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Sciuscià, La freccia nel fianco, Il bandito e Malaspina: il melodramma nascosto (1946-47)
"In quel tragico dopoguerra, il banditismo, la corruzione dilagante, la delinquenza minorile, il commercio clandestino ed i reati annonari costituivano una triste
caratteristica di tutti i paesi, vincitori e vinti... ” (Giuseppe Romita, ministro degli interni)
Sciuscià (95 min.) è un film claustrofobico. Girato quasi interamente in studio e con prevalenza di attori professionisti, ambientato all'interno di uno squallido riformatorio, racconta lo spegnersi dell’amicizia, nonche' il suo tramutarsi in odio, tra due ragazzi romani, Pasquale e Giuseppe, modesti "shoeshine" (lustrascarpe) sullo sfondo della miseria del dopoguerra. Distribuito nell'aprile 1946 e lodato (non unanimemente) dalla critica quale testo esemplare del neorealismo, la pellicola desichiana, che si avvale della sceneggiatura di Sergio Amidei (Roma citta' aperta), Cesare Giulio Viola (autore del romanzo Prico' che aveva ispirato I bambini ci guardano)
e ovviamente Zavattini, appare invece un passo indietro rispetto agli esiti felici de I bambini ci guardano (1943) e La porta del cielo (1944). Narrazione truce e scombinata, rovinata da un’artificiosa ricerca dell’effetto forte e lacrimevole (difetto gia' presente, come si e' visto, ne I bambini ci guardano, ma in modo meno pesante), Sciuscia’ e’ solo uno dei tanti esempi di confluenza della cultura del melodramma in quella cinematografica. Ben poco appare credibile nel film: due ragazzi risparmiano tutti i loro denari per comprarsi un cavallo (spunto narrativo stravagante anche se De Sica ci assicura di essersi ispirato a fatti veri); la famiglia dei due protagonisti si preoccupa della salvezza di Attilio, il loro figlio adulto indagato per furto, mentre si disinteressa totalmente dei due ragazzi, al punto di dimenticarli in carcere; inoltre il “fortuito” incontro-duello finale tra i due ex amici e la chiusa enfatica sul corpo esanime di Giuseppe sembrano piu’ adatti a un finale d’atto operistico che al finale di un film con pretese realistiche. Molti sono tuttavia i pregi del lavoro, sebbene essi vadano cercati tra le pieghe del turgido racconto: la figura commovente di Raffaele, piccolo malato di cui nessuno si preoccupa; la sua improvvisa morte e la raccolta disperazione di Bartoli, il capo delle guardie; alcune belle inquadrature e alcuni eleganti movimenti di macchina (dolly); qualche momento spiritoso e caustico come l’automatico saluto fascista del nostalgico direttore del carcere, testimonianza di un passato che continua.
La situazione della societa' civile italiana nel primo dopoguerra era certamente miserabile e preoccupante; lo testimonia ad esempio il ministro degli interni del primo governo De Gasperi (dicembre 1945-giugno 1946), il
socialista Giuseppe Romita il quale, parlando dei primi mesi del 1946, scrive: "In quel tragico dopoguerra, il banditismo, la corruzione dilagante, la delinquenza minorile, il commercio clandestino ed i reati annonari
costituivano una triste caratteristica di tutti i paesi, vincitori e vinti.....E che dire della delinquenza minorile? Quest'ultimo problema presentava aspetti imponenti, specialmente nelle grandi citta', e per fronteggiarlo
occorrevano mezzi finanziari ingenti, per il momento non reperibili. Dovevamo non soltanto creare istituti di ricovero e di rieducazione, ma anche provvedere alla riapertura delle scuole ancora chiuse. Diedi subito
disposizioni e la polizia non manco' di compiere frequenti rastrellamenti di minori abbandonati, dediti ad illeciti commerci e, comunque, esposti ai pericoli del traviamento. Nei casi piu' gravi si procedette al ricovero, entro
i limiti, purtroppo ristretti, delle disponibilita' di posti nei vari istituti. Negli altri casi si fu costretti a diffidare soltanto i genitori, o coloro che avevano la responsabilita' dell'educazione del minore" (in Dalla monarchia alla repubblica,
1959). Nonostante il grave disagio sociale qui testimoniato, questo passo ricorda che una simile situazione riguardava l'intera Europa postbellica e che le istituzioni erano comunque impegnate nel risolvere attivamente tale
situazione, laddove la vicenda creata dagli sceneggiatori di Sciuscià appare apocalittica e popolata quasi esclusivamente da figure negative, insomma priva di equilibrio e di aderenza alla realta' storica, volta piuttosto alla mera ricerca dell'effetto melodrammatico.
Hollywood premia De Sica con l’oscar per il miglior film straniero (1947), ma come dimostra la storia di questa sciagurata statuetta, si tratta di un riconoscimento piu’ politico che artistico. De Sica infatti, abbandonati
i film filocattolici, e’ passato a “cantare” il dolore dei vinti, tema assai caro alla sinistra americana (di cui l’industria cinematografica USA è parte integrante) ed italiana.
Nel prologo i due ragazzi “prenotano” il loro cavallo, Bersagliere, mentre la colonna sonora indulge in un leitmotiv sempliciotto, legato all’inconsueto sogno dei due sciuscià. Coinvolti in una
truffa vengono arrestati e internati in un carcere minorile. In questa parte introduttiva, popolata da stereotipi e macchiette, il film trova un proprio accento poetico nella malinconica e raffinata sequenza del trasferimento
in carcere: chiusi nel cellulare, i due ragazzi vedono dileguarsi la libertà e il fiabesco sogno del cavallo mentre contemplano la realtà da dietro le sbarre del veicolo. Girata con ampio uso di immagini in soggettiva, la
sequenza porta lo spettatore a identificarsi con il sentimento di perdita e di angoscia vissuto dai due ragazzi. Truffaut si ricorderà di questa pagina cinematografica nel suo Les 400 coups (1959). La lunga narrazione all’interno del riformatorio occupa quindi quasi l’intero film ed è divisibile in due parti: la prima racconta la penosa ambientazione negli angusti spazi della caserma e
termina con il “tradimento” di Pasquale; la seconda, durante la quale i toni si fanno progressivamente più tetri, contrappone i due ragazzi in un crescendo che sfocia nell’artificioso delitto finale. Nel carcere vige il diritto
del più forte e l’autore descrive una serie di tristi e assai probabili rapporti gerarchici instauratisi tra i malcapitati giovani; addirittura egli arriva a citare una celebre immagine di Metropolis (Lang, 1926) per
indicare un universo composto da individui spersonalizzati e abbruttiti. In tribunale i due sciuscià giungono infatti rapati e resi cosi’ quasi irriconoscibili, segno forte che vuole indicare la mutazione avvenuta in loro, il
lungo cammino interiore percorso. D’altro lato la serie inevitabile di torti e violenze subiti dai due ragazzi possiede qualcosa di rigido e preordinato che fa scivolare la pellicola nel lavoro preconcetto e inverosimile; anche
la scena di fronte ai giudici e’ troppo sbrigativa, affidata a personaggi di un’insensibilita’ tanto mostruosa da risultare francamente eccessiva e in definitiva fasulla. Il commento sonoro dozzinale di Cicognini (collaboratore
abituale di De Sica nel decennio 1946-56) peggiora le cose, appesantendo un film gia’ programmaticamente nero. La sequenza della fuga, punto culminante dell’opera, e’ ben orchestrata: la frenesia e il panico dei fuggiaschi
trova un delicato contrappunto nella morte del povero ragazzino malato e travolto nella confusione. De Sica riesce qui a commuovere, a ritrovare gli accenti piu’ sinceri dei suoi due precedenti film, anticipando cosi’ quel tipo
di scrittura sensibile e accorata che produrra’ con Ladri di biciclette (1948) un indiscutibile capolavoro. Di fronte alla morte di Raffaele e al "tradimento" di Giuseppe che vuole impadronirsi di Bersagliere,
la repentina trasformazione di Pasquale in una sorta di mister Hyde e’ frettolosa e meramente finalizzata a creare le premesse per il disgraziato finale ad effetto, nel quale tra gesti tracotanti e sovraccarichi ricompare
perfino il banale, saltellante motivetto del cavallo, ora piu’ che mai fuori posto.
Un dramma amoroso "coronato" dal suicidio della protagonista si svolge nel modesto, secondo lungometraggio La freccia nel fianco
(90 min.) di Alberto Lattuada, iniziato nel 1943 e concluso nel 1945 (esce nel settembre). Tratto dal romanzo omonimo (1913) di Luciano Zuccoli, sceneggiato dal regista insieme a Moravia, Zavattini, Flaiano ed altri, racconta l'amore impossibile dapprima tra un dodicenne e una diciottenne, poi, dieci anni dopo, tra l'ex ragazzino divenuto un celebre pianista e la donna ora infelicemente sposata. Il ritrovarsi dei due amanti portera' la seconda a cedere al giovane e poi, compresa l'impossibilita' della nuova situazione, a suicidarsi. Melodramma passionale piuttosto scontato ha al suo attivo qualche inquadratura elegante, una inconsueta perizia nelle sequenze concertistiche e un conciso, patetico finale, finalmente in linea con le conclusioni tragiche del teatro lirico romantico (il suicidio era un argomento troppo desolante ed era stato sostanzialmente proibito negli anni del regime).
Con il terzo film, Il bandito (87 min), presentato al primo festival di Cannes (settembre 1946), Lattuada si inserisce pienamente nell'atmosfera della cinematografia postbellica, raccontando le disavventure torinesi
di un reduce che, dopo alcuni timidi tentativi di trovare lavoro nonche' una serie di tragedie familiari, sceglie la via del crimine. Il soggetto originale del regista, sceneggiato con l'aiuto di Tullio Pinelli, Mino Caudana e
altri, esamina la situazione conflittuale creatasi in quegli anni difficile senza virare verso il cinema piu' sperimentale di Rossellini e De Sica: se gli esterni sono girati per le strade del capoluogo piemontese, gli attori
sono pero' tutte facce note a cominciare dal ruoli principali affidati ad Amedeo Nazzari e Anna Magnani. Peraltro, dopo un breve prologo animato da nobili ambizioni documentaristiche, la pellicola si trasforma (insieme al suo
protagonista) in un semplice film di gangsters di impronta americana. Nel complesso Il bandito e' solamente un mediocre fumettone melodrammatico, privo di ogni verosimiglianza mentre, d'altro lato, il fatto stesso che lo si sia inserito con encomio (e qualche generica, necessaria riserva) all'interno dell'ambito neorealistico rivela quanto questa vaga definizione rivesta un carattere fittizio, funzionale ad una logica di pura propaganda politica. Il film tuttavia ottiene un clamoroso successo commerciale e spiana la via alla futura carriera del cineasta milanese.
L’eclettica colonna sonora spiega meglio di ogni altro elemento le ascendenze e la natura eterogenea del film. C’è innanzitutto la dignitosa ed enfatica (ma non particolarmente memorabile) musica
composta dal padre del regista (oltre all'uso di motivi di repertorio come la sinfonia del Guillaume Tell rossiniano posta a commento dell'efferato delitto in auto), musica che mostra il legame tra il film ed il passato
operistico della tradizione italiana. Tale legame emerge nelle assurde coincidenze che fungono da snodi primari del racconto ovvero artificiosi colpi di scena i quali figurerebbero meglio sopra un palcoscenico lirico che non
nel naturalistico racconto per immagini. Il catalogo comprende: il reduce Ernesto che in una casa chiusa incontra proprio sua sorella (nella colonna sonora Felice Lattuada inventa un mesto, intenso e appropriato dialogo tra due
voci strumentali); quest'ultima che muore accidentalmente per un colpo di pistola sparato da un malvivente che lotta con il protagonista il quale sta tentando di "rapirla" e cosi' sottrarla alla sua vergognosa
professione (piu' o meno la situazione iniziale della verdiana Forza del destino [1862]); i banditi in fuga che sparano su un automobile per impadronirsene e vi scoprono all'interno proprio Rosetta, l'amata "nipotina" di Ernesto il quale trova allora la forza di redimersi; in un lacrimoso finale egli riesce, dopo una spossante camminata, ad arrivare tra i monti alla casa dell'amico, nonche' padre di Rosetta (l'aveva vista solo in cartolina...) e a restituirgli la ragazzina sana e salva prima di andare incontro alla morte. Insomma tutto un armamentario di artificiosi luoghi comuni inaccettabili nel racconto filmico.
Altrove c’è invece l'insistenza non comune nell'utilizzare canzoni americane suona come una dichiarazione d'amore nei confronti di quel cinema gangsteristico americano degli anni trenta preso a modello per Il bandito.
In tutti i film italiani dell'epoca postbellica la musica swing e' presente, ma qui sembra esserci un'intenzione evocativa ed elogiativa nei confronti di un preciso immaginario hollywoodiano, con le sue donne fatali, i suoi
locali claustrofobici e i suoi duri armati di mitra. Lattuada riesce perfino a trasformare l'attrice simbolo del nuovo cinema italiano, la legnosa e popolaresca Anna Magnani, in una seducente e spregiudicata capobanda:
l'operazione, per quanto forzata, rivela nel regista una mano sicura soprattutto nell'uso dei primi e primissimi piani dotati di carattere espressivo conturbante e sensuale, un terreno nel quale egli non sembra avere rivali (i
film coevi sono tutti molto piu' casti ed ellittici) e nel quale dimostrera' in futuro un vero, indiscutibile talento. Dunque il commento sonoro spaccato tra melodramma e Hollywood caratterizza questo lavoro incoerente anche se
significativo per il suo tentativo di fondere il vecchio e il nuovo, l'enfasi emotiva italiana e la narrazione concisa e ricca di eventi d'oltreoceano. Cio' che veramente e' latitante nel Bandito e' l'intenzione realistica: tutto vi appare costruito al fine di ottenere uno scaltro prodotto di sicura presa spettacolare, pervenendo purtroppo a risultati insoddisfacenti anche all'interno di quel differente tipo di discorso cinematografico.
Nel film sono identicabili tre parti ben dstinte: un prologo e due atti per dirla con una terminologia operistica. Il prologo contiene alcuni accenni alle tematiche neorealistiche: il reducismo, le macerie, la burocrazia
insensibile; peraltro il litigio tra l'impiegato e gli ex soldati si svolge in una sequenza popolata da opinabili stereotipi: da una parte solo gretta ottusita', dall'altra solo commovente miseria; tuttavia la richiesta del
primo di potere controllare i documenti d'identita' dei secondi prima di erogare una qualunqe somma di denaro appare comprensibile mentre l'atteggiamento ribelle di Ernesto risulta artificioso e finalizzato unicamente a
giustificare i prossimi sviluppi in direzione criminale del suo personaggio. L'incontro dapprima con la sensuale Lidia, poi con la sorella nella casa chiusa costituiscono i momenti di svolta: la pellicola diviene da ora fino
alla fine un gangster film e la vicenda di Ernesto si snoda seconda la classica, hollywoodiana parabola dell'ascesa e caduta dell' "eroe ". La morte della sorella, la colluttazione con il protettore e lo scontro a
fuoco con la polizia portano il generoso Ernesto (si veda il bel racconto dell'amico sui loro trascorsi nei lager tedeschi) a diventare un convinto e fantasioso criminale. Rapine, omicidi e intermezzi amorosi costellano questa
prima parte che culmina con il successo della rapina di capodanno; poi la situazione degenera: il protagonista non regge alle crudelta' reiterate (l'eliminazione di un poveraccio sequestrato per errore) e nel finale preferisce
morire per salvare Rosetta, simbolo della parte migliore di lui, temporaneamente obliata nella miserabile Torino postbellica. Se alcune singole sequenze denotano una vena originale, soprattutto nell'uso dei primi piani quali
intense sottolineature, l'insieme appare poco piu' di una generica caricatura del cinema americano dei primi anni trenta (The Public Enemy, Wellman 1931; Scarface, Hawks 1931). D'altro lato, come nei piu' riusciti
film coevi di Germi (Il testimone, 1946 e Gioventu' perduta, 1948), i malviventi di Lattuada sono evidentemente criminali di professione: questa pittura della pura e semplice malvagita', aspetto derivato dalla narrativa e dalla cinematografia americane, finisce con il proporre personaggi spontanemente votati al male e privi di precise relazioni con il drammatico fondale socio-economico. E' questo un ulteriore motivo di estraneita' del Bandito di
Lattuada rispetto al movimento del nuovo realismo politico il quale, presupponendo un meccanicistico rapporto di causa-effetto tra ambiente e scelte individuali, rapporto di scontata derivazione marxista (esemplare in tal senso
il contemporaneo Sciuscia''), non concepisce e rifiuta di prendere in esame la naturale inclinazione verso il Male.
Armando Fizzarotti, nato a Napoli nel 1892, dirige i primi lungometraggi negli anni venti. Specializzatosi in racconti napoletani nel dopoguerra incontra il produttore Roberto Amoroso (nato a Napoli nel 1911)
e insieme collaborano alla creazione del film Malaspina (marzo 1947; 80 min.), un tipico drammone sentimentale ambientato nei quartieri popolari della città partenopea, destinato ad avere un buon successo commerciale.
La sceneggiatura scritta da Amoroso corre lungo quasi un decennio e racconta le “malefatte” amorose di Maria detta Malaspina (Vera Rol), oggetto del desiderio di numerosi uomini. Il suo primo amore, Andrea (Aldo Landi al
suo esordio), finisce in galera per avere sfregiato il rivale Gaetano (Rino Genovese). Lei gli promette eterno amore e poi lo tradisce con chi capita; quando l’illuso innamorato ritorna in libertà (dopo la guerra) la ritrova
sul punto di sposarsi con l’antico concorrente, ora divenuto un boss della malavita. Malaspina però nel rivederlo si commuove, si ricorda dell’antico giuramento (“o sposa tua, o sposa di Dio”) e il giorno delle nozze fugge in
convento. Intanto la situazione tra i due rivali precipita: in una colluttazione Gaetano muore e Andrea si ritrova nei guai con la guistizia. Il fascino del film consiste nei suoi esterni, nel suo riprendere la vita vera
dei quartieri popolari di Napoli, nel far recitare comparse improvvisate (le stesse che poi affolleranno i cinema per vedersi e rivedersi), calando in quel contesto un appassionato fotoromanzo. Le tipiche, insinuanti canzoni
meridionali fungono da intensa colonna sonora e spesso divengono l’elemento catalizzatore del dramma, delle decisioni estreme di un personaggio, rendendo il racconto filmico una specie di melodramma popolare, nel solco di Cavalleria
rusticana (Mascagni, 1890). La coppia di autori crea così un’ironica “contraffazione” del decantato “neorealismo”: usa solo esterni reali e personaggi del luogo (con l’eccezione della protagonista, nata in Piemonte) ma lo fa per inscenare il più antico e tradizionale dei drammi, quello della gelosia, mentre gli ambienti malavitosi e popolari - evitata ogni distinzione classista - risultano semplicemente contigui, calati in una sorta di amorale indifferenza per le regole dello stato. Certamente c’è chi comanda e chi subisce (si veda la sequenza della ribellione dei pescatori al boss Gaetano), ma i singoli appaiono sempre liberi di cambiare strada, di tornare sulle proprie scelte, di adoperarsi per il contrabbando o di accontentarsi della pesca. In tal senso il tratteggio della realtà popolare in Malaspina appare più credibile di quello schematizzato su basi ideologiche presente nel successivo La terra trema (Visconti, 1948), film famoso nella “città del cinema” e ignoto al pubblico reale di quegli anni (nel tempo il generoso flusso di parole della critica ha generato un qualche effetto: il film di Visconti circola oggi in vari formati mentre Malaspina è diventato introvabile).
Lo stile “neorealistico” di Malaspina - generato essenzialmente dal desiderio di risparmiare (buona parte delle comparse accettò di lavorare gratuitamente, pur di comparire in un film; inoltre girare all’aria aperta significava risparmiare i costi di uno studio cinematografico) - offre dunque agli spettatori un prezioso, godibile documento della realtà napoletana di quegli anni, fotografata con notevole sensibilità cromatica ed entro inquadrature spesso di attenta composizione; non manca qualche inattesa ricercatezza al montaggio (curato dallo stesso Fizzarotti), come quando nei flutti generati da una cassa gettata in mare dai contrabbandieri riemerge invece Malaspina che sta facendo il bagno (da tutt’altra parte) con alcuni ricchi corteggiatori: in tal modo con un montaggio delle attrazioni si legano in modo subitaneo due sequenze “lontane” per argomento e per collocazione geografica.
Purtroppo il film offre anche i peggiori difetti della moda “neorealista” ovvero una recitazione amatoriale che finisce con il minare la credibilità del racconto, già di per sé alquanto stereotipato. In ogni caso tutto lo
stringente finale - il matrimonio interrotto, la fuga in convento, lo scontro tra i rivali - possiede una qualità visivo - musicale sorprendente che vira decisamente verso gli scenari del melodramma verista con esiti alti.
Anche il taglio ellittico della narrazione, composto ora da poche immagini evocative di situazioni più ampie, merita attenzione e ricorda le conclusioni fulminanti di opere come Cavalleria rusticana e Pagliacci (Leoncavallo, 1892).
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