Sette note in nero, Il gatto dagli occhi di giada e Buio omega

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          “La scena che scioccò tutti era quella dell'imbalsamazione: era così realistica
          che pensavano che avessimo filmato una vera autopsia. Si faceva per finta,
          invece, ma quello che si vedeva era carne vera: l'avevamo comprata da un
          macellaio, erano soltanto interiora di animali, con l'aggiunta del cuore di una pecora”
          Joe D’Amato (intervista del 2004)
           

Lucio Fulci firma con Sette note in nero (mag 1977; 90 min.) probabilmente il suo film migliore. Il regista prende spunto da Profondo rosso e rende il personaggio della medium da marginale a centrale. Abbiamo così il primo caso di detective-medium della storia del giallo italiano.
Virginia (un’ottima Jennifer O’Neill) ha una complicata ed ampia visione relativa a uno o forse più delitti. Seguendo questa traccia scopre (picconando un muro) dapprima il corpo di una giovane, murata nella casa di campagna di suo marito (Gianni Garko), in una sequenza ampiamente “ripresa” da quelle della villa di Profondo rosso con David Hemmings che, a sua volta, abbatteva muri e trovava cadaveri; poi ci si addentra in una complessa trama relativa al furto di un Vermeer che coinvolge la ragazza uccisa, il marito e il direttore (Gabriele Ferzetti) di un museo. Virginia scopre altresì che le immagini della sua visione non riguardano il passato bensì il futuro, anzi proprio il suo futuro. E’ lei la donna della visione che viene murata viva e il principale colpevole è quello di cui più si fidava ovvero suo marito.
La pellicola possiede un forte fascino figurativo (in buona parte ripreso da Profondo rosso) e una perfetta costruzione, serrata ed enigmatica. Anche se alcuni colpi di scena - soprattutto la colpevolezza del marito e la consueta soluzione finale ripresa dal Gatto nero di Poe - sono abbastanza prevedibili, il racconto è un susseguirsi di colpi di scena che inchiodano lo spettatore, senza neppure far ricorso a effetti truculenti. La suspense è nelle cose, negli ambienti insoliti, nei personaggi infidi e negli scenari urbani notturni (la pellicola è ambientata a Siena). Anche la musica, con il suo suggestivo carillon (peraltro non troppo sfruttato), sottolinea con efficacia i singoli passaggi - senza però divenire mai protagonista come accade nel cinema di Argento - allineando un campionario di efficaci effetti sonori ovvero singhiozzi, urla, sospiri, carillon accompagnati da pochi essenziali tocchi sonori. Gli autori Bixio-Frizzi-Tempera hanno anche composto la magnifica canzone With You dei titoli di testa, dotata di quella estrema dolcezza che serve, per contrasto, a sottolineare le efferatezze che ci attendono (secondo il modello stabilito dall’incipit de L’uccello dalle piume di cristallo). Dal cinema argentino Fulci riprende inoltre il gusto per l’enigma relativo a un dettaglio oscuro o mancante e ne fa la colonna portante della narrazione: Sette note in nero è un progressivo svelare l’oscura visione iniziale di Virginia i cui dettagli incomprensibili divengono, passo dopo passo, gli elementi chiave della trana del racconto.
La pellicola ottenne un buon successo.

Luigi Petrelli firma con L’occhio dietro la parete (mag 1977; 80 min) la propria unica regia, scegliendo di confezionare un bizzarro film in cui si incrociano ricordi di Bunuel, Argento e Hitchcock.
Un signore anziano e paralitico (il bunueliano Fernando Ray) spia, da un buco nella parete, il proprio affittuario (John Philip Law), un giovane misterioso che passa il tempo a leggere libri di ogni genere. Il voyeur spinge nel proprio gioco morboso quella che crediamo essere la sua giovane moglie (Olga Bisera), fino a chiederle di avere una relazione sessuale con il giovane, alla quale, ovviamente, l’uomo assisterà dalla propria postazione. Tutto si snoda secondo i piani dell’uomo senonchè, nel finale a sorpresa, il giovane si suicida e coinvolge nella sua fine anche la donna che scopriamo essere la figlia del protagonista.
In questo dramma da camera che possiede la tensione di un thriller per poi ripiegare sulla tragedia esistenziale, Petrelli mette in campo il desiderio sessuale di un guardone che possiede un solo modo per sentirsi vivo ovvero osservare la sensualità degli altri. In un contesto che rimanda a La finestra sul cortile (Hitchcock, 1954), con musiche progrock chiaramente ispirate a quelle di Profondo rosso (1975), Petrelli riesce a ricreare parzialmente le atmosfere morbose del Bunuel di Viridiana (1960) e di Bella di giorno (1966) in un gioco al massacro in cui il vampirismo sessuale è l’unica ragione di vita di una serie di personaggi isolati dal contesto sociale (con poche eccezioni l’intero film si svolge nella villa, in un tempo e in un luogo imprecisati), verso il quale mostrano o un totale disinteresse o una profonda delusione esistenziale (il giovane parla di differenti percorsi iniziati e abbandonati). Il film consiste dunque in una discreta riflessione nichilista intorno al desiderio quale unica fonte di gioia, riflessione travestita da thriller con una protagonista che si sottomette ai voleri del padre e che cerca, nel finale, di sfuggirgli alla ricerca di una vita normale (con il giovane misterioso), finendo però per trovare solo la morte.
In ultima analisi Petrelli si interroga sul più intimo significato dell’arte filmica: in fondo il pubblico stesso viene a trovarsi nella posizione del vecchio protagonista il cui unico piacere consiste nell’appagare il proprio desiderio sessuale attraverso la visione.

Dopo un silenzio di qualche anno, nel suo ultimo mediocre film Shock (ago 1977; 90 min.; sul materiale pubblicitario compare lo sgrammaticato schock) Mario Bava si cimenta con il modello argentiano.
Dora (Nadia Nicolodi) con il figlio Marco rientra, dopo alcuni anni, nella propria casa di un tempo dove il primo marito (Nicola Salerno) sembra si fosse suicidato. Il secondo marito (John Steiner) le è vicino ma, ciononostante, la donna è preda di svariati incubi mentre il figliolo, anticipando il Danny di Shining, percepisce il carattere morboso che aleggia nell’edificio. Il racconto si limita ad enumerare una serie di incubi di Dora al culmine dei quali la donna, impazzita, rivede lo spettro del primo marito (da lei ucciso) che la tiene in scacco, ammazza il secondo coniuge e si suicida.
La vicenda, tediosamente bloccata in un unico ambiente, è ampiamente ricalcata su Profondo rosso tra carillon musicali, accenni di progressive rock (alla maniera dei Goblin), traumi del passato, bambini pestiferi, la presenza della Nicolodi ed infine una villa ricca di misteri. Nulla però funziona come nei film di Argento: fastidiosi tempi morti allungano una sceneggiatura inesistente (nè bastano gli affastellati e prevedibili colpi di scena finali a rimediare), la recitazione lascia a desiderare (soprattutto quella del ragazzino) mentre la suspense è totalmente assente (come quasi sempre nei casi di incubi onirici ai quali lo spettatore assiste sapendo che, in fondo, sono sempre “inoffensivi” e inconcludenti). Messo alle strette, Bava torna a utilizzare i vocaboli stilistici teatrali e neogotici tra muri che nascondono segreti, come nei racconti di Poe, magniloquenti e sonorità organistiche, melodie romantiche al pianoforte alternate ai nuovi accenti rock e il solito girovagare “intontito” dei personaggi. Rispetto ai film degli anni sessanta in realtà è stata solo modificata l’ambientazione (archiviando vecchi manieri ormai anacronistici), ma ciò non è bastato a creare un thriller nel nuovo, moderno stile argentiano.

Antonio Bido esordisce nel lungometraggio con Il gatto dagli occhi di giada (set. 1977; 90 min.), pellicola di matrice argentiana, contaminata con elementi del cinema di impegno civile.
A Roma un misterioso assassino sta eliminando, con metodi sadici, una serie di persone, tutte di età avanzata. Un’attrice (Paola Tedesco) incrocia per caso l’assassino e quest’ultimo la inserisce nell’elenco delle future vittime. Terrorizzata la donna si fa aiutare dal proprio compagno (Corrado Pani) a decifrare l’enigma ed a scoprire movente e colpevole.
Bido gira con notevole competenza e firma una pellicola cinefila che - riprendendo con in modo disinvolto ed “amorevole” numerosissimi vocaboli del cinema di Argento - costituisce probabilmente l’omaggio più riuscito degli anni settanta al maestro del giallo italiano. Ritroviamo pertanto l’assassino sadico, le soggettive insinuanti, l’omicidio della donna sola in una casa isolata, la villa misteriosa, primi piani di oggetti, il doppio finale con due colpevoli (padre e figlio), i messaggi telefonici con rumori significativi nello sfondo ecc. Inoltre la bella colonna sonora - firmata TEE - prende spunto da quella demoniaca e frastornante di Suspiria, creando una sorta di corto circuito tra da un lato le immagini e la trama abbastanza essenziali (ispirate soprattutto a L’uccello dalle piume di cristallo ed a Profondo rosso) e dall’altro le sonorità cupe e debordanti (l’autore utilizza in modo incisivo anche il Dies Irae del Requiem verdiano), tipiche di un film di spettri e demoni.
Bido però toglie qualcosa e aggiunge qualcos’altro. Il gatto dagli occhi di giada è un giallo senza polizia (anomalia, anche nei confronti dei modelli argentiani, che si percepisce in modo pesante e che probabilmente è dovuta ai modesti mezzi di produzione del film) il quale, nella seconda parte cerca di proporre una soluzione “alta” alle violenze della prima. La sorpresa è alquanto prevedibile (lo si comprende fin dall’inizio) e tira in ballo le prevedibili responsabilità dei fascisti della Rsi nei confronti degli Ebrei. Il protagonista indaga a Padova, scopre che le vittime erano state, a loro volta, carnefici nei confroni di una famiglia ebrea e che ora l’unico sopravvissuto, un giudice ebreo, ha addirittura plagiato il figlio (Paolo Malco) affinchè compiesse questa tardiva vendetta. Nelle immagini finali, compresa la mostruosità dell’operazione, egli arriva addirittura ad ammazzare il figlio ed a suicidarsi. Il goffo tentativo di inserire in un giallo argentiano, a suo modo riuscito, una trama storico-politica (la più stereotipata possibile) è fallimentare: produce una seconda parte del film noiosa e soprattutto personaggi (la coppia assassina) e moventi insostenibili.
La pellicola riscosse un notevole successo commerciale.

Il successivo Solamente nero (lug. 1978; 105 min.), il cui titolo è un goffo riferimento a Profondo rosso (oggi incomprensibile), conferma pregi e difetti dell’autore.
A Murano un professore esaurito (Lino Capolicchio) è ospite da don Paolo, il fratello sacerdote (Craig Hill) e amoreggia con la bella Sandra (Stefania Casini). Appena arrivato è testimone dell’uccisione di una medium: i sospetti cadono sui tre abituali frequentatori della chiromante i quali, però, vengono uccisi uno dopo l’altro. Muore anche la matrigna (Laura Nucci, un’attrice molto nota negli anni trenta), bloccata su una sedia a rotelle (come la Rossella Falk di Giornata nera per l’ariete) e si ricomincia  a parlare di un vecchio delitto avvenuto nelle vicinanze della chiesa di Don Paolo. La soluzione - simile a quella dei Non si sevizia un Paperino - è abbastanza scontata: il principale colpevole è don Paolo, anche se la prima vittima era stata uccisa dall’infermiera (Juliette Mayniel), che poi aveva cominciato a ricattare il sacerdote (temendo che conoscesse la verità).
Le citazioni dai film di Argento sono innumervoli, come pure da La casa dalle finestre che ridono (Avati, 1976): inutile citarle tutte. Va ribadito invece che Bido gira bene, le sue uccisioni ingenerano reale terrore e sono splendidamente ambientate in interni arredati con gusto. Ottima anche l’ambientazione autunnale a Venezia come pure l’uso dei colori (ripreso da Suspiria) e delle musiche frastornanti e minacciose di Cipriani coadiuvato dai Goblin (modellate, ovviamente su quelle di Suspiria). In particolare memorabile appare la sequenza di Sandra minacciata in casa dall’assassino mentre risuonano le note del Sacre di Stravinski: Bido dimostra di conoscere il senso profondo dell’opera del celebre compositore russo ovvero quello di un’orgiastica festa di morte ai danni di una giovnetta, sacrificata per l’arrivo della primavera e di saperlo far proprio, raccontando un possibile rito che ha per oggetto la bella Stefania Casini. Quest’ultima, poi, arriva direttamente da Suspiria, con la sua aria di bambina spaurita in un mondo crudele e incomprensibile. In tal modo Bido firma un’opera a tratti realmente pregevole, in cui si cerca di ricreare il clima onirico del capolavoro di Argento. Peccato che la trama sia eccessivamente inverosimile e scontata; la prima vittima era stata uccisa nei pressi della chiesa ed aveva in mano i fogli di una Bibbia: non avrebbe dovuto essere difficile immaginare chi fosse il colpevole... Anche i dialoghi risultano quasi sempre risaputi e spesso goffi (anche la recitazione ne risente: Capolicchio appare spesso poco convinto di quello che dice). Semmai è abbastanza interessante l’invenzione dei due colpevoli, questa volta separati l’uno dall’altra e mossi da differenti moventi, un’idea di cui si ricorderà Argento in Tenebre (1982).
Sebbene nulla nell’opera di Bido appaia nuovo (oltre alla medium di Profondo rosso, c’è il quadro de L’uccello dalle piume di cristallo, la sequenza nel cimitero da Il gatto a noce code, la scena di sesso esplicito di A Venezia un dicembre rosso schocking ed addirittura il finale ripreso da Vertigo; perfino il manifesto pubblicitario è ispirato a quello di Suspiria), ogni sequenza però risulta interessante e girata con completo dominio dei mezzi espressivi, in un perfetto connubio di immagini e suoni. In particolare sono memorabili l’uccisione della medium durante un sinistro temporale (come quello dell’incipit di Suspiria), quella della donna sulla sedia a rotelle come pure quella del dottor Aloisi (Sergio Mioni, uno stuntman) ucciso in acqua, in un canale di Murano, dal sopraggiungere del motoscafo guidato dall’omicida. Quello che rende, alla fine, questi film poco più che un ammirevole esercitazione è la mancanza di personaggi e situazioni memorabili: Bido non sa inventare streghe, scuole di danza, assassini paranoici e disturbati, detective cialtroni e sfortunati, cliniche dove si indaga sulla innata malvagià della natura umana; soprattutto non comprende il sottotesto “malato” del cinema argentiano, vera festa di morte per donne bellissime, provocanti e troppo emancipate. Egli si limita a copiare quelle atmosfere lugubri e visionarie, cercando di creare un contesto razionale, fatto di moventi tradizionali (la vendetta, l’eliminazione di testimoni pericolosi ecc.), che le giustifichi. Cosicchè si resta impressionati da singoli episodi ma non dall’opera nel suo complesso.

Alberto De Martino, già autore di validi polizieschi nella prima metà del decennio, firma con Holocaust 2000 (nov. 1977, 100 min.) una dignitosa variazione sul tema del satanismo coniugato con le recenti preoccupazioni ecologiche e antinucleariste.
L’industriale Robert Caine (Kirk Douglas) sta per costruire un’enorme centrale nucleare in un paese del terzo mondo. A Londra, dove risiede, viene contestato dai giovani mentre intorno al progetto compaiono pericolosi presagi di natura apocalittica. Un monsignore (Romolo Valli) aiuta Caine, sempre più spaventato, a decifrare i segni del Male incombente mentre intorno a lui tutti gli oppositore del progetto muoiono in circostanze oscure. L’uomo scoprirà che suo figlio Angel (Sion Ward) - ossia Angel Caine, un nome assai esplicito - è in realtà l’Anticristo ed è il vero motore dell’iniziativa nuclearista che spalancherà le porte alla fine del mondo. Robert, sconfitto, si ritira in campagna con l’amante (Agostina Belli) e aspetta l’ineluttabile...
Per quanto scontato in tutti gli snodi narrativi (l’identificazione del “colpevole” è quasi immediata) e assai poco sottile negli “indizi” messi in campo, il racconto si avvale, però, di un ottimo cast (c’è anche Adolfo Celi), di ambentazioni efficaci, di una colonna sonora morriconiana di buon effetto (una bella linea melodica cantabile, adagiata su inquieti fondali sonori) e di un ritmo narrativo stringente e ricco di eventi. I riferimenti a Rosemary’s Baby ed al recente Il presagio (Donner, 1976) si riducono a poche, ovvie citazioni mentre l’idea della centrale nucleare inserita in un contesto terzomondista appare inedita, come pure quella del banchetto dell’ “Ultima cena” trasfigurato (nel finale) in un sinistro consiglio di amministrazione presieduto dall’Anticristo circondato da 21 (ovvero 12 letto al contrario) “apostoli”.
Inoltre il film si inserisce, sebbene in modo tardivo, nel filone pacifista ovvero in quel cinema politico di presunta denuncia civile che, a partire dalla fine degli anni cinquanta (L’ultima spiaggia, A prova di errore, Il dottor Stranamore), lavora per il disarmo nucleare o meglio lavora per gli interessi della sopravvivenza dell’Urss e dell’universo comunista, interessato a neutralizzare la netta superiorità americana in fatto di armamenti.
Il film riscosse un buon succcesso commerciale.

Ugo Liberatore chiude la propria breve stagione di regista con il modesto Nero veneziano (gen. 1978; 90 min.), palese ricalco de Rosemary’s Baby (Polasnki, 1968). Lo stile del racconto è opaco e tedioso: tutto vi è prevedibile, a cominciare dal soggetto; le sequenze orrorifiche, che dovrebberero incutere soggezione, sono di una pochezza imbarazzante (la morte iniziale della zia “bruciata” in chiesa, l’incendio sul traghetto, la morte del prete tra le eliche del vaporetto... ) con l’eccezione della truculenta uccisione del bimbo satanico, scagliato con veemenza contro una scultura fatta di punte acuminate. Anche l’ambientazione veneziana non offre (come avrebbe potuto) momenti memorabili, la musica di Donaggio aggiunge abbastanza poco e gli attori sono tutti senza infamia e senza lode.
Liberatore si è invece concentrato sugli aspetti simbolici della narrazione, offrendo alcuni spunti interessanti e insoliti che, tuttavia, da soli non bastano a salvare un horror lento e stereotipato. Alla Giudecca, zona marginale di Venezia, in un albergo misterioso chiamato Winter (inverno ovvero stagione della desolazione e della morte), una famiglia maledetta di inglesi (ossia antipapisti) è in rapporto con il maligno. Gli anziani muoiono per lasciare il posto alla giovane (Rena Neuhaus) predestinata a divenire la madre di un bimbo satanico. Mark, il fratello cieco (Renato Cestiè) e, a suo modo, veggente, invano la avverte, ma nessuno lo ascolta. Il diavolo giunge, ingravida la giovane e riparte; nasce il bimbo che porta ogni sorta di sfortuna mentre l’albergo si popola di vestali di Satana (Lorraine de Salle, Olga Karlatos, Ely Galleani) che, a tempo perso, si prostituiscono. Si giunge ad uno sontuosa “ultima cena” con le vestali invece degli apostoli e la madre al posto del Cristo. Il fratello riesce ad ammazzare il diavoletto che però viene sepolto e il giorno di Pasqua risorge per rimanere eternamente nel mondo a far danni. Nel finale il fratello infatti vede la sorella-strega che coccola il bimbetto risorto. Tutti i loro amici e conoscenti, nel frattempo sono morti.
Il racconto - inserito in un contesto totalmente onirico che, unico, può giustificare le mille incongruenze e inverosimiglianze - approda a una sorta di suggestiva allegoria della modernità governata dal maligno che vive in mezzo a noi come uno spettro. Il mondo alternativo che incoraggia e protegge è una sorta di matriarcato con donne-sacerdotesse che vivono prostituendosi mentre gli uomini sono stati tutti eliminati, tranne il giovane cieco. In tal senso il racconto è aggiornato e, a suo modo, coniuga la stagione della contestazione e della rivoluzione sessuale con l’apologo satanista: il nemico unico di queste correnti di pensiero e di azione è la società patriarcale della Tradizione.

Il secondo lungometraggio di Francesco Barilli, Pensione paura (feb. 1978; 90 min.) è un evidente e modesto ricalco di Suspiria nel quale si innesta anche qualche reminiscenza de L’inquilino del terzo piano (Polanski, 1976).
Negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale la giovanissima Rosa (Leonida Fani), il cui volto fanciullesco e le cui ingenue movenze ne fanno una copia della protagonista di Suspiria, si trova a dover gestire la pensione della madre, morta in circostanze poco chiare. I residenti sono tutte figure ambigue e poco raccomandabili tra cui spicca il brutale gigolò Rodolfo (Luc Merenda) e la sua matura e ricca amante (Jole Fierro). In un crescendo di violenze, spesso generate da moventi poco definiti, si giunge ad una ecatombe conclusiva: come nel finale di Suspiria resta in vita solo la protagonista, resa folle dagli eventi. Non mancano esplosioni di violenza che contrappongono presunti fascisti e presunti partigiani (Francisco Rabal) nascosti in soffitta e un sacerdote licenzioso che sembra uscito da La casa dalle finestre che ridono (Avati, 1976), film con il quale Pensione paura condivide l’ambientazione paesana e rurale.
Le atmosfere minacciose e torbide che attanagliano l’edificio (in cui si svogle l’intera vicenda), spesso illuminate con irreali colori (i rossi e i blu che rimandano direttamente al quadro pittorico del citato capolavoro argentiano), cercano di creare un’atmosfera onirica e fiabesca: Rosa insomma come Alice in una paese di ripugnanti “meraviglie”. Tra l’altro l’invasione di vermi di Suspiria si trasforma nel dilagare di scarafaggi, fin nel letto della protagonista. L’esito è però greve e noioso sia per la pochezza della caratterizzazione dei personaggi, sia per l’andamento indefinito dell’intreccio tra gioielli nascosti, traffici incomprensibili, violenze sessuali e brutali delitti. In generale Barilli tenta di riempire questo vuoto con sequenze erotiche incentrate sulla purezza “violata” della protagonista, dirigendo però òa pellicola verso differenti orizzonti, più apparentati con le disavventure “domestiche” di Malizia (Samperi, 1973) che con  l’inquieta visionarietà di Suspiria. In ogni caso la pellicola coglie in pieno lo spirito del tempo, mettendo in scena, nel lungo duello tra Rodolfo e Rosa, la vendicativa tendenza maschile a volersi appropriare di qualcosa - un giovane e puro corpo femminile - che, nell’epoca del femminismo, sta diventando sempre meno controllabile.

Alfredo Rizzo, giunto al proprio settimo film, ritorna al thriller con implicazioni sociali nel pessimo Suggestionata (apr. 1978; 85 min.) nel quale si riscontrano tutti i difetti del precedente, mediocre La sanguisuga conduce la danza, pellicola che, tuttavia, al confronto di questa, era un capolavoro..
In una zona rurale isolata due famiglie - la prima ricca e la seconda povera - vivono separate da antichi rancori. Il padre (Giampiero Albertini) più sfortunato rimbambisce la figliola (Gioia Scola) con le sue continue lagnanze relative ai vicini di casa; la govane, “suggestionata”, ammazza i tre giovani figli della coppia benestante e si suicida.
Il racconto è fiacco sotto ogni profilo: lento, popolato da dialoghi insulsi e da tempi morti, infarcito di sequenze pseudoerotiche (noiose anch’esse) e ambientato in una zona disadorna e insignificante. Anche gli omicidi avvengono in modo ripetitivo e prevedibile. Insomma uno dei peggiori film del decennio.

Giulio Petroni termina la propria carriera con l’insignificante L’osceno desiderio (lug. 1978; 90 min.), prevedibie minestrone in cui si incontrano Suspiria, Rosemary’s Baby e L’esorcista.
Nella consueta villa maledetta Marisa Mell, moglie dell’ambiguo Chris Avram, scopre che è finita in mano ad una congrega di indemoniati (ci sono anche Laura Trotter e Victor Israel); il marito la mette incinta per conto di Satana ed a nulla valgono i tentativi esorcistici di uno svogliato Lou Castel. Come storia secondaria assistiamo anche alle gesta di un misterioso serial killer che uccide prostitute...
La pellicola è mediocre da ogni punto di vista: ambientazione, cast, musica, costruzione dell’intreccio, qualità figurative.

Alberto Negrin, giunto al proprio secondo film, gira Enigma rosso (ago 1978; 80 min.), un mediocre thriller che si basa su una sceneggiatura, tra gli altri, di Massimo Dallamano (morto nel 1976).
Il titolo richiama Profondo rosso mentre la vicenda, sostanzialmente ambientata in un collegio di adolescenti, riguardo al contesto rimanda sia al recente Suspiria, sia soprattutto a Gli orrori del liceo femminile (Serrador, 1969). Il commissario Di Salvo (un inespressivo Fabio Testi), indaga su una serie di omicidi relativi a minorenni (tutte alunne del suddetto collegio) coinvolte in un giro di prostituzione; i colpevoli, alcuni dei quali vengono rapidamente eliminati dal cervello della combriccola, sono facilmente individuabili mentre il secondo finale, incentrato su una bambina (Fausta Avelli) vendicativa e aspirante assassina, è tra le cose più assurde mai viste al cinema. Non manca l’episodio dell’aborto (come nel simile e di molto superiore Cosa avete fatto a Solange? di Dallamano, con Fabio Testi).
La pellicola è opaca e prevedibile, girata in modo anonimo e interpretata, senza la minima convinzione, da attori poco interessanti. L’ambientazione poi è tra le cose peggiori del film: sebbene si alluda ad una città italiana (le ragazze mostrano biglietti da centomila lire), siamo in una Madrid periferica ed irriconoscibile (anche perchè Negrin fa di tutto per renderla tale). La mancanza di un contesto urbano significativo aggiunge grigiore all’insieme.
Gli incassi furono modesti.

L’unica incursione di Castellari nel cinema horror sfocia nel disastroso Sensitività (gen. 1979, 85 min.), pellicola che cerca di fondere le caratteristiche principali di Suspiria (si noti anche la somiglianza fonetica del titolo) e di La casa dalle finestre che ridono. Il film fu un insuccesso e venne poi rimontato da altri con il titolo Kyra la signora del lago (1980). Quest’ultima è l’unica versione attualmente disponibile del film.
Lilian, una bella fanciulla (Leonora Fani) dall’aria candida ed ingenua come la protagonista di Suspiria, arriva in un paese maledetto (simile a quello del citato film di Avati) dove sono avvenuti fatti di sangue legati ad un imprecisato fantasma del lago. La ragazza, figlia di una donna uccisa dal presunto spettro, viene rapidamente considerata dalla popolazione una reincarnazione della strega che alegga sul luogo: chi si accoppia con lei muore poco dopo per opera di una spaventosa figura oscura che appare dal nulla (Caterina Boratto). La soluzione non è poi tanto differente da ciò: Lilian non è altri che la strega e, nel finale, affronta la sorella Lilith (Patricia Adriani), anch’essa dotata di doti di sensitiva. Entrambe muoiono in un rogo (come nel finale di Suspiria). Anche la musica dei fratelli De Angeis imita quella dei Goblin.
Il film è modesto da ogni punto di vista: trama confusa, brutta fotografia, dialoghi orribili, tempi morti, effetti speciali modesti. Si salva solo la protagonista.

Un cast “stellare” e una coproduzione italoamericana vengono sprecati da Giulio Paradisi nel pessimo Stridulum (mar.1979; 105 min ed. italiana), polpettone in cui si danno appuntamento i maggiori successi horror-galattici dell’ultimo decennio.
Ad Atlanta una bambina indemoniata (L’esorcista), venuta da un altro pianeta e protetta da una schiera di potenti guidati da Mel Ferrer, fa danni di ogni genere: uccide il commissario Glenn Ford e controlla schiere di uccelli rapaci che si accaniscono sui suoi nemici (Gli uccelli, Hitchcock, 1963). La madre finisce su una sedia a rotelle e viene ingravidata dagli alieni (in stile Incontri ravvicinati, Spielberg 1977) affinchè posssa partorire un secondo mostro (Rosemary’s Baby). Dallo spazio profondo arriva un vecchio saggio (John Huston) con il compito di neutralizzare la parte malefica della ragazzina e di riportarla a casa. Aiutato anche da un’energica domestica (Shelley Winters), vi riesce dopo un duello che avviene in una galleria di specchi (La signora di Shangai, Welles, 1948); nei cieli troveranno una carismatica divinità bionda (Franco Nero) ad attenderli...
La pellicola è, insomma, un guazzabuglio ridicolo e noioso, basato su una sceneggiatura frammentaria ed episodica.

Altrettanto mediocre è il secondo ed ultimo film di Giulio Berruti Suor omicidi (mar. 1979; 85 min.) che condivide con il precedente il cattivo utilizzo di un cast notevole (Anita Ekberg, Massimo Serato, Alida Valli, Lou Castel, Joe Dalessandro).
In un ospizio belga, gestito da religiose, una suora ammazza a ripetizione. Si è portati a credere che sia la schizofrenica suor Gertrud (Anita Ekberg) che soffre di sdoppiamento della personalità; ovviamnte si scoprirà che si tratta di un’altra (Paola Morra). La pellicola gira a vuoto allineando una serie di situazioni insignificanti e totalmente inverosimili, volte al solo scopo di motivare la presenza di alcune sequenze violente (nel segno di Argento) ed altre erotiche. In entrambi i casi si tratta di episodi di scarso interesse come peraltro l’intera narrazione che allinea dialoghi insulsi, una grigia ambientazione (praticamente tutta all’interno dell’ospizio) e un soundtrack basato si un generico rock (nel solco di Profondo rosso).
L’avere messo in scena un universo religioso viziato da ogni possibile perversione rientra nel filone anticlericale inaugurato da La monaca di Monza (E. Visconti, 1969) e The Devils (Russell, 1971) e assai ricco di titoli nei tormentati anni settanta. Questo di Berruti è tra gli ultimi e tra i meno interessanti. Si tratta di un genere alquanto monocorde e tedioso il cui carattere prevedibile e stereotipato (nessuna figura si salva, in genere, in questi fumettoni erotici) rivela un fastidioso livore di marca massonica.

Joe D’amato firma con Buio Omega (ago. 1979, 95 min.) un horror di notevole potenza, ricco di dettagli francamente disturbanti e calato in un’atmosfera malata che possiede un’indiscutibile forza comunicativa. Sebbene l’opera appaia decisamene originale, in realtà si tratta di una sorta di rivisitazione del medocre Terzo occhio (Guerrini, 1966; vedi), ancora influenzata dalla pesante estetica del cinema di Mario Bava e basata in larga parte su elementi ripresi da film hitchcockiani e in misura molto minore da Suspiria (Argento, 1977). D’Amato dimostra di sapere riformulare queste reminiscenze in un contesto nuovo che le supera e le trasfigura.
Francesco (Kieran Canter; si noti la scelta del nome...) è un sadico e un necrofilo. Vive in una villa isolata dove, con la comnplicità di Iris (Franca Stoppi), che accetta tutto pur di riuscire a sposarlo, dapprima ha imbalsamato il corpo della fidanzata (Cinzia Monreale), trafugato dalla tomba; poi, di tanto in tanto, porta a casa sprovvedute che ammazza nei modi più perversi. I corpi vengono poi bruciati in un ampio forno (come in Estasi di un delitto, Bunuel, 1955) o sciolti nell’acido. A volte diventano anche pasto per la coppia malata. La polizia non capisce (come nei film di Hitchcock) mentre un detective (assai simile a quello di Psycho) intuisce la verità. Nel delirante finale nella villa giunge la sorella gemella della fidanzata e scatena le tensioni tra Francesco e Iris che, sostanzialmente, si ammazzano a vicenda in un contesto barocco che richiama il finale di Suspiria.
Tutti gli elementi chiave del racconto derivano da Hitchcock: in particolare la presenza incombente e sinistra di Iris, il cui volto possiede una fissita inquietante, è modellata sulla figura della governante di Rebecca (Hitchcock, 1941), il personaggio dell’imbalsamatore deriva da Norman Bates (Psycho, 1960), mentre la duplicità della fidanzata ed il suo “ritorno” in scena rimandano a Vertigo (Hitchcock, 1959). D’altro lato la situazione chiave, ripetuta più volte, dell’introduzione di una giovane innocente nell’antro del mostro rimanda a Suspiria (Jessica Harper, ignara, nel covo delle streghe) e mette in scena l’elemento fondamentale della narrazione ovvero il confronto tra vita e morte, tra bellezza e orrore, tra purezza e perversione. Questo conflitto viene rappresentato al suo livello estremo da D’Amato che osa filmare eventi di rara violenza e di efficacia indubbia - elementi tuttavia non inverosimili o astratti (basti rileggere i casi più truculenti della cronaca nera internazionale) - che rendono la pellicola talmente dura da essere sopportabile solo da una parte limitata di spettatori. La violenza brutale, già al centro della rivoluzioen argentiana del cinema poliziesco prima e horror poi, diviene ancora più estrema, compiaciuta e quasi patologica in D’Amato che, fin dall’inizio, non cerca il successo di massa bensì si rivolge ad una parte di spettatori disposti a seguirlo in questi suoi deliri.
Se si analizza complessivamente l’intreccio appare evidente che non siamo lontani dalle storie gotiche della Hammer e soprattutto di Bava (di cui, purtroppo, D’Amato riprende la predilezione per colonne sonore tardomantiche e poco efficaci); tuttavia il regista ha fatto tesoro della mutazione argentiana dell’horror, di taglio fortemente realistico e l’ha portata nell’ambito dell’horror gotico: nelle sequenze più truculente, dove nulla è lasciato all’immaginazione, gli effetti speciali sono altamente realistici come tutto l’insieme della narrazione. Insomma un incubo assai poco onirico.
Un altro punto in comune con il cinema misogino di Argento è nella scelta delle vititme: si tratta sempre di ragazze moderne, disinibite, sessualmente libere e “paritarie”. L’orco non ha neppure bisogno di andarle a cercare nelle loro abitazioni; le trova disponibili per strada o in discoteca. Anche questo aspetto illumina il cinema di D’Amato come una rivalsa estrema nei confronti del modernismo.
Il film riscosse un successo modesto; nel tempo però divenne un cult movie.

Nel suo secondo ed ultimo film, Un’ombra nell’ombra (ott 1979; 90 min.), tratto dal proprio romanzo omonimo (1974), Pier Carpi si imbarca in una penosa imitazione di Rosemary’s Baby e de L’esorcista in una pellicola tediosa, nonostante la presenza di un ottimo cast.
Carlotta (Anne Heywood) si è consacrata a Satana insieme ad alcune amiche (Irene Papas, Marisa Mell e Paola Tedesco); sua figlia Daria (Lara Wendel), figlia del demonio, scopre progressivamente i propri enormi poteri e produce danni intorno a sè. La madre cerca invano di fermarla. Nella beffarda conclusone, la giovanissima si avvia verso San Pietro.
La pellicola, ambientata in una Milano quasi invisibile, si sviluppa tra tempi morti, dialoghi ellittici e scenette spesso ridicole. Il regista appare indeciso tra l’horror (di fatto non ci sono effetti speciali, nè episodi realmente paurosi) e il semplice dramma (incentrato sui difficiili rapporti tra Daria e chi la circonda), approdando ad un film senza interesse. Nella  sequenza finale che mostra Daria girare su un taxi appare evidente il tentativo di copiare la celebre sequenza iniziale di Suspiria (Argento, 1977) così come il soundtrack di Cipriani si ispira a quello dei Goblin.

Alla fine degli anni settanta le forze conservatrici operano in modo radicale - accantonando e contraddicendo la visione rigorosamente cattolica del partito di maggioranza relativa -  al fine di combattere la cappa ideologica soprattutto marxista (ma per reazione anche fascista di folte schiere giovanili) che attanaglia il paese nei cosiddetti anni di piombo; esse prendono tre decisioni storiche: incoraggiare la mania del ballo, lanciata da La febbre del sabato sera, favorendo l’apertura di centinaia di discoteche; acconsentire alla nascita di un forte polo televisivo privato; permettere (sospendendo ogni controllo) che i cinema a luci rosse, sempre più numerosi, possano proiettare film realmente pornografici, privi del visto di censura. Di questa terza possibilità si avvale il pessimo Giallo a Venezia (dic. 1979; M. Landi), poliziesco pseudoargentiano ambientato nella città lagunare in cui si racconta, in modo approssimativo e svogliato, una serie di delitti a sfondo sessuale che fanno perno su una coppia viziosa (Leonida Fani, Gianni Dei). Le morti si susseguono, anche assai truculente, e il finale prevede un doppio colpevole.
In realtà il poliziesco risulta privo di interesse. In una Venezia fotografata in modo sciatto e triste, i personaggi recitano senza convinzione, le situazioni sono totalmente inverosimili (a cominciare dall’assurdo commissario, clone mal riuscito di Maurizio Merli) e l’unico motivo che regge il disastroso pasticcio è costituito dalle lunghe e audaci sequenze erotiche (ai confini con l’hardcore) che ha per protagonista la coppia sopracitata.
Il film fu un totale fiasco.
Notazioni identiche valgono per il successivo Patrick vive ancora (apr. 1980; 90 min.) in cui si immagina un Patrick (Gianni Dei) in coma il quale, dotato di potentissimi poteri telepatici, uccide tutti gli abitanti della elegante villa-clinica in cui risiede. La pellicola, il cui intreccio narrativo è oltremodo scadente, è un pretesto per sequenze erotiche in cui vengono esibite Carmen Russo, Mariangela Giordano e Anna Veneziano. Le immagini scioccanti (teste tagliate, fanciulle infilzate... ) non mancano, ma risultano inefficaci nel risibile contesto generale.

Tra i peggiori horror del periodo troviamo anche Thrauma (gen 1980, 75 min.) di Gianni Martucci il quale riunisce il consueto gruppetto di amici in una casale isolato e li fa amamzzare, uno dopo l’altro, da uno psicopatico ritardato che, quando non brandisce la mannaia, gioca col lego. Lo manovra il padrone di casa che vuole regolare una serie di conti aperti...
Pellicola caratterizzata da una mortale noia: dialoghi insensati, inquadrature ordinarie, tempi morti, omicidi prevedibili, recitazione generica. La figura del folle è vagamente ripresa dal recene Michael Myers di Halloween (Carpenter, 1978).
La pellicola, quasi amatoriale, circolò pochissimo.

testo scritto nel gen. 2016; ultimo aggiornamento: feb. 2018