popolata da stereotipi senza interesse. Probabilmente concepita per un pubblico di ragazzi, oggi la pellicola risulterebbe poco digeribile anche dai più giovani e va detto che già nel 1941 le critiche furono assai severe nei confronti de Il chiromante. Resta comunque un interessante documento d’epoca, un ritratto del mondo popolaresco che animava le fiere e delle modeste osterie che attorniavano il Luna Park torinese.
Due mesi dopo Macario insiste con una pellicola simile, girata da Carlo Borghesio Il vagabondo
(dicembre 1941; 70 min.) Macario, dimenticate le smorfie dei Marx Brothers, interpreta una sorta di Charlot rurale alle prese con i problemi della fame quotidiana. La fortuna muta allorché il lunare girovago salva una giovane aristocratica da un matrimonio di interesse: la famiglia riconoscente adotta il vagabondo ma molto presto la rigida etichetta di quell’universo nobiliare risulta insopportabile al protagonista che abbandona i pasti abbondanti e sicuri garantiti dalla nuova sistemazione e ritorna sulla strada.
La vicenda, alquanto stereotipata e tediosa, riesce tuttavia a illuminare due aspetti del cinema coevo: il diffuso problema della scarsità del cibo in epoca di economia razionata e soprattutto l’onnipresente tema
dell’antipatia nei confronti della casta nobiliare. In questa pellicola nessuno si salva all’interno del sontuoso “castello” dei signorotti locali: l’atteggiamento altezzoso e classista che pervade ogni loro gesto finisce per
rendere verosimile perfino la scelta sconsiderata del misero girovago che, nel finale, lascia l’opulenza per tornare a un’esistenza incerta ma di contro più lieve e briosa. D’altronde il mondo popolaresco, al quale lo
stravagante Macario fa ritorno, viene dipinto con calda simpatia all’insegna di un generoso solidarismo e finisce con il costituire il polo della felicità squattrinata e libertaria in netta antitesi alle convenzioni “ingessate”
dell’aristocrazia. Macario, nato a Torino nel 1902, è un attore di varietà che si esibisce nel mondo della rivista e delle commedie musicali. L’impegno cinematografico diviene continuativo e “importante” a partire dai due
film diretti da Mattoli Imputato alzatevi e Lo vedi come sei? del 1939. Anche Carlo Borghesio nasce a Torino (1905). Negli anni trenta, dopo aver scritto alcune sceneggiature e aver collaborato come aiuto
regista, esordisce con Due milioni per un sorriso (1939; coregia di Mario Soldati); Il vagabondo è il suo terzo film.
testo scritto nel 2005; ultimo aggiornamento: ott.2017
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