Celestina P... R..., Una moglie americana, La ragazzola, Un amore, Amanti latini, Viaggio di nozze all’italiana, Spiaggia libera, Amore all’italiana, Una questione
d’onore, Le dolci signore, Io, io, io... e gli altri, La ragazza del bersagliere, Signore e signori, L’immorale, Ischia: operazione amore, Adulterio all’italiana, Fumo di Londra, Scusi lei è favorevole o contrario?, Un italiano
in America, Un mondo nuovo, 7 volte donna, Una Rosa per tutti, Come imparai ad amare le donne, Ti ho sposato per allegria, L’estate, La notte pazza del conigliaccio,
Assicurasi vergine, Don Giovanni in Sicilia, Il tigre, Il giardino delle delizie, Il padre di famiglia, Pronto... c’è una certa Giuliana per te, La cotta: in cammino verso un “mondo nuovo” (1965-67)
Lizzani, autore poco incline alla commedia, gira Celestina P... R...
(mar 1965; 100 min.), un’insolita pellicola incentrata sulle prodezze di una mezzana d’alto bordo. In una Milano nebbiosa e indaffarata, Celestina (Assia Noris) provvede alle divagazioni erotiche degli industriali lombardi.
C’è chi vuole una minorenne, chi è costretto ad aprire un’alcova dentro un grattacielo, c’è chi tradisce per noia e chi si atteggia ad esistenzialista alla ricerca della bella morte, c’è chi cerca di abortire in Svizzera e chi
simula un rapimento per frodare il fisco. Non potevano mancare, nel calderone, le “eccellenze” romane ovvero i rappresentanti dell’aborrito potere democristiano. Le vicende, tutte grottesche e prive di mordente, si avvicendano
nel vano tentativo di creare l’illusione di una narrazione dal ritmo vorticoso mentre siamo in presenza di un film ripetitivo e noioso. In particolare Lizzani si diverte a prendere di mira la recente tetralogia dell’alienazione
di Antonioni, mettendo in scena personaggi che potrebbero essere usciti da La notte o da Deserto rosso, riducendoli però a macchiette inconsistenti e virando il tutto in una sorta di satira abbastanza grossolana
(si veda l’episodio della borghese che vorrebbe uccidersi con l’amante occasionale). L’ambientazione si perde in interni generici e lascia poco spazio alla Milano d’epoca mentre il cast annovera attori di buon livello (Piero
Mattarella, Massimo Serato, Raffaella Carrà, Beba Loncar e Franco Nero alle prime armi). Se il film non possiede particolari qualità, esso tuttavia rimane estremamente significativo per inquadrare il tono del nostro cinema
politico. Lizzani arruola una diva degli anni quaranta (Assia Noris) per girare una commedia molto simile a quelle del ventennio. Se allora il bersaglio era l’aristocrazia nullafacente, composta da personaggi puerili e spesso
cinici, ora l’oggetto della critica è l’alta borghesia produttiva del nord, il naturale nemico di classe del Pci (al quale, come noto, Lizzani è iscritto). La descrizione prevede, in entrambi i casi, la rappresentazione di un
branco di idioti ovvero di una galleria di incapaci e sciocchi, gente avida e pronta a qualunque marchingegno per truffare il fisco o il consorte. Sembra anzi che questo genere di figure passi l’intera esistenza nella ricerca
di avventure sessuali clandestine e spesso illegali. Pur di denigrare con insistenza la classe produttiva italiana, che è pur sempre quella che ha mandato avanti il paese, Lizzani non esita a confezionare una pellicola
monocorde e stucchevole (sarà infatti un fiasco commerciale), decisamente agli antipodi della visione ad esempio di un Germi il quale, invece, guarda con indulgenza e perfino complicità a certe inclinazioni italiche. In una
fase in cui si era accantonato il film storico-politico (si è detto che quella recente stagione, iniziata intorno al 1958, tramonta nel 1964 per riprendere intorno al 1970), gli autori militanti si sfogano con questo tipo di
satira il cui messaggio implicito è che tanto prima questo insieme di goffe figure lascerà la conduzione delle cose nazionali, tanto meglio sarà.
Gian Luigi Polidoro, esperto documentarista, firma Una moglie americana
(lug. 1965; 105 min.), una pellicola in cui il soggetto è un mero pretesto per girare un documentario in terra Usa. Riccardo (Ugo Tognazzi), in viaggio per lavoro a New York, rimane colpito dal benessere americano e decide
di cercarsi una moglie statunitense qualunque per poter restare oltreoceano. Tenta con numerose candidate (Rhonda Fleming, Marina Vlady, Graziella Granata), giovani e meno giovani, tutte disponibili ad ascoltarlo, dargli
ospitalità, spesso anche ad avere rapporti sessuali, ma non a unirsi in matrimonio. Deluso, scandalizzato e sconcertato dalla differente realtà americana, Riccardo rientra in Italia. Polidoro fotografa con sensibilità e
fantasia il paesaggio americano: dai paesaggi urbani di New York e New Orleans, alle distese desolate del Texas petrolifero, al celebre sottopassaggio di Dallas dove morì Kennedy, alle rampe di lancio di Cape Canaveral il film
offre squarci variegati di una realtà spesso molto lontana dall’immaginario europeo, formatosi esclusivamente sui prodotti di esportazione hollywoodiani. Il paesaggio umano è altrettanto inquietante per un italiano
conservatore, cattolico e provinciale che arriva da una terra dove il matrimonio è indissolubile e la verginità ancora (in certe zone del paese) un valore. Le americane appaiono libere ed autonome, pronte a rapporti sessuali di
semplice divertimento (secondo un’ottica che Riccardo pensava solo maschile), spesso già pluridivorziate: insomma una realtà fatta di perenne movimento ed anche di solitudine, una solitudine in qualche modo resa plasticamente
ed esaltata dai grandi paesaggi americani nei quali la figura umana tende a perdersi. La visione odierna del film ci mostra una realtà sociale diventata, nei decenni successivi, ordinaria all’interno della quale una sorta di
personaggio arcaico (tra l’altro sempre in giacca e cravatta), con rigide e sorpassate idee morali, si muove in modo goffo; al contrario lo spettatore italiano medio dell’epoca osservava un italiano come lui alle prese con una
realtà il cui dinamismo amorale suonava alquanto minaccioso e destabilizzante (non a caso Riccardo esibisce più volte il proprio cattolicesimo come un fattore tradizionale rassicurante) e non poteva certo immaginare che quella
realtà americana sarebbe, in breve tempo, divenuta anche realtà italiana (snodo fondamentale saranno le leggi permissive su divorzio ed aborto) ed europea. L’immagine Usa inoltre mostra una sorta di paese dominato dalle donne e
dai loro capricci, una specie di blando matriarcato al quale l’unverso maschile si è assoggettato. Seppur ripetitivo e a tratti noiosetto, il film di Polidoro è di grande interesse, un documentario americano che è anche
un’inconsapevole anticipazione del futuro italiano. La magnifica colonna sonora di Nino Oliviero, dotata di un paio di motivi sinuosi e realmente ben disegnati, accompagna le numerose riprese paesaggistiche. C’è anche un valzer
triste (nel finale dell’episodio texano) che, con lievi modifiche, diverrà il motivo portante del soundtrack di Amici miei, firmato da Rustichelli (1975). Gli incassi furono modesti.
Orlandini dirige con il modesto La ragazzola (ago 1965; 90 min.) un evidente ricalco del ben altrimenti interessante La parmigiana (Pietrangeli, 1963).
Anzichè Parma c’è Reggio Emilia (e Carpi), al posto Catherine troviamo Agnes Spaak, invece di un seminarista c’è un piccolo industriale, mentre il fotografo Nino Manfredi si trasforma nel piazzista Giuliano Gemma. Lola
(Agnes Spaak), uscita dal riformatorio, si vede rifiutata dall’ex fidanzato Alberto (Angelo Infanti) che nel frattempo si è legato con la benestante Adriana (Margaret Lee). Lola, una ragazza qualunque priva di particolari
talenti, tenta svariati lavori ma in fondo tutti cercano da lei -
e dalla sua amica Ines (Gabriella Giorgelli) – solo un certo tipo di prestazioni, tranne il simpatico piazzista (Giuliano Gemma) con il quale alla fine Lola si lega stabilmente. La pellicola girata per le strade di Reggio e
di Carpi, di cui rende un suggestivo quadro d’epoca, possiede una tinta umoristica che, purtroppo a tratti, scivola nella farsa più becera (addirittura a torte in faccia). Ciononostante le vicende di questa ragazza libertina e
intelligente dipingono una società in trasformazione, ancora divisa tra vecchi valori impersonati da coloro che vedono in Lola una ragazza “perduta” da sfruttare e figure come quella del piazzista che, calati nella nuova
nascente morale libertaria, accettano di prenderla come propria compagna. Tra l’altro nelle sequenze che illustrano i vagabondaggi di Raul per le piazze dell’Emilia si coglie un certo legame con il mondo della Strada (1954) felliniana ed è interessante notare che Lola trovi udienza soprattutto tra lavoratori atipici, attività ai confini della frode, come quelle di questo venditore di strada e del presuto mago Uranius (Renato De Simone) per il quale, in un certo epriodo, la giovane lavora come segretaria: è soprattutto in questo sottobosco popolare che la nuova visione libertaria della figura femminile trova ascolto in questa prima fase.
Il film fu un fiasco commerciale.
Ritroviamo Agnes Spaak in Un amore (ago 1965; 90 min.) di Gianni Vernuccio, tratto dall’omonimo romanzo (1963) di Dino Buzzati. Ambientato in una suggestiva
Milano il film invernale racconta le peripezie del ricco avvocato Dorigo (Rossano Brazzi) che si innamora di Laide, una giovanissima prostituta (Agnes Spaak), fino a diventarne geloso. La situazione è raccontata con
ineccepibile realismo e interpretata con convinzione, nonchè accompagnata da malinconici temi musicali di Gaslini; in un crescendo di passione, ovviamente non corrisposta, l’uomo precipita in un vortice di follia dal quale si
risveglia solo allorchè Laide, giustamente, lo manda al diavolo ricordandogli che con le sue cinquantamila lire settimanali non ha comprato la sua anima ma solo qualche pomeriggio di divertimento e che, nel caso avesse voluto
realmente di più, avebbe dovuto sposarla. E’ infatti questo il punto debole del racconto: come possa quest’uomo pretendere fedeltà da una mantenuta, cui ha semplicemente approntato un’abitazione (senza regalargliela) e cui
passa un mensile, è la componente illogica del film (nel romanzo il finale è differente e più credibile). Se invece l’oggetto del racconto era una passione morbosa per la giovinezza, una passione ai confini della pedofilia,
bisognava allora addentrarsi in un’area di parole e di fatti più audaci e bunueliani. Superato questo non secondario dettaglio, il film è realmente ben girato, capace di ricreare un universo classista assai preciso,
rappresentato dalle abitazioni dei signori, dai loro incontri e dai loro passatempi (l’immancabile golf), dalle stamberghe delle prostitute e dagli appartamenti piccolo borghesi delle mezzane (l’ottima Marisa Merlini). La
pellicola ci racconta un’Italia ancora patriarcale, con figure femminili, disinibite e anche colte,
tutte pronte ad accontentare il desiderio maschile in cambio innanzitutto di un matrimonio oppure per del denaro. In questa Milano del 1965, ordinaria e un po’ grigia, il ’68 e e sue rivendicazioni sembrano ancora lontanissimi.
Il film fu un totale fiasco.
Giunto al proprio trentesimo e penultimo lungometraggio, il veterano Mario Costa gira il modesto film a episodi Amanti latini
(ago 1965; 90 min.) in cui sono però ravvisabili numerose suggestioni intorno al radicale cambiamento di costumi in atto. In generale la figura maschile ne esce ridimensionata, quando non “martoriata”, da un universo femminile abile nello sfruttare i vantaggi che la nuova situazione legislativa offre. Il regista e gli sceneggiatori Ugo Liberatore, Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi sembrano riflettere sull’evidente declino della figura maschile, non senza centrare più di una volta il bersaglio; al contrario la critica militante parla con evidente disprezzo di questa pellicola (l’Unità parla di “squallido sottoprodotto” e “tetra noia”; altri parlano di “anemica brodaglia”), critica il cui amore incondizionato per le “divinità” femminili (sorta di moderno neopaganesimo) è certamente infastidita dalle notazione tese a denunciare il crescente potere femminile.
Il cuore del discorso è nell’ultimo episodio, appunto Gli amanti latini – il più valido insieme a quello di Totò - affidato alla verve di Franco e Ciccio. La coppia, in vacanza a Taormina, cade (a turno) nella trappola di una furba tedesca (Tania Béryl) che prima li attira in stanza, si fa pagare una cifra spropositata e poi, senza concedere loro alcunché, li minaccia di andarsene immediatamente altrimenti li accuserà di violenza sessuale. Ciccio, scoraggiato, abbandona la stanza inveendo contro la senatrice Merlin (socialista) e la sua abolizione delle case chiuse. Di fatto quella legge sancì una svolta radicale nei costumi in quanto obbligò gli uomini a sottostare ai mille ricatti femminili al fine di soddisfare il proprio desiderio sessuale.
Il primo episodio, Il conquistatore, ambientato anch’esso tra spiagge e camere d’albergo, è simile all’ultimo ma privo di mordente: un turista in cerca di un’avventura sessuale, viene attirato in camera di una bella
straniera che poi gli proprina la cugina racchia. Sebbene banale, la vicenda mostra comunque donne spregiudicate nell’utilizzare il proprio fascino. Una truffa, assai più inquietante, è quella messa in atto ne L’irreparabile,
da Lucia (Jolanda Modio), in accordo con la sua famiglia, nei confronti del barone Rosario (Aldo Puglisi). Quest’ultimo rapisce la fanciulla minorenne (allora la maggiore età scattava a ventun anni...) per sedurla e sposarla,
mettendo la famiglia di fronte al fatto compiuto; in realtà è Lucia stessa a creare questa situazione poichè non è illibata. In tal modo l’uomo, che vorrebbe rifiutarla, si trova ora sotto ricatto, davanti a un commissario: o
la sposa, o finisce in per sequestro di minore. Dovrà accettare. L’episodio mostra una società ancora attenta ai valori della tradizione (la verginità) che, però, in questo caso, si rivoltano contro agli interessi maschili
poiché abilmente utilizzati da una giovane disonesta, “moderna” e attenta al proprio tornaconto (ovvero un matrimonio con un benestante addirittura aristocratico). Meno interessanti Il telefono consolatore dove un marito imbestialito (Aldo Giuffrè) poiché non riesce a convincere la timorosa moglie (Gara Granada) a consumare il matrimonio e l’episodio Amore
e morte dove un sempre valido Totò riesce a farsi concedere una lunga vacanza e una forte somma dai colleghi d’ufficio facendosi credere in fin di vita. E’ un piacevole raccontino sulle solite truffe napoletane dello “svogliato” Totò, nemico accanito del lavoro, raccontino che rivela poco del tempo presente; avrebbe potuto far parte anche di una pellicola degli anni cinquanta. L’unico gustoso riferimento è nella scena con Annie Gorassini ricoperta con i biglietti da diecimila, frutto della truffa: Totà, facendo riferimento al recente La noia (Damiani), dove compare una scena identica (con Catherine Spaak), ironizza sui giovani d’oggi che si annoiano, pur avendo a disposizione denaro e una bellissima donna nuda. “Questa gioventù moderna; che schifo!“ dice Totò e, in qualche modo, lancia uno strale avvelenato contro quella cultura cervellotica e progressista (non a caso La noia è un romanzo di Moravia prima che un film di Damiani) che si arrovella intorno alla presunta crisi di una borghesia inetta e in preda ad una incomprensibile alienazione (in attesa della rivoluzione guidata dall’umanitarismo socialista... ), pur avendo a disposizione ogni forma di benessere.
Nel film di Costa, insomma, sono i valori tradizionali degli anni quaranta e cinquanta a dar voce ad una sotterranea protesta contro un mondo in marcia verso il matriarcato e il disordine.
Il film riscuote un discreto successo.
Mario Amendola firma con Viaggio di nozze all’italiana
(gen 1966; circa 90 min.) una delle ultime commedie “vacanziere” organizzate in una serie di episodi intrecciati nel medesimo luogo di villeggiatura. Quattro coppie in viaggio di nozze alloggiano in un elegante hotel di Sorrento: tutte hanno seri problemi. Una è composta da due giovani squattrinati (Marina Solinas) che hanno vinto la vacanza ad un gioco a quiz; un’altra da un piacente impiegato (Toni Ucci) che ha sposato una donna brutta, ricca e scema (Anna Maestri) e che continua a immaginare differenti modalità per ammazzarla; la terza invece si compone di un aristocratico don Giovanni (Tony Russell) che, per motivi ignoti, si rifiuta di consumare il matrimonio con la bella moglie (Conchita Velasco) mentre corteggia le vicine di stanza; la quarta, la più spassosa, è composta da due ladri (Ferruccio Amendola e Renzo Montagnani vestito da donna, costantemente “insidiata” dal poliziotto dell’albergo alias Elio Crovetto) che ha organizzato un colpo perfetto al casinò dell’hotel. Le storie evolvono verso scioglimenti realmente inattesi: il furto riesce ma la refurtiva finisce nelle mani della coppia squattrinata che fruirà di una lauta ricompensa; la donna brutta ammazza realmente il bel marito, dopo aver compreso che era stata sposata solo per soldi; il don Giovanni “seduce” involontariamente (al buio, di notte, pensando si trattasse della vicina) sua moglie e se ne innamora mentre il poliziotto dell’albergo parte con il ladro travestito per una differente “luna di miele”: nell’esilarante finale, clonato dal celebre A
qualcuno piace caldo (1959), il ladro svela la propria identità maschile e, a sorpresa, il poliziotto si rivela essere una donna... Film di mero intrattenimento, il lavoro di Amendola appare fresco e indovinato. In
particolare gli episodi del don Giovanni e dei due ladri offrono momenti di reale divertimento grazie alle convincenti interpretazione degli attori. In particolare il giovane Montagnani è insuperabile nella parte del travestito
insidiato, smarrito ma anche lusingato dalle attenzioni del goffo poliziotto. In questo film, dal taglio conservatore, il matrimonio rimane un’istituzione centrale, snodo esistenziale fondamentale e definitvo con la quale fare
i conti il cui senso ultimo rimane l’accesso alla sfera sessuale (soprattutto per l’universo femminile, da cui le vive proteste della sposa “trascurata”) e la procreazione (si noti anche il disprezzo con cui si parla del “terzo
sesso”): l’idea di non consumarlo, ad esempio, genera scandalo, richieste di divorzio (consentito in quei casi) e reali attacchi di panico poichè la vittima apparirà, in seguito, come non del tutto illibata e dunque
parzialemnte “rovinata” in un’epoca in cui l’universo maschile teneva ancora alla moglie vergine. Il matrimonio è quindi la porta di accesso ad una sessualità libera e continuativa con il proprio partner: è questo che si
aspettano, con ansia, numerosi personaggi del racconto e segna, in definitiva, il passaggio definitivo dall’era giovanile a quella della maturità. Inoltre con esso si può anche diventare ricchi allorchè si decida di rinunciare
alla propria libertà in cambio dell’agiatezza offerta da un conuge. Tutto ciò emerge con chiarezza in questo che è uno degli ultimi film a trattare il matrimonio con questa sottintesa serietà, istituzione allora ancora
sostanzialmente indissolubile o comunque non ripetibile a oltranza (esisteva la separazione legale); di lì a poco il divorzio, una sessualità prematrimonaile libera e l’uso dei contraccettivi di massa traghetteranno
l’Italia in una dimensione del tutto differente. In tal senso, pur non trattandosi certo di un capolavoro, Viaggio di nozze all’italiana (il titolo allude a Divorzio all’italiana, soprattutto per via dell’episodio
dei coniugi con tendenze omicide) è un reperto d’epoca di un certo interesse.
Marino Girolami gira, con Spiaggia libera (gen.1966; 90 min.), una pellicola simile a quella di Amendola e soprattuttto al film fondatore del genere ovvero Una domenica d’agosto (Emmer, 1950). La pellicola racconta una domenica al mare ed è organizzata in tre distinti episodi.
Nel primo una coppia di mariti alquanto scemi (Aroldo Tieri e Riccardo Garrone) per errore invitano al mare sia le mogli, sia le amanti (entrambe si chiamano Anna e Maria; tra esse Sandra Mondaini); devono poi barcamenarsi
tra le une e le altre, andando incontro ad infiniti equivoci che risultano, però, assai poco divertenti. L’errore è nella sceneggiatura che mette in scena una situazione troppo assurda per risultare divertente. Nel
secondo il carabiniere Cuccurallo (Aldo Giuffrè), come il Don Josè della Carmen, si lascia intontire da una bella detenuta (Dominique Boschero) e dai suoi complici (tra cui Francesco Mulè) i quali tentano di scappare via
mare; dopo una faticosa ricerca, sulla spiaggia in questione, il carabienire riesce a riacciuffare la donna. Nel terzo un posato ingegnere (Alberto Lupo) non cade nella rete tesagli da una lolita (la cantante Renata Pacini) che
vorrebbe sedurlo per prendersi gioco di lui davanti ai suoi giovani amici. Il secondo e il terzo episodio sono piacevoli grazie anche all’ottima prova di tutti gli attori. Lo spaccato sociale che emerge è questa volta poco
significativo trattandosi di storie troppo inverosimili: quello dei mariti con le amanti è una scenetta adatta solo ai palcoscenici della rivista mentre il numero della ladra seduttrice è una storiella esile oltre che
inverosimile, girata tuttavia in modo brioso; la figura del carabiniere coscienzioso e spaventato (per la fuga della detenuta) possiede tuttavia una propria concreta e seria umanità. La storiella con Alberto Lupo è la più
interessante poichè mette in scena, in modo esplicito, il confronto tra due generazioni: quella che ha fatto la guerra sembra non lasciarsi troppo impressionare dalle questioni sessuali in generale e, in particolare, dalle
mossette di qualche giovinetta che vuole atteggiarsi a donna fatale anzitempo. Al contrario la generazione dei Beatles sembra voler puntare tutte le proprie carte sull’attrazione fisica, fondando una nuova etica materialista e
capricciosa, governata spesso dal semplice desiderio sessuale, etica del disordine nella quale resterà impigliata e prigioniera. E’ un atteggiamento superficiale che viene sanzionato dall’imperturbabile ingegnere il quale, in
qualche modo, esprime una visione conservatrice - quella di Girolami - e ricorda agli spettatori che queste ninfette, montate dai massmedia (l’universo delle canzonette sentimentali), sono realtà artificiose da cui è meglio tenersi alla larga.
Il film riscosse un successo appena discreto.
Steno firma con Amore all’italiana (gen 1966; 110 min.) un mediocre tentativo di rifare I mostri (Risi,1963). Al posto di Gassman e Tognazzi ci sono Walter Chiari e Raimondo Vianello cui si aggiunge Paolo Panelli.
I dieci raccontini sono tutti fiacchi, prevedibili ed assai poco divertenti; alcuni paiono direttamente ispirati ad altrettanti episodi del film di Risi come quello del tifoso che dà del cornuto all’arbitro (che si scopre
essere l’amante di sua moglie) e quello del genitore (P. Panelli) che cerca di suggerire (con una radiolina) al figlio le risposte all’esame orale della licenza di quinta elementare (si veda l’episodio di Tognazzi padre che
“educa” il figlio mentre lo accompagan a scuola). Ci sono poi i consueti raccontini balneari a base di seduzioni improbabili e gelosie eccessive, una guerra all’ultimo sangue tra eredi di una ricca fortuna nonchè una parodia
del recente Goldfinger. Insomma un passo falso di un veterano della commedia italiana. Gli incassi furono modesti.
Luigi Zampa firma con Una questione d’onore (gen.1966; 105 min.) uno dei suoi film peggiori. Vi si narrano le vicende del povero Efisio (Ugo Tognazzi), stretto
nella morsa della faida tra i Sanna e i Porcu, in un paesino immaginario, situato non lontano da Nuoro. Il regista sceglie il tono della farsa e offre il consueto quadro caricaturale dei costumi sardi, già visto
nell’altrettanto mediocre Una vedetta sarda (Mattoli, 1951; con Walter Chiari al posto di Tognazzi; vedi). In entrambi i casi si tratta di film stucchevoli, sostanzialmente privi di una vera sceneggiatura in cui si
ripetono a sazietà i siparietti derisori nei confronti di una società patriarcale che si presume ottusa e violenta ed in cui si immagina che due famiglie si facciano una guerra sanguinosa e spietata (da una parte c’è Bernard
Blier, dall’altra Franco Fabrizi). Le donne invece rimangono chiuse in casa, prive di qualunque influenza sui fatti della vita sociale, cosicchè il nostro eroe, solo perchè sospettato di avere amoreggiato con Domenicangela
(Nicoletta Machiavelli), è obbligato a sposarla. Nel finale, per una complicata sequenza di avvenimenti, Efisio viene considerato dalla comunità un cornuto ed egli, pur essendo consapevole dell’innocenza di Domenicangela,
finisce con l’ammazzarla, solo per riottenere il rispetto degli abitanti del paesino. Come si può notare il film del romano Zampa si muove con pesantezza intorno a questi argomenti e finisce con il rappresentare la società
sarda come popolata da un branco di deficienti. Questo genere di farse offensive e ben poco divertenti tradivano il risentimento di quel cinema progressista ed “illuminato” che da due decenni propagandava le idee
dell’ugualitarismo sociale e del modernismo, scontrandosi, nel caso delle società meridionali, contro un muro di totale incomprensione in quanto queste ultime rimanevano solidamente ancorate alla loro visione patriarcale e
familistica. In particolare in Sardegna la DC aveva raccolto il 43% (rispetto al 38% del dato nazionale) dei consensi alle elezioni regionali del 1965 contro il 20% (il dato nazionale era al 25%) del Pci e il 7% del Psi. Le
osservazioni fatte a proposito del film di Mattoli del 1951 appaiono ancora valide per il film del 1966: parlavo allora di “feroce caricatura delle antiche usanze sarde (al punto che il regista ha voluto iniziare con una
dichiarazione ipocrita, nella quale afferma che quella ritratta non è la vera Sardegna... ), non solo per ciò che concerne le violente faide, ma anche in riferimento al costume di tenere le donne soggiogate all’autorità
maschile... La società patriarcale del meridione è insomma il consueto facile bersaglio del modernismo cinematografico... “. Va rilevato che Una questione d’onore è talmente brutto che da esso finisce col prendere le
distanze anche la critica marxista: la rivista “Cinema nuovo” parla di “grossolana speculazione farsesca”, tuttavia “giusta in linea di principio”...
Va infine ricordato che, nonostante tutto, il film riscosse un grosso successo commerciale. Decisamente migliore, anche se certamente non riuscito, appare Le dolci signore
(lug 1967; 95 min), pellicola imperniata su quattro episodi intrecciati tra loro in cui, fin dal titolo, Zampa (insieme agli sceneggiatori Ruggero Maccari ed Ettore Scola) sembra volersi superficialmente riferire al recente, fortunato Signore e signori di Germi.
La pellicola narra le disavventure erotiche di quattro amiche, sposate ed annoiate, ognuna delle quali cerca, a proprio modo, diversivi e scappatelle per riempire il vuoto delle proprie giornate. Luisa (Virna Lisi) tradisce
il marito con chiunque capiti, viene ricattata ma sfugge alla punizione poichè anche il consorte la cornifica. Norma (Ursula Andress) è ossessionata da incubi in cui vede omoni orrendi e nudi; per uscirne decide di concedersi
proprio a quel tipo di uomini (Mario Adorf). Marisa Mell si scopre ottima spogliarellista ed il marito (Frank Wolff), dopo qualche titubanza, decide di rendere proficue le qualità della moglie, procurandogli importanti ingaggi.
Infine Esmeralda (Claudine Auger), viste le gesta delle amiche, progetta di cedere a un insistente corteggiatore. La commedia, ambientata nell’alta società, intreccia elementi erotici ed apertamente comici, esalta le libertà
sessuali della donna e riduce i mariti ad una sequela di solenni idioti. Si noti che nessuna delle quattro protagoniste è impegnata con dei figli e con una casa da gestire e che le loro problematiche contemplano esclusivamente
la sfera sessuale. In tal senso Zampa, come era prevedibile, si situa agli antipodi del conservatorismo vagamento misogino di Germi (vedi sotto) per elevare il consueto inno alle fantasie libertarie dell’universo femminile nel
quale l’uomo sembra avere, come unica funzione, quella di trattenere e reprimere la dimensione “affettiva” delle proprie consorti. Le dolci signore è dunque prevedibile nei banali contenuti modernisti, giocati sulla scontata ammirazione per la figura femminile e sul tentativo evidente di rappresentare un incipiente matriarcato; risulta invece moderatamente divertente nelle situazioni create: se l’episodio con Virna Lisi è quanto mai fiacco (anche se vi figurano Vittorio Caprioli e Lando Buzzanca), più piacevole e stravagante appare quello degli incubi erotici di Ursula Andress, in cui recita anche un sarcastico Luciano Salce. Gli altri due sono meri reimpitivi: in uno il protagonsita, esponendo il corpo della moglie per denaro, passa dal ruolo di consorte (ovvero di capofamiglia) a quello di semplice socio d’affari in posizione subalterna; nell’altro è addirittura lo sciocco marito (ma il regista sembra adombrare nell’uomo qualche recondita perversione) a spingere la moglie tra le braccia del corteggiatore.
Il film riscosse un notevole successo commerciale.
Blasetti firma con Io, io, io... e gli altri (feb.1966; 105 min.) una sorta di film-testamento (seguiranno altre due pellicole meno personali) che si colloca
nel solco de La dolce vita (1960) e di Otto e mezzo (1963; pellicola di cui il regista citra un frammento del carnevalesco finale). Il giornalista Sandro (un ottimo Walter Chiari), non troppo distante per
carattere e sembianze dal Marcello de La dolce vita e come lui evidente alter-ego dell’autore, inanella una serie di riflessioni sulla natura umana e, più precisamente sul carattere selvaggiamente egoistico dell’esistenza. Seguendo riflessioni tipiche della filosofia pragmatico-utilitaristica americana o, se si preferisce, facendo riferimento alla “gaia scienza” nietzschana, Sandro si diverte a togliere le maschere a tutti coloro che lo circondano. Sebbene alcuni posseggano un carattere più evidentemente individualistico, mentre altri si atteggiano ad altruisti e benefattori, in ogni caso ciascuno trova il proprio soddisfacimento “egoistico” nel ruolo che va interpretando. La moglie di Sandro è un’arpia gentile (una bellissima Lollobrigida) che finge massimo interesse per il marito mentre lo tiene alla catena grazie alla propria carica seduttiva ed ottiene da lui ogni possibile regalia. Al’opposto si colloca Silvia (Silvana Mangano), diva controvoglia (un po’ come la Ekberg de La dole vita)
la quale confessa a Sandro che avrebbe preferito essere semplicemente sua moglie anzichè divenire un oggetto del culto pubblico. In questo caso la sua vanità è stata soddisfatta ma ad un prezzo molto alto in termini di stress e
solitudine. C’è poi l’amico Peppino (Mastroianni, simbolo felliniano che non poteva mancare in questa pellicola dove sfilano decine di attori importanti dell’epoca) al quale Blasetti si diverte ad affibbiare un ruolo antitetico
a quello che abitualmente rivestiva nelle opere felliniane (d’altronde c’è già Walter Chiari che imita quel tipo di personaggi cinici ed insoddisfatti), facendone un illuso alla riverca del “Sacro Graal” inteso come l’amore
perfetto ed eterno ossia proprio ciò in cui Blasetti sembra non credere in modo radicale. Peppino è l’ingenuo che presta fede alla propaganda mediatica ed alle favole belle intorno alla felicità che scaturisce da una perfetta
armonia di coppia. Intorno a Sandro c’è un piccolo esercito di ipocriti “mascherati”, dal senatore democristiano religiosissimo (Vittorio Caprioli), al collega scrittore (Vittorio de Sica) che finge di disdegnare i premi
letterari e che è protagonista di piccole bassezze quotidiane (riceve premi dalle gerarchie ecclesiastiche, si atteggia a benefattore mentre, in realtà, sfrutta meschinamente i problemi altrui) come pure qualche figura
simpaticamente oltraggiosa come l’addetto del vagone letto (Nino Manfredi) che ama le riviste erotiche, lo dichiara a mezzo mondo e così facendo aggredisce il perbenismo di chi le disprezza in pubblico e ne fa uso in privato.
Il quadro complessivo che Blasetti propone, attingendo a ricordi personali ed a storie note (la Mangano attrice controvoglia era, all’epoca, un fatto molto noto), è decisamente sconfortante e per nulla allineato alle
prevalenti filosofie solidaristche di marca socialcomunista. In tal senso il film riprende ed approfondisce la visione felliniana di un orizzonte svuotato da valori forti di riferimento, visione che aveva attraversato, in modo
esplosivo, tutta la sua produzione degli anni cinquanta. Questa concezione di una esistenza “dolcemente” inutile e dominata dalle passoni personali diventa l’argomento centrale di questo film-saggio in cui la miriade di storie
formano un caleidoscopio dal quale emerge con forza la reale durezza esistenziale che si nasconde dietro a tutte le pirandelliane maschere, anche a quelle dell’altruismo più smaccato (si veda la figura di De Sica). Mentre
Fellini raccontava storie compiute dalle quale emergeva questa visione di un infinito senza senso, Blasetti si concentra sulla parte dottrinaria, la rende esplicita ed utilizza personaggi e vicende come momenti di illustrazione
e verifica delle suddette tesi. In tal senso il film possiede un proprio carattere semisperimentale che lo rende vicino a certe esperienze delle nouvelle vague (si pensi a pellicole come Hiroshima mon amour o al
cinema “saggistico” di Godard). Proponendo un testo così poco spettacolare, a dispetto della presenza di così tanti divi, Blasetti sa di avventurarsi per un cammino impervio e pertanto il modesto successo della pellicola, che
passò quasi inosservata e che anche oggi è assai poco nota, era abbastanza scontato. Blasetti, insomma, decide di parlar chiaro, indaga sulla propria esistenza personale e professionale e giunge a mettere a fuoco una realtà
radicalmente estranea agli ideali socialisti, allora di gran moda (siamo negli anni del centrosinistra), i quali erano un tema centrale degli anni sessanta, sia nelle realtà della lotta politica, sia nel contenuto dei
principali opere filmiche ed artistiche in generale. Il socialismo/solidarismo è solo una maschera con cui un gruppo sociale coeso - laico e cattolico - riesce a occupare posti di potere ed a ottenere benefici di ogni genere.
Non può stupire che, anche all’epoca, la critica miltiante guardò con sospetto a questa fatica del vecchio Blasetti, un autore, tra l’altro, che non poteva neppure vantare un curriculum “specchiato”,
essendo stato uno dei simboli del cinema fascista. L’anno seguente Blasett mette in scena, senza troppa convinzione, l’omonima commedia (1962) di Edoardo Anton, La ragazza del bersagliere
(mar 1967; 105 min.). Vi si raccontano le peripezie dell’emiliana Anita (Graziella Granata) la quale, pur potendo contare su numerosi corteggiatori (tra cui Renato Salvatori e Rossano Brazzi), si innamora perdutamente del bersagliere napoletano Salvatore Caputo (Antonio Casagrande). La coppia sta per sposarsi quando l’esuberante soldato annega per una congestione. Nella seconda parte il defunto, in veste di simpatico fantasma, torna periodicamente a trovare l’amante e le impedisce di sostituirlo. Nel finale Anita decide addirittura di suicidarsi per potersi ricongiungere con il bersagliere.
La storiella è stiracchiata e poteva bastare giusto per un mediometraggio. La vicenda appare tirata per le lunghe sia nella fase dell’innamoramento, sia in quella delle apparizioni del trapassato. Abbondano i dialoghi e gli
interni, trattandosi di una commedia teatrale, la qual cosa aggiunge una certa pesantezza all’insieme mentre l’inserimento di figure di contorno affidate a ottimi caratteristi (Leopoldo Trieste, Vittorio Caprioli, Franca
Valeri) non riesce a far decollare il film. Ciò che invece risalta in modo incisivo ed insolito è la tematica erotica assai esplicita. Una sensuale Graziella Granata dà corpo al desiderio femminile secondo modalità insolite nel
coevo cinema italiano: l’amore per il trapassato è un amore anzitutto erotico, come pure la mancanza di un partner rende ulteriormente insopportabile l’assenza del defunto bersagliere. Una carnalità esplicita e impudica
attraversa il racconto, divenendo quasi l’argomento unico dell’intera narrazione. La rivoluzione sessuale è alle porte (si veda quanto scritto per Vedo nudo et similia) e Blasetti, che già aveva inaugurato il filone dei mondo movies con Europa di notte (1958), con questa commedia anticipa un certo cinema erotico di fine decennio. Il film si riduce ad essere un balletto neopagano intorno alle grazie di Anita, donna emancipata e insofferente ad usanze e convenzioni. La ricerca del piacere è l’unica bussola dell’epoca nuova, nel solco della rivoluzione de La dolce vita.
Il successo fu discreto.
Con Signore e signori (feb 1966; 110 min,.) Germi conlcude la propria strepitosa trilogia (Divorzio all’italiana; Sedotta e abbandonata), sceneggiata con
Luciano Vincenzoni, relativa ai costumi sessuali di un’Italia alle soglie della sua piccola rivoluzione antropologica (il ’68, l’introduzione del divorzio... ). In una godereccia Treviso il regista racconta le gesta di un
gruppo di maturi vitelloni (non poteva mancare Franco Fabrizi), borghesi benestanti i quali sono sempre a caccia di nuove, facili prede femminili, rimanendo però saldamente all’interno dei confini matrimoniali. Nel primo
esilarante episodio Gasparini (Alberto Lionello) si finge impotente con l’amico medico (Gigi Ballista) al fine di riuscire a rimanere solo con la bella moglie (Beba Loncar) di quest’ultimo. Quando l’amico si accorge del
raggiro ormai la frittata è fatta. Nel secondo episodio - volutamente “dissonante” con quanto precede e segue - il protagonista è l’integerrimo impiegato bancario Osvaldo (Gastone Moschin), estraneo alla cerchia dei vitelloni,
che, esasperato da una moglie tirannica e logorroica (Nora Ricci), si innamora della cassiera Milena (Virna Lisi). La storia d’amore viene osteggiata dall’intera città (tra l’altro al cassiera è una ex prostituta): non solo la
moglie, ma gerarchie ecclesiatiche, dirigenti bancari e influenti mogli del consesso cittadino finiscono col far recedere l’uomo dai suoi propositi di libertà e di abbandono del tetto coniugale. Nel terzo episodio una sedicenne
(Parizia Valturri) viene sedotta a turno dall’intero “branco” di vitelloni, ignari dell’età della fanciulla. Finiscono tutti in tribunale, senonchè la ferrea moglie (Olga Villi) di Gasparini riesce a corrompre (con cinque
milioni e un piccolo “sacrificio” personale) il contadino (Carlo Bagni), padre della giovane e a far assolvere il marito e gli amici. Signore e signori mostra un’italia provinciale, ancorata alle parole d’ordine Dio patria e famiglia, anche se si tratta di ideali di facciata. Le libertà sessuali sono ampiamente tollerate purchè non intacchino la superficie perbenista del tessuto sociale. Germi descrive con divertito distacco questi suoi ipocriti cacciatori di donne: il suo sguardo è indulgente o addirittura complice, al punto che si può tranqillamente considerare questi personaggi semifelliniani come gli anticipatori della banda di Amici
miei (Monicelli, 1975, su soggetto di Germi). Come capiterà dieci anni dopo, Gastone Moschin è l’ingenuo del gruppo, quello che si innamora sul serio e che prende decisioni “rivoluzionarie” nella sostanza ma anche assai dannose per la sua vita quotidiana. Gli altri lo guardano con sufficienza ed anzi lo deridono apertamente. L’episodio di Moschin è, tra l’altro, un nuovo invito del regista genovese ad introdurre il divorzio nella società italiana (un argomento ricorrente in moltissimi suoi film, da Matrimonio all’italiana a Il bigamo, fino ad Alfredo Alfredo);
e, ciononostante, il “ribelle” che vuole abbandonare moglie e figli per una ex prostituta appare, in definitiva, un fesso. Pertanto la spinta “progressista” del film appare abbstanza blanda e discutibile: i “vitelloni”
trevigiani, per quando ipocriti, sembrano comunque dei giocherelloni felici e contenti dell’ordine esistente, poco preoccupati del cambiamento di clima politico e alquanto scettici intorno alle novità del centrosinistra
di Moro e Fanfani. Tra l’altro la pellicola conferma l’esistenza di un’Italia saldamente divisa in classi sociali e il terzo episodio si incarica di illustrare la notevole differenza culturale che separa la colta
borghesia cittadina dai rurali di compagna. Il film ottenne uno strepitoso successo. Il successivo film di Germi, L’immorale
(mar 1967; 90 min.), cambia completamente registro, evita il film corale e il suo vivace umorismo per donarci il ritratto di un personaggio insolito, romantico ed utopista, un ritratto la cui inverosimiglianza è spinta talmente avanti da finire col far intendere l’intero film come una divagazione onirica.
Il violinista Sergio Masini (un ottimo Ugo Tognazzi), musicista di successo e pieno di impegni lavorativi, non si è accontentato di una famiglia sola; ama talmente le donne che, una decina di anni dopo avere sposato Giulia
(Renè Longarini) ha deciso di unirsi anche con Adele (Maria Grazia Garmassi), cantante “poco intonata” e stanca del proprio lavoro. Dalla moglie ufficiale ha avuto tre figli e da quella segreta altri due. Non soddisfato della
propria situazione oltremdo faticosa,
si innamora perdutamente di Marisa, una giovinetta (Stefania Sandrelli) che fa vivere in un albergo e che va a trovare regolarmente come si trattasse di una terza moglie. Quest’ultima fatica a comprendere la mentalità dell’amato (anzi neppure sa che egli possiede già non una ma due famiglie) e, in ogni caso, finisce con l’accettare la situazione, anche perchè è incinta. Sergio è sfinito, si confida lungamente con un sacerdote (Gigi Ballista) che, sconvolto dall’anomalia del caso (Sergio non ha delle amanti per sfogare semplici capricci sessuali,possiede proprio un piccolo harem cui è sinceramente devoto) ovviamente gli consiglia di troncare le due storie abusive. Il protagonista, resosi conto degli inutili consigli del prete, lo abbandona e mentre attende di poter parlare in teleselezione con una delle compagne, muore di infarto.
Germi mette in scena l’uomo che vive per le donne, un forzato del matrimonio che sinceramente ama tutti e si spende generosamente per il benessere altrui, fino a morirne. La spinta sessuale è un fatto quasi secondario in
questa visione idilliaca e anzi perfino un fastidio sul lungo periodo, quando l’uomo dovrà continuare a soddisfare più amanti (così come dovrà spesso pranzare e cenare più di una volta nell’arco della stessa giornata, per far
contente le “mogli”. E’ curioso che, tre anni dopo, in Venga a prendere il caffè da noi (da La spartizione, 1964, di Piero Chiara, testo che ptorebbe avere parzialmente ispirato L’immorale), sempre
Tognazzi interpreterà un ruolo simile, giocato però esclusivamente sul tasto del soddisfacimento sessuale e in un registro soprattutto umoristico. La pellicola di Germi, sorta di inno alla poligamia che anticipa le libertà
sessuali che esploderanno anche in italia soprattutto dopo il ’68, è infatti una riflessione sull’Eros e la civiltà (titolo di un celebre testo di Marcuse) ovvero sulla spinta ideale che porta alcuni tipi umani a volersi legare
con più persone possibili, a procreare con generosità e a circondarsi di un contesto amoroso ed armonico. Nella pellicola, in modo del tutto artificioso (e pertanto onirico) mancano veri momenti drammatici, i bisticci sono
ridotti a poca cosa e anche le figure femminili si mostrano oltremodo accomodanti, come fossero non persone reali ma emanazioni dell’inconscio del protagonista. Si noti, inoltre, che la vicenda è completamente calata in un
ambiente musicale: il protagonista suona il violino e dirige, la seconda “moglie” è una cantante, la terza è un’arpista mentre l’amico Colasanti (Sergio Fincato), che aiuta Sergio oltre l’immaginabile (esilarante la trovata dei
due battesimi del figliolo dell’amico, per accontentare le due mogli), è anch’egli un musicista; solo la prima moglie - l’unica a non sapere della doppia vita del marito - è estranea all’universo sonoro. Così il film diviene
anche una meditazione sull’arte musicale, la più inclusiva ed universale tra le arti, quella che meglio di tutte riesce ad identificarsi con l’Eros ed a propugnare automaticamente, nel proprio diffondersi tra anime
simili, l’idea di universalità armonica e amorosa, non lontana da quell’ideale della comune hippy (anche se nel nostro caso centrata sul modello patriarcale e perfino sulla concezione islamica del matrimonio) che diverrà così
popolare negli anni immediatamente successivi. Se illuminato in questo modo il film diviene un’avventura onirica in un luogo irreale e meraviglioso nel quale tutti riescono a comprendersi e ad aiutarsi: L’immorale pertanto propone un personaggio che si colloca agli antipodi dei protagonisti scanzonati e cinici della trilogia precedente (Divorzio all’italiana, Sedotta e abbandonata e Signore e signori),
il cui unico obiettivo sembrava essere la moltiplicazione delle semplici e spesso clandestine avventure sessuali. Germi, forse saturo dei suoi vitelloni, sembra aver avuto bisogno di raccontare un personaggio fatto di
un’umanità differente, generosa ed artistica, capace di dare sempre senza chiedere troppo in cambio. Il regista ligure disegna un magnifico parallelismo tra la capacità dell’arte musicale di tutto unire e compenetrare
all’interno del proprio alone poetico e le aspirazioni sentimentali del nostro violinista che avrebbe voluto far conoscere tra loro le tre mogli e vederle, magari, unite con tutti i bambini in un’unica dimora, felici di
attenderlo al ritorno dal lavoro, senza gelosie ed egoismi. E’ un’utopia luminosa, nel segno della fratellanza e dell’amore universale, caratterizzata però da una visione strettamente maschilista e patriarcale (ovvero
conservatrice), destinata a venire travolta dal carattere sempre più individualista e antifamiliare che sta per affermarsi nei costumi italiani ed europei a partire dal decennio seguente. Certamente alcune libertà di coppia,
qui auspicate, si realizzeranno, ma sempre a sfondo individualista, in un contesto - segnato da separazioni e divorzi - che diventerà sempre più litigioso a scapito dell’unità del tessuto familiare e soprattuto a danno dei più
piccoli, così centrali invece nel film di Germi. Il film ebbe un buon successo, tuttavia di gran lunga inferiroe a quello del film precedente.
Vittorio Sala firma con Ischia, operazione amore
(mar.1966; 90 min.; il titolo si ispira a quelli del filone James Bond, allora di gran moda), una peggiori commedie balneari del cinema italiano; la cosa stupisce poichè solo due anni prima aveva filmato, sullo stesso argomento, il brillante Treno
del sabato (1964; vedi). Lo schema è quello di sempre: a Ischia si incrociano alcune vicende, tutte per la verità di scarsissimo interesse e prive di reale umorismo con l’eccezione della storia principale che fa da collante
all’insieme ovvero il racconto della gestione decisamente insolita della pensione Capotosta da parte del suo esagitato proprietario (Peppino De Filippo). Si tratta di un hotel di qualità modesta dove anziane villeggianti
straniere vengono a passare l’estate con il solo scopo di intrattenere relazioni sessuali con il prestante Peppiniello (Angelo Infanti), figlio dell’ormai anziano proprietario (che in gioventù si era a sua volta prodigato nel
medesimo tipo di “attività”), tutto ciò sotto gli occhi delle mogli consenzienti o che, quanto meno, dovrebbero fingersi distratte. Purtroppo però quella (Evi Marandi) di Peppiniello, sposa da soli quattro mesi, non ci sente da
quell’orecchio e sfianca il giovane marito, impedendogli di fare il proprio dovere “professionale”; invano il proprietario cerca di allontanarla da Ischia, mentre la pensione
perde quotidianamente clienti. L’argomento è decisamente insolito: tremendamente esplicito, si armonizza male con il resto dell’innocua commediola e peraltro non può sviluppare tale tema in una direzione eroticamente più esplicita (siamo nel 1966) e pertanto ne fuoriesce un prodotto curioso, retto da un insolito cinismo amorale la cui illustrazione però si ferma davanti alle porte delle camere d’albergo. Per la verità anche il primo episodio de Il treno del sabato era assai trasgressivo, con le mogli in vacanza che avevano trasformato il villino in uan casa di tolelranza; tuttavia la realizzazione era risultata allora assai più brillante.
Anche la seconda storia di un certo rilievo – Walter Chiari, calciatore acciaccato che passa il tempo a “soddisfare” i propri datori di lavoro ossia madre (Didi Perego) e figlia sposata (Helene Chanel) – si muove
sulla stessa linea di spregiudicatezza morale: anche in questo caso la realizzazione è piuttosto opaca e ripetitiva. Completamnete insulsa la vicenda di un barone (Vittorio Caprioli) e della sua giovane amante tedesca Ingrid
(Ingrid Schoeller). Disastrose, infine, le noiosissime scenette comiche di Ric e Gian. Questo miscuglio di commedia solare e spensierata e argomenti sessuali così spinti, immersi in un contesto fiacco produce un film
irrisolto. Gli incassi furono discreti.
Pasquale Festa Campanile firma con Adulterio all’italiana
(mar.1966; 90 min.) una delle sue prime commedie di argomento erotico, genere nel quale coglierà in seguito i suoi massimi successi (Il merlo maschio, Jus primae noctis... ). Il film, ambientato quasi interamente nel moderno quartiere Eur di Roma, ha carattere monotematico: Franco (Nino Manfredi) ha tradito la moglie Marta (Catherine Spaak) con la sua migliore amica (Maria Grazia Buccella). Marta promette allora di restituirgli l’offesa me senza rivelargli nè quando, nè dove, nè con chi. Da quel momento Franco controlla in modo ossessivo la moglie (ad un certo momento ritiene addirittura di avere ammazzato uno dei rivali) la quale, ovviamente si prende gioco di lui, inventandosi amanti di ogni genere (Mario Pisu, Vittorio Caprioli, Akim Tamiroff). La punizione consisterà più che in un vero e proprio tradimento, nel tenere il marito sulla corda per settimane.
La fredda modernità del quartiere Eur, le scanzonate filastrocche di Trovajoli, la mimica perennemente stupita di Manfredi e la bravura degli altri interpreti generano una commedia farsesca e surreale in cui l’eleganza
della confezione cerca di nascondere la pochezza e l’estrema ripetitività del soggetto. L’Eur, con i suoi recenti edifici razionali e simmetrici, è la cornice ideale per un soggetto tanto moderno ovvero la sbandierata parità di
uomo e donna tale per cui al tradimento maschile deve corrispondere un analogo tradimento femminile. Su questa insistita simmetria, che Marta rivendica esplicitamente come una delle conseguenze della parità dei sessi, si snoda
l’intero raccontino. Eppure appare evidente da dialoghi e situazioni che, in fondo, per Marta la trasgressione di Franco è cosa poco significativa e diviene, infatti, fonte di un infinito gioco di false rappresentazioni ai suoi
danni, mentre per Franco l’eventuale tradimento della moglie viene percepito come un attacco al proprio equilibiro psichico. Tutto ciò è tanto più palese nella soluzione conclusiva: Marta si diverte a prendersi gioco dell’uomo,
gioisce della sua sofferenza (che automaticamente rivela la sua centralità nella vita del partner) ma poi non lo tradisce realmente. Insomma la parità è ancora in cammino: per ora è solo una bandiera di facciata; ci vorrà
ancora qualche anno (e soprattutto le leggi del divorzio e dell’aborto) prima che divenga un fatto più consistente e radicato nei costumi italiani.
Si noti nella sequenza conclusiva con Manfredi travestito da donna, la citazione di A qualcuno piace caldo (Wilder, 1959), classico americano che evidentemente ha funzionato da modello per questa piacevole commedia italiana che riscosse un enorme successo.
Alberto Sordi bebutta alla regia con Fumo di Londra
(mar 1966; 105 min), un racconto tra i più lucidi di quel periodo nel suo saper cogliere la rivoluzione antropologica in atto. Dante Fontana (A.Sordi), antiquario di Perugia con famigliola standard (moglie bruttina e due
figlioli grassi), si reca a Londra per visitare luoghi a lungo mitizzati. La pellicola, dopo essersi persa in un piccolo documentario sui luoghi più caratteristici della metropoli inglese, ci mostra Dante ospite presso
un’aristocratica inglese, in un solenne castello; non manca neppure la caccia alla volpe. Dietro tanta etichetta, tuttavia, il protagonista scopre che l’anziana proprietaria commercia in reperti archeologici falsi. Nel seguire
la bella nipote (Fiona Lewis), Dante finisce in una sorta di comune hippy nella coisddetta swinging London, una realtà che, fino a quel momento, non era comparsa sullo schermo neppure di sfuggita. Questa seconda parte si
colloca agli antipodi della prima: il protagonista scopre un “mondo nuovo” basato sul free love, sulla parità della donna, sui rapporti sessuali di gruppo e via dicendo. L’episodio termina con una rissa tra gli hippy e una banda di motociclisti che la pensa diversamente da loro. Dante si aggira stupefatto in mezzo a questi esseri umani radicalmente differenti: lo fa disapprovando intimamene tutto di quel mondo, ma rimanendo cauto nell’esprimersi poichè cerca semplicemente un’avventura sessuale come farebbe con una bella prostituta.
Sordi dipinge ovviamente con stereotipi abbastanza astratti le due realtà contrapposte ovvero il passato e il futuro (un futuro ancora non presente in Italia) e lo fa inserendovi piacevoli tocchi umoristici. Fumo di Londra è il primo film italiano a delineare, in modo tanto netto, questa contrapposizione di costumi e questa radicale spaccatura generazionale; d’altronde gli hippy non sono altro che una parte consistente dei figli della benestante borghesia londinese che, ribellatisi alla tradizione paterna, hanno aderito a una concezione libertaria del mondo sponsorizzata dal free cinema inglese (Richardson, Clayton e Reisz) di inizio decennio e soprattutto dal coevo rock di Beatles e Rolling Stones (non a caso la musica è centrale in quasi tutte le sequenze della seconda parte, mentre è totalmente secondaria nella prima). In questo universo giovanile sono le donne che sembrano avere l’iniziativa: non è Dante a corteggiare bensì a venire corteggiato e scelto da una fanciulla del gruppo: l’uomo si adegua, senza troppo discutere.
L’atteggiamento del regista è perplesso ed anzi apertamente critico: Sordi rappresenta uno dei pochi cineasti decisamente conservatori nel cinema italiano: il suo protagonista è smarrito di fronte ad una realtà culturale
che sovverte tutti i suoi valori di riferimento e lo è ancora di più quando scopre che i promotori di questa svolta esistenziale appartengono per lo più a quelle stesse aristocratiche famiglie inglesi da lui tanto ammirate. Non
a caso è la nipote della zia aristocratica a fare da collegamento tra i due universi. Per quanto spaesato Dante mette a segno qualche battuta sarcastica e scostante sugli hippy, come quando, senza farsi intendere, li
definisce “animali”. Certo è anche l’atteggiamente difensivo di chi si trova a confrontarsi con una visione del mondo impensabile fino a qualche anno prima e, dunque, non gradualmente derivata dall’esistente, bensì indotta e
forzata dai media come una moda culturale la quale, tuttavia, si radicherà profondamente, in alcuni suoi aspetti non secondari, nelle abitudini sociali dei decenni successivi. Il film ottenne un buon successo.
Pochi mesi dopo Sordi firma l’altrettanto interessante Scusi lei è favorevole o contrario?
(dic. 1966; 125 min.) in cui racconta il proprio puinto di vistanel dibattito in corso relativo alla legge sul divorzio (la futura legge firmata dal socialista Loris Fortuna e dal liberale Antonio Baslini, approvata nel dicembre 1970). Il punto di vista è sarcastico e, a suo modo, unico, anche se non viene colto nelle recensioni dell’epoca.
La pellicola è un omaggio all’arte dell’amico Fellini: al posto del Mastroianni seduttore de La dolce vita e soprattuto di 81/2 c’è lo stesso Sordi nel ruolo di un facoltoso commerciante di stoffe il quale si accompagna con non meno di sette amanti, tutte disponibili e adoranti nei suoi confronti. Ci sono Anita Ekberg, aristocratica rumena anticomunista in esilio, Silvana Mangano, moglie di un contabile del negozio, le figlie di un’amante (Franca Marzi) di suo padre, una hostess sbarazzina (Bibi Andersson) (allorchè lo lascia, gli procura il rimpiazzo in una collega danese) e una giovanissima Tina Aumont nel ruolo di una disponibile ragazzina emiliana. C’è infine la moglie (Giulietta Masina), ora amante di Mario Pisu (insomma il cast di Giuliettta degli spiriti,
1965), da cui il protagonista si è legalmente separato da quattro anni, ma che continua a frequentare amichevolmente. Completano il quadro le figlie (Laura Antonelli e Paola Pitagora) e il simpaticissimo domestico gay Igor
(Eugene Walter). La pellicola è una lunga e piacevole girandola di situazioni più o meno quotidiane di cui è inutile dar conto; ciò che interessa è la frenetica attività affetivo-erotica di Sordi che, come il bigamo (Tognazzi)
del successivo film di Germi, si spende senza sosta per accontentare tutti e viene ricompensato dalla generosa disponiblità di queste “odalische”. La pellicola, per quanto a tratti lenta e un po’ prolissa, si regge sulla
bravura di un cast eccezionale e sulla romantica colonna sonora di Piccioni dai toni vagamente malinconici. Il cuore del discorso sociale di Sordi non è dissimile da quello conservatore, presente nel film londinese: in
Italia si parla solo di divorzio, una legge palesemente inutile poichè, come dimostra il personaggio di Sordi, esiste da sempre l’istituto della separazione legale che consente ai singoli di intrattenere relazioni amorose con
chi preferiscono, senza perdere il contatto con i loro figli (come dimostrano numerosi episodi del film). Non appare dunque utile e necessaria una legge che consenta la radicale rottura dell’unione matrimoniale, rottura che si
risolve a scapito dei figli e del loro rapporto con i genitori reali per un capriccio affettivo dei genitori (nelle realtà anglosassoni, infatti, questi ultimi finiscono fagocitati entro nuove unioni “innaturali”, dentro le
quali si trovano a dovere accettare un genitore nuovo e sostanzilmente estraneo). Sordi sembra dire: separatevi (come ho fatto io) se proprio non riuscite a rimanere sotto lo stesso tetto coniugale, divertitevi, innamoratevi e
disamoratevi, ma lasciate stare il matrimonio. Lo dimostra l’ottimo rapporto che lega il protagonista e la moglie, con la quale continua a occuparsi delle esigenze dei suoi figlioli. D’altronde nel finto cinegiornale
introduttivo una serie di figure mediocri, tutte inscrivibile all’area “progressista”, si esprime a favore del divorzio adducendo motivazioni generiche mentre quando a parlare è il protagonistala, la sua rispota è netta:
nonostante la decina di amanti, egli è nettamente contrario al divorzio. Insomma una cosa è la famiglia nella quale si è procreato e si sono presi impegni definitivi e non eludibili, un’altra le transitorie, piacevoli avventure
erotico-affettive che vengono e vanno. Insomma Sordi si riconferma autore concreto, tradizionale e poco incline a farsi condizionare dalle idee moderne e modaiole, anche quando divengono diffuse e prevalenti come nel caso
dell’idea divorzista. Il film ebbe un enorme successo. Circa un anno dopo l’attore romano propone Un italiano in America
(ott. 1967; 90 min.) nel quale cerca di ripetere lo schema dle film londinese in terra Usa. La pellicola però risulta alquanto simile al decisamente più interessante e originale La moglie americana (Polidoro, 1965; vedi) e del tutto scontata quanto a vicende, personaggi e scenari (New York, Los Angeles e Las Vegas). La stessa interpretazione di Sordi è ordinaria.
La sceneggiatura inoltre allinea una serie di scontati stereotipi: il benzinaio Sordi ritrova il padre Vittorio De Sica negli Usa dopo trent’anni (lo credeva morto). Quest’ultimo interpreta per l’ennesima volta il ruolo del
finto milionario affetto dalla mania del gioco, nonchè pieno di debiti. Il figlio lo scopre un po’ alla volta e passa dall’entusiasmo iniziale alla delusione più totale. Finirà a fare il benzinaio in America, in una stazione
Gulf simile a quella che aveva lasciato nel Lazio. Questo finale amarognolo e circolare è certamente la cosa più originale del racconto. Anche lo sguardo alle cose americane, la critica la materialismo Usa, al suo sistema
mediatico che commercializza i sentimenti (la parte iniziale con lo show televisivo che spettacolarizza l’incontro tra padre e figlio), al disordine sociale (il padre ha avuto due figlie, ha divorziato, ne ha persa di vista una
mentre l’altra si esibisce in un topless bar...) e al conseguente individualismo solitario e malinconico, per quanto parzialmente fondato, suona abbastanza superficiale. Sordi ribadisce la propria visione conservatrice e
antimodernista: come già nel film inglese, prende le distanze dai sentimenti e sessualità (il topless bar) ridotti a fatto economico così come appaiono negli Usa, eventi e costumi che, nel giro di un paio di decenni, diverrano
consueti anche in Italia. Rimangono all’attivo del film soprattutto le immagini documentaristiche (le più interessanti sono quelle dei centri minori come Memphis), spesso attente anche alle realtà più povere (i ghetti neri),
assenti dal popolare cinema hollywoodiano. In ogni caso il film fu un trionfo commerciale.
Vittorio De Sica, dopo il grande successo di Matrimonio all’italiana (1964), opta per un film a basso costo e quasi sperimentale nel linguaggio, quanto meno se confrontato con le caratteristiche del cinema coevo. Nel decennale de Il tetto (1956, altra pellicola di rottura che costò cara al regista a causa del suo totale insuccesso), l’artista gira
Un mondo nuovo (apr. 1966; 90 min.), storia d’amore tra giovani nella Parigi studentesca. Carlo (Nino Castelnuovo), giovane fotografo in fuga da una famiglia benestante e tradizionale, si innamora perdutamente di
Anne (Christine Delaroche), studentessa di medicina, originaria di Clermont-Ferrand. La giovane rimane incinta e Carlo non se la sente di sposarsi: la sola idea evoca in lui l’idea di un “cimitero dell’amore” e soprattutto
rappresenta la fine di quel percorso di libertà assoluta che lo ha portato a tagliare i ponti dietro di sè. Anne è addolorata e delusa: comprende che non ha senso tenere il figlio di un simile padre; pertanto soggiace alle
direttive del compagno e accetta di praticare un aborto clandestino. All’ultimo la sua saggezza antica, di ragazza semplice e di provincia, prende il sopravvento: scappa dallo squallido studio medico, tiene il bimbo e lo dice
ad uno sconcertato Carlo. Insieme guardano il vuoto davanti a loro mentre osservano un insulso western in una sala cinematografica; ora è certo: “un mondo nuovo” li attende... De Sica gira un film realmente notevole da
numerosi punti di vista. Nel linguaggio allo stesso tempo mosso, imprevedibile come pure documentaristico ed attento a cogliere il reale contesto dell’azione, il regista napoletano resuscita da un lato il suo inconfondibile
stile neorealistico del periodo 1945-52 e lo rinnova con quelle tipiche libertà linguistiche portate dai registi della nouvelle vague (Godard, Truffaut e Resnais innanzitutto) nel periodo 1958-65. Così accanto ad
insistenti campi totali che illustrano aule universitarie, casermoni di periferia, scene urbane e feste di Carnevale ci sono primi e primissimi piani che irrompono improvvisi e rimangono a lungo sullo schermo, quasi a voler far
pesare lo sguardo scrutatore del regista nei confronti di questi giovani e del loro “mondo nuovo” che è anche un mondo abbastanza estraneo a De Sica. Il principale autore del neorealismo era stato un attento indagatore della
povertà del dopoguerra e delle sue serie problematiche quotidiane; ora invece illumina problemi assai differenti che probabilmente gli sembrano in larga parte falsi problemi: l’enigmatica libertà di cui molto parla Carlo e che
si riduce ad un correre a destra e sinistra per registrare ora un morto per strada, ora Sean Connery che assiste alla prima di un suo James Bond (quasi certamente Thunderbolt), una sfilata di mode o un servizio
pubblicitario. Il reporter è il sacerdote della nuova era: lo ha stabilito, primo tra tutti, il grande Fellini con il suo capolavoro, La dolce vita e lo ripeterà, di lì a qualche mese, Antonioni con il suo Blow Up (1966). Il fotografo/giornalista è colui che si occupa di tutto senza capire niente, è uno spettatore inesausto di fatti altrui, i quali poi riporta ad altri in guici di alienazioni multiple. A causa di questa mal pagata attività Carlo dimentica se stesso e preferisce eliminare un figlio, nato da un amore sincero, pur di continuare questo assurdo lavoro che coincide, si è detto, con la religione nichilista dei tempi nuovi, dove tutto sembra interessante e tutto sembra meritevole di attenzione poichè ogni cosa diviene semplicemente uno spettacolo circense, un passatempo fatuo. Di questa distorsione mentale si accorge Anne in cui il sentimento serio e composto della provinciale che non si lascia incantare dalle false luci della mondanità, prevale sulla cultura confusa e triste di chi è ormai soggiogato dal modernismo. In quel bellissimo finale aperto De Sica anticipa di un anno la conclusione simile di una pellicola altrettanto emblematica e profonda (e assai più fortunata quanto a incassi) intorno al mondo giovanile ovvero Il laureato (Nichols, 1967); anche qui, nella suggestiva conclusione, una coppia male assortita si ritrova sola (dopo avere tagliato i ponti con il passato) a guardare in faccia un futuro assai incerto.
Un mondo nuovo è un piccolo grande film in cui un artista del passato si interroga su un presente di cui non sembra comprendere tutte le novità. La pellicola non ebbe alcun successo anche perchè spiazzò tutta la
critica “progressista” - perfettamente allineata con i tic culturali di Carlo - si trovò di fronte un oggetto minaccioso e perfino, a tratti, “reazionario” in cui un grande ed indiscusso artista di un’epoca ormai trascorsa
prendeva seriamente le distanze dalle idee e dalle abitudini più “dirompenti” della nuova generazione. Carlo sembra a De Sica un bambinone, un individuo che è scappato dalla vita e si è rifugiato in una città piena di luci e
rumori per dimenticare se stesso. Non a caso il film inizia con una grande festa di Carnevale in cui Carlo può nascondersi a proprio agio e termina in un cinema, davanti ad un inutile film western, frammento di una cultura
americana iperattiva e ipermaterialista (le ossesioni del lavoro e del denaro) che sta appunto diventando europea. Questa puerile logica modernista viene sconfessata dal sentimento profondo di una giovane che sente una vita
crescere dentro di sè, comprende che quel portarla alla luce è il lavoro più creativo che può realmente compiere (al di là degli studi di medicina) e rifiuta, pertanto, la cultura di morte di Carlo e del sinistro studio medico
dove due donne arcigne sono pronte a liberarla da quel “fardello”. De Sica insomma contesta i contestatori: peccato che ben pochi se ne siano accorti. Il film fu un fiasco commerciale. Dopo il coraggioso Un mondo nuovo (1966), De Sica ripiega su una pellicola di taglio tradizionale, quasi hollywoodiana:
7 volte donna (lug. 1967; 105 min.), sorta di omaggio al talento di Shirley MacLaine. Cambia la confezione ma non la sostanza. Anche in questo polittico ambientato a Parigi, lo sguardo del regista napoletano è
sempre incantato e quasi “adorante” nei confronti delle risorse poste in campo dall’universo femminile. Nel primo e nell’ultimo episodio la MacLaine dà voce al lieve, amorale anarchismo che guida l’essere femminile: durante
il funerale del marito, la moglie del defunto cede allo sfrontato corteggiamento di Peter Sellers e abbandona il corteo per iniziare una “nuova” esistenza. Così nell’ultimo una moglie è al settimo cielo perchè pedinata dal
presunto corteggiatore Michael Caine (in realtà un detective assoldato dal diffidente marito Philippe Noiret). A questa categoria appartiene anche la dispettosa moglie di un facoltoso industriale che va in bestia perchè una
rivale le ha copiato l’abito per la prima dell’Opèra. Oltre alla donna seduttrice c’è quella domestica e materna: ecco allora una moglie che si ritrova nel letto del marito Rossano Brazzi un’amante e fugge a farsi consolare da
un gruppo di solidali prostitute: vorrebbe restituire il colpo ma non ne ha la forza; oppure quella che cerca a tutti i costi di farsi notare dal marito scrittore, fino al punto di farsi credere pazza. Più deboli infine i due
episodi con le donne ”saputelle”, un prodotto dei “tempi nuovi”: una, completamente nuda, pretende di leggere poesie e riflettere sui massimi sistemi di fronte a due spasimanti (tra cui Vittorio Gassman), giunti ormai allo
stremo della propria resistenza e un’altra si chiude in una stanza d’albergo per suicidarsi con l’amante Alan Arkin, per dare un segno forte ad un mondo ingiusto e malato. In questi due raccontini è la recente moda
dell’esistenzialismo francese a tener banco la quale genera episodi verbosi che hanno un carattere eminentemente teatrale e noioso. Come nel film precedente De Sica offre uan visione conservatrice della figura femminile, un
affresco in cui la simpatia è tutta per le due tipologie arcaiche della donna, quella della seduttrice e quella della moglie; entrambe, in un modo o in un altro, sono “animali domestici” che si disinteressano delle cose del
mondo – la moglie del potente industriale mostra di non sapere nulla dell’attività del marito mentre la moglie dello ignora l’argomento dei libri del coniuge, quella di Noiret addirittura gli regala un trapano, oggetto
del tutto estraneo a interessi ed attività del consorte – e che vivono per ricevere e dare amore. Al contrario le due donne “moderne” che leggono i poeti, si occupano dei problemi della terra e vogliono addirittura uccidersi
per motivi essenzialmente culturali sono il frutto dievidenti disotorsioni moderniste dell’universo femminile e come tali vengono ritratte da De Sica. Non è un caso che proprio questi due risultano essere gli episodi più
artificiosi del film, in quanto propongono figure femminili che si sono mascolinizzate. Il film riscosse un buon successo.
Franco Rossi, dopo un periodo di episodi di valore diseguale (in Alta infedeltà, Controsesso, Le Bambole e I complessi), gira, in Brasile, a Rio de janeiro, l’insolita e mediocre commedia
Una Rosa per tutti (ago 1966; 95 min.), ispirato alla commedia Procurase uma rosa di Glaucio Gill, che ha per centro assoluto Claudia Cardinale nel ruolo di una donna espnsiva e amorale che intrattiene spensierate relazioni sessuali con sei o sette partner. Tra essi, sacrificati in ruoli macchiettistici, troviamo Lando Buzzanca e Mario Adorf. La pellicola illustra, in modo ripetitivo e monotono gli innumerevoli incontri di Rosa, di professione infermiera, con questo e quello. Il cuore del racconto consiste nel tentativo della giovane di aumentare la collezione seducendo un medico (un ottimo Nino Manfredi) il quale, compreso il carattere poligamico di Rosa, preferisce evitare di legarsi alla donna.
Il film è inconsistente poichè i caratteri sono artificiosi e inverosimili, compreso quello della protagonista sempre allegra ad ogni costo. Rossi, probabilmente, voleva confezionare un inno all’amore libero e al
matriarcato (Rosa, in fondo, tiene a bada tutti), in linea con i “tempi nuovi”, ma approda ad una commedia fiacca e falsa. Dal punto di vista narrativo la pellicola costitusce una versione al femminile di Scusi lei è favorevole o contrario? di Sordi, uscito qualche mese dopo; la visione libetaria e scanzonata del racconto di Rossi è però agli antipodi di quella di comico romano.
Una rosa per tutti riportò incassi discreti.
Salce firma con il felliniano Come imparai ad amare le donne (set.1966; 110 min.) uno dei peggiori film della sua carriera. Si tratta di una noiosissima
galleria di figure femminili, tutte donne ricche, emancipate ed alla ricerca di soddisfazione sessuale, alle prese con il bel Roberto (un inespressivo Robert Hoffman), Don Giovanni senza lavoro e pronto a occupare qualunque
posizione lavorativa gli venga imposta dalla sua amante di turno. Insomma le donne al comando e l’uomo, mediocrissimo, al seguito. E’ questo l’unico elemento di interesse del racconto: la conferma del declino della figura
maschile posta di fronte a donne sempre più dominanti e sicure di sè, capaci di prendere l’iniziativa in tutti i campi, compreso quello sessuale. L’argomento non è solo implicito: diviene anche materia di dialogo nel film, in
particolare durante la lunga relazione tra Roberto e la scienziata Marcu (Michele Mercier). Le attrici impegnate sono tutte notevoli e anche brave – le felliniane Sandra Milo (diretrice di collegio) e Anita Exberg (diva
cinematografica), Elsa Martinelli (appassionata di rally), Nadja Tiller (stilista), Michele Mercier (scienziata) – ma sprecate da un copione insulso. Fra tutte la spunterà una piccola lolita (Romina Power) che sposerà il tonto
Roberto - affascinato dalla sua presunta purezza - per rivelargli, in ultimo, che probabilmente non è vergine. La pellicola sceglie la strada della farsa surreale, con situazioni tutte inverosimili; il problema è che la regia
non riesce a rendere lievi e divertenti queste baracconate ora felliniane (l’episodio della diva), ora ambientate in scenari alla James Bond (l’episodio della scienziata), ora in contesti da commedia anni quaranta (l’episodio
del collegio) mentre l’erotismo è assai blando e incapace di intrattenere. L’effetto generale è di reale pesantezza. In ruoli secondari ricordiamo le presenze di Vittorio Caprioli, Gianrico Tedeschi e Carlo Croccolo.
Il successo commerciale del film fu discreto. Ancora peggio, se possibile, risulta il disastroso Ti ho sposato per allegria
(set. 1967; 105 min.), tratto con poche variazioni dalla commedia omonima (1965) di Natalia Ginzburg. Il film coincide con il ritratto di Giuliana, una insopportabile svitata (una Monica Vitti bamboleggiante oltre il
consentito) che parla in continuazione di sciocchezze, circondata da gente puerile ovvero
l’avvocato Pietro (Giorgio Albertazzi) che l’ha sposata “per allegria” (sebbene la tizia non risulti mai divertente, neppure per sbaglio) e una cameriera pasticciona (Maria Grazia Buccella) che è, in sostanza, una dama di compagnia. Per coloro che riescono a resistere fino alla fine, va segnalato la comparsa dell’odiata suocera (Italia Marchesini), figura che, per quanto stereotipata e ritratta con ostilità, appare l’unico essere raziocinante di tutta la combriccola: con essa un minimo di logica, per quanto “all’antica”, ricompare nel racconto. Di fronte all’anziana signora, un vero catalogo di pregiudizi come qualunque autore progressista era ingrado, in quegli anni, di stilare con gioia, la clownesca Giuliana appare ancora più insulsa.
Al cinema le trascrizioni teatrali soffrono terribilmente (nè bastano un paio di artificiosi flashback a ravvivarle); se a questo si aggiunge che, sempre al cinema, qualunque personaggio svitato risulta stucchevole dopo
dieci minuti (si veda a riconferma il pessimo film Lo svitato di Lizzani, con Dario Fo) - in quanto la sua follia è in genere noiosamente prevedibile, priva di costrutto e di scopo laddove lo spettatore si
interessa a un racconto proprio per trovarvi un qualche coerente significato – si può capire a quale genere di fallimento è andato incontro il povero Salce. Inutile dire che le intenzioni originarie di Ginzburg e Salce
avrebbero dovuto essere quelle di incensare la sfrenata fantasia femmiile e confronarla con un presunto grigiore maschile... Gli incassi furono discreti.
Nel suo secondo lungometraggio, L’estate
(nov.1966; 90 min.), Spinola racconta la crisi di un industriale, Sergio (Enrico Maria Salerno), assorbito dal lavoro, separato legalmente dalla moglie e convivente da dieci anni con l’amante Adriana (Nadja Tiller) la quale si comporta ormai come una seconda moglie.
L’uomo però, assai ricco, annoiato e inquieto, si ritrova nella situazione di grigia routine che lo aveva portato a separarsi e cerca nuove emozioni. Le trova, questa volta, nella figlia sedicenne, Elisa (Mita Medici),
della convivente, sostanzialemente una figlia per lui, che gli cede facilmente per curiosità e soprattutto perche teme di perdere l’alto tenore di vita che l’uomo garantisce a sua madre e a lei di conseguenza. Cinica e amorale,
la giovinetta spiega tutto alla madre e ne cerca l’alleanza, spiegandole che solo così possono riusciere a tenersi Sergio. La donna, superato il trauma, accetta di divenire marginale. Il film di Spinola si inserisce nel
solco del cinema di Antonioni: anch’egli vuole stigmatizzare un’alta borghesia senza valori, materialista e vuota. Come e peggio di Antonioni incappa in una serie di sequenze realmente false e artificiose in cui pretende di
ritrarre la vacuità di un gruppo di ricchi milanesi. Spinola, come maggior parte dell’universo artistico e filmico, aderisce al pensiero “proogressista” e solidaristico dominante in quei settori e, in nome di un malinteso,
implicito umanitarismo, aggredisce la propria classe sociale ritraendola come composta da un branco di deficienti i quali, se fossero stati realmente tali, mai avrebbero potuto portare l’Italia al suo invidiabile stato di
benessere; anche il nucleo sessuale della vicenda si ammanta del medesimo giudizio morale. Ciononostante il ritratto dei tre personaggi è vivo, credibile e approfondito: la noia che si insinua in ogni rapporto sentimentale di
lungo corso vi è ben descritta; l’uomo cerca la novità a tutti i costi perchè significa emozione. Anche una ninfetta un po’ insulsa come Elisa è idonea al caso, tanto più che la sua giovane età e la familiarità che la lega al
patrigno rende l’insieme ulteriormente trasgressivo e insolito. In un’epoca che non ha ancora “santificato” la gioventù (come pure il mondo animale e i patrimoni artistici, tutti nuovi “altari” dell’umanità “femminea” creata
dalla rivoluzione antropologica degli anni settanta), il cinema italiano degli anni sessanta mette in scena una lunga serie di giovinette “disposte a tutto”, ovviamente senza addentrarsi in particolari e sfumando le situazioni
più scabrose. Ciononostante l’argomento viene affrontato con semplicità e senza troppi sotterfugi. Elisa, grande divoratrice di canzonette rock, si muove con grande spregiudicatezza: usa il proprio fascino per garantirsi un
futuro comodo e lussuoso, secondo una visione amorale e disillusa riguardo ai valori storici (la morale cattolica, il matrimonio, la verginità di cui i giovani del racconto parlano come di qualcosa di arcaico che a sedicianni
va obbligatoriamente superato), visione che ormai è in cammino dall’inizio del decennio (da La dolce vita...). Negli stessi anni altri uomini di mezza età saranno fatalmente attratti da minorenni come nel caso del
recente Un amore (1965 Buzzati/Vernuccio) e dei successivi Il tigre (1967) e La bambolona (Giraldi, 1970). Spinola ritrae con precisione il triangolo amoroso: aiutato da attori convincenti, da scenari
suggestivi (le spiagge della Sardegna dove il trio è in vacanza) e da dialoghi credibili (limitatamente al suddetto terzetto) mette in scena una commedia umana tesa e sincera in cui il rapporto servo-padrone è illustrato con
piena consapevolezza poichè il padrone crede di essere tale con le donne che lo circondano mentre finisce con l’essere servo delle sue “serve”. Il mondo dei sentimenti è anch’esso venato di sotterfugi e commerci: Spinola,
appoggiato dalla critica militante dell’epoca, crede di denunciare così una classe sociale indegna mentre, in realtà, illumina una tendenza pressochè atemporale della natura umana e siccome lo fa con freddezza e distacco,
evitando eccessi sermoneggiante, la sua opera regge nel tempo e appare ancora oggi assai stimolante. I suoi personaggi, per quanto banali, appaiono in fondo solo ordinari e non negativi come forse avrebbe voluto l’autore.
Il film ottenne un buon successo.
Alfredo Angeli esordisce con il modesto La notte pazza del conigliaccio
(mar 1967; 105 min.), una pellicola apertamente felliniana che racconta l’odissea notturna di Aldo, un ingegnere pasticcione (Giulio Platone) il quale, mentre moglie e figli sono a Cesenatico, si porta a casa Debra, un’aspirante suicida (Sandra Milo) la quale, in casa sua, appunto, si ammazza. A quel punto l’uomo, ossessionato dallo scandalo e dalla reazione della moglie, cerca di trovare il modo di far sparire il corpo dalla sua abitaizone. Nel farlo però adotta la via più prolissa e inverosimile, girando di notte alla ricerca vana di un certo Rossano, l’amante della donna. Farà ogni sorta di incontri, verrà derubato e sbeffeggiato fino a che proprio alcuni truffatori, che si erano proposti di far sparire il cadavere, avvertono la polizia. L’uomo è rovinato: in uno stato di totale confusione e panico si reca alla stazione ad accogliere moglie e figli di ritorno dal mare.
Ambientato in una Roma notturna poco interessante, il film mette in scena un’umanità perfida e opportunista, che approfitta delle disgrazie del malcapitato per far soldi. C’è perfino il paparazzo felliniano che riesce a
intrufolarsi nell’abitazione dell’uomo facendogli credere di volerlo aiutare. Anche i malviventi dei mercati si prendono gioco di lui e lo imbrogliano. D’altronde nella prima parte del racconto l’uomo, in posizione di forza (è
ingegnere in un importante cantiere), commette ogni genere di scorrettezza e tratta i subordinati con sufficienza. Chi la fa l’aspetti... Il film si sviluppa con lentezza e prolissità e mette in fila una serie di personaggi
poco approfonditi quando non apertamente macchiettistici (si sono Enrico Maria Salerno, Ettore Manni e Rossano Brazzi). L’intento del regista è di farsi beffe di questo piccolo borghese imbranato e ipocrita il quale sbandiera
continuamente l’importanza della famiglia, pilatro della società ma poi, appena è solo, corre dietro alle prostitute. Il tono è evidentemente di facile critica e il moralismo sotteso è un alro difetto del film; tuttavia la
scelta di un personaggio tanto assurdo e incapace, in definitiva inverosimile, mina all’origine ogni intento di critica sociale e spinge il film verso l’incubo e la fantasia onirica (numerose sono infatti le sequenze
immaginarie, che danno corpo alle fantasie di Aldo). In realtà il testo ispiratore de La notte pazza è Lo sceicco bianco (1952) di Fellini. In entrambi i casi un marito moralista, terrorizzato dal giudizio del prossimo, vive un lungo incubo durante il quale tenta di risolvere una situazione pericolosa e inattesa (la sparizione della moglie nella Roma dei fotoromanzi nel caso del film di quindici anni prima), scandalosa soprattutto. Lo riprova anche la forte somiglianza dei due attori protagonisti:. Giulio Platone e Leopoldo Trieste. Il film felliniano termina con un sospirato lieto fine mentre quello di Angeli finisce nel caos.
Quest’ultimo condivide col cinema felliniano anche la visione cinica a 360 gradi. Praticamente non vi sono personaggi positivi nel racconto ma figure tutte grottesche, spietate e assorbite dal proprio interesse particolare.
Tutti ingannano tutti e si dileguano appena si tratta di aiutare qualcuno. Così Aldo decanta la famiglia all’inizio ma poi la vive come una prigione; e in effetti l’unica immagine della moglie (nel finale) è tutt’alto che
rassicurante. Egli inganna i suoi operai, inganna la comunità (ordina di fare a pezzi un antico mosaico appena ritrovato, magari di grande valore, pur di non interrompere i lavori di costruzione) e mal sopporta chi gli chiede
un lavoro, ma a sua volta viene ingananto da tutti: dall’aspirante suicida, dagli amanti della donna, dal paparazzo in incognito, dalla prostituta che non ha buon cuore e dalla gente del mercato (in una scena che ricorda quella
di Ladri di biciclette), gente umile che però non viene santificata (come nel cinema desichiano), bensì viene colta nella sua meschinità truffaldina (come l’avrebbe ritratta, appunto, Fellini). Il film di Alfredi si
differenzia almeno dalla vulgata “progressista” sparando a zero su tutto e su tutti, ricchi e poveri, onesti e disonesti, militari e ingegneri, mogli e prostitute. Ne fuoriesce un ritratto nero e a suo modo gustoso della Roma
degli anni sessanta. Peccato che la sceneggiatura, impostate le situazion,i non riesca a svilupparle in maniera interessante, anche a causa degli evidenti scarsi mezzi economici di cui il regista sembra disporre e di un cast
abbastanza modesto. Il film partecipò ad alcuni festival itnernazionali ma, in seguito, non ebbe alcun successo commerciale.
Giorgio Bianchi nel suo penultimo film torna a parlare dei costumi siciliani (dopo Sedotti e bidonati, 1964) con Assicurasi vergine
(mar. 1967; 95 min.), filmetto di poche pretese girato in una Ragusa irriconoscibile, che vanta però un soggetto di una certa originalità. Vi si racconta di un bizzarro padre (Oreste Palella), un tempo benestante ora in
rovina, che assicura la verginità della figlia Lucia (Romina Powers) per cento milioni ma non per tutelare l’onore dela giovane, la quale deve sposare il facoltoso e odiato signorotto locale don Pippo (Vittorio Caprioli), bensì
per ritornare ad essere ricco. In tal caso egli eviterebbe quelle nozze indigeste e Lucia potrebbe sposare l’aitante e povero Tanino (Dino Mele) di cui è innamorata. Dopo varie peripezie, che vorrebbero essere umoristiche (il
modello esplicito è Sedotta e abbandonata di Germi, citato durante il film), ma che risultano solo puerili e noiose, il piano fallisce ma, ugualmente la giovane riuscirà a sposare Tanino e don Pippo dovrà accontentersi di prendere in moglie l’amante Carmela (Daniela Rocca).
L’interesse del racconto è tutto in quel soggetto trattato a rovescio rispetto alle consuetudini: un padre che non vuole accasare la figliola con un signore ricco e potente e preferisce farla “disonorare” dal fidanzato
povero al fine di incassare la somma necessaria a garantirle un futuro roseo. Il senso di questo rovesciamento - sintomatico della trasformazione dei costumi in atto in quello scorcio di decennio - consiste nell’auspicato,
radicale cambiamento di punto di vista in quel profondo sud dove, in realtà, continuava a prevalere una mentalità tradizionale e antimodernista. Certo Bianchi è un regista romano la cui sensibilità non può definirsi meridionale
o siciliana: se ne ricava che il racconto, sceneggiato con Alfredo Giannetti (un altro romano), mette in scena una presunta evoluzione modernista della mentalità meridionale. La verginità (e la connessa rispettabilità
femminile), diviene un orpello sacrificabile (seppure all’interno di un preciso disegno che si conclude con nozze certe) se compensata da una forte somma di denaro. Va detto che i successivi film di Damiani (Il giorno della
civetta e soprattutto La moglie più bella) negano tale evoluzione e riconfermano una Sicilia ancorata alle sue tradizioni più antiche. Per il resto la pellicola è fiacca, gli itnerpreti si muovono in modo
stereotipato e poco convinto mentre le scene comiche (il lungo assedio al convento in cui è “reclusa” Lucia) sono disastrose. Il film fu un fiasco commerciale.
Lattuada firma con Don Giovanni in Sicilia
(apr. 1967; 105 min.) una alquanto modesta trasposizione del celebre romanzo (1941) di Vitaliano Brancati. La storia di un’ossessione, quella di Giovanni Percolla (Lando Buzzanca), giovane, svogliato catanese che sembra vivere solo per collezionare avventure sessuali, viene banalizzata dal regista lombardo attraverso una pittura macchiettistica della gioventù meridionale. La lacerante e patologica paranoia, descritta con acutezza da Brancati, diviene la sciocca mania di un gruppo di ragazzotti (e non), sfaccendati e puerili, in qualche modo precursori dei personaggi scemi che popoleranno la commedia erotica del decennio successivo con Lino Banfi, Alvaro Vitali, Edvige Fenech e compagnia. La misoginia serpeggiante è certamente la stessa di Brancati e di tanto cinema di quegli anni, con la differenza che in Lattuada il Casanova italico si riduce ad essere un bambinone deficiente di fronte al quale la figura femminile acquista la statura di una dea saggia e materna. Ed infatti Giovanni finisce per sposarne una, la ricca Ninetta (Katia Moguy) e per abbandonare la Sicilia per la fredda Milano dove i rapporti tra i coniugi si fanno sempre più meccanici e grigi.
La versione di Lattuada è peraltro assai differente da quella di Brancati: il protagonista - nel testo era un semplice commesso di negozio - diviene un abile avvocato con impegni di lavoro addirittura internazionali; in tal
modo il regista può mettere in scena, per l’ennesima volta, l’alta borghesia milanese, distratta e stupida, ripresa da tanto cinema snob di quegli anni (a partire dalla celebre tetralogia di Antonioni) che amava dipingere la
classe dirigente italiana come composta da persone fasulle e alienate. Questa seconda parte del film è certamente la peggiore: in essa si perde quasi di vista l’argomento principale del racconto, ridotto ad un unico tentativo
maldestro di scappatella extraconiugale del protagonista con una giovane Ewa Aulin. La cosa migliore è la spiritosa colonna sonora di Trovajoli, basata su uan sciocca canzoncina che, a suo modo, raddoppia l’infantilismo dei
personaggi. Il senso ultimo del racconto di Brancati – la diffidenza nei confronti dell’universo femminile, di cui, peraltro, non si può fare a meno – viene addirittura rovesciato nella nuova società italiana che ha non solo
parificato la donna, ma addirittura ne ha “divinizzato” le qualità nei confronti di un maschio sempre più soggetto alla nuova figura femminile, sessualmente emancipata, che sa intimidire la controparte. Non a caso nella parte
milanese Ninetta difende lo scambismo (alle primissime battute) come parte integrante di quella modernità a lungo inseguita e di cui la figura femminile è l’emblema principale; come risultato però ottiene solo una risposta
scandalizzata del marito il quale, tuttavia, a sorpresa, si troverà nel letto, in un’altra occasione, un grande, anziano poeta, ospite per una notte... Giovanni è insomma un Don Giuvanni ormai in pensione, nonchè sul punto di
essere ridicolizzato dalle nuove usanze dell’universo femminile. Il successo commerciale del film fu solo discreto.
Dopo la “vacanza” di Operazione San Gennaro (1966), Dino Risi riprende le tematiche sociali affrontate in Il gaucho, Il giovedì e L’ombrellone (1964-65) con il pregevole
Il tigre
(apr. 1967; 105 min.) il cui titolo rieccheggia uno slogan pubblicitario dell’epoca della Esso (“Metti un tigre nel motore”). Come negli ultimi due titoli citati, l’argomento è la battaglia tra i sessi in un’epoca sconvolta dall’emergere sulla scena dei “giovani”, delle loro libertà (anzitutto sessuali) e della loro ingenua sfrontatezza.
L’industriale di successo Francesco Vincenzini (Vittorio Gassman), a quarantacinque anni si sente vecchio; possiede tutto: una bella moglie, due figli, denaro e potere, eppure vuole tornare a sentirsi giovane. Così, quanto
una fidanzata del figlio, Carolina (Ann Margret la quale, con i suoi ventisei anni, appare troppo vecchia per la parte di una diciottenne e non abbastanza seducente), lo corteggia, non sa tirarsi indietro. All’inizio tra mille
incertezze – l’uomo è un rigido e cinico conservatore – poi sempre più calato nella parte, Francesco cede alle lusinghe e finisce con il perdere la testa per la sua pseudololita. In realtà la ragazzina non è così credibile e
basta un confronto con il capolavoro kubrickiano (Lolita, 1961), di cui Il tigre è una sorta di variante, per rendersi conto della scarsa carica erotica che attraversa il racconto di Risi, finendo per renderlo abbastanza inverosimile. Ciononostante l’analisi spietata e lucida che regista e sceneggiatori (Age e Scarpelli) mettono in campo è stimolante: In un quadro di donne di mezza età, abbandonate dai loro consorti, fuggiti con ragazzine compiacenti, il percorso di Francesco si rivela molto presto un calvario: come il suo amico Tazio (Fiorenzo Fiorentini), completamente rovinato a seguito di una storia simile, l’industriale insegue la sua ragazzina in assurde feste giovanili, discoteche e in risibili atelier artistici pieni di sciocchezze delle cosiddette avanguardia artistiche; non a caso a Carolina è una studentessa di arte che si occupa di queste baggianate che fanno il paio con la rivoluzione dei costumi in atto, anzi ne sono la facciata culturale (si fa per dire). L’attrazione cresce, come pure il disagio nei confronti di una fanciulla che vive in una dimensione differente, puerile e antitetica alla propria. Nel problematico finale, quando ormai Francesco sta partendo per Parigi con la giovinetta, un ultimo slancio di razionalità lo mette in guardia e lo fa “fuggire” a casa, tra le protette mura domestiche. La moglie, al corrente di tutto, simula indifferenza per salvare il matrimonio...
La commedia di Risi - aggredita come insulsa dalla solita critica militante dell’epoca, la quale certamente rimase delusa dal taglio logico ed antirivoluzionario del film - è un’opera divertente e coraggiosa nel proprio
antiromaticismo e nel propio lucido sguardo nei confronti di un universo giovanile scemo e ridicolo nel suo volersi proporre come portatore di una nuova filosofia di vita, anche perchè appare evidente che quei giovani -
sbarbatelli mantenuti da benestanti famiglie della media borghesia - non hanno ancora una precisa idea dell’esistenza e delle sue reali problematiche. In tal senso anche la scarsa carica erotica della protagonista fa tutt’uno
con il suo artteggiamento da saputella che tende a cancellare qualunque naturale fascino nella figura femminile. Si riveda, al contrario, la profonda senusalità di Lolita (Kubrick), ragazzina semplice ed avulsa da qualunque
complicata discussione sui massimi sistemi. Risi fotografa con precisione una società italiana prossima ad una svolta, con l’universo femminile consapevole della propria forza, pronto a scardinare il vecchio ordine (il
matrimonio) per avviare un nuovo sistema mobile di convivenze, basate sull’intermittente attrazione erotica. Tutto ciò, si noti bene, prima dell’approvazione della legge sul divorzio (1970), tanto è vero che Francesco parla
sempre e solo di abbandonare la famiglia e di andare a convivere con la nuova compagna. Il tigre alla fine è “un coniglio” (come ama chiamarlo Carolina) in un’operina deliziosa (non mancano inserti fantastici e surreali a commento delle situazioni più assurde; ci sono perfino dei gatti parlanti), dal taglio rigorosamente conservatore, che sembra attenersi alla sapienza antica di detti quali “Chi va piano va sano e va lontano”, “La carne in vetrina non è mai di prima scelta” e “Mogli e buoi dei paesi tuoi” o dell’età tua, che è un po’ la stessa cosa visto che ogni epoca forma la gioventù all’interno di coordinate ideali differenti. E’ evidente che la saggezza tradizionale, insita nel patrimono dei proverbi è quanto di più antitetico esista rispetto all’atteggiamento rivoluzionario e volontaristico di chi pretende di cambiare il mondo sulla base di capricci emotivi o, peggio, di idee astratte (il marxismo, la parità dei sessi ecc.). Inoltre aver ridicolizzato i giovani, pochi mesi prima del fatidico ’68 e della sua presunta carica di innovativa protesta, è certamente una grave colpa per la critica più “impegnata” la quale non ha dubbi: Risi è un autore secondario, dedito a filmetti commerciali...
In effetti Il tigre fu un enorme successo.
Silvano Agosti esordisce con il mediocre Il giardino delle delizie
(giu 1967; 75 min.) in cui cerca di coniugare Bergman, Bunuel e il recente rabbioso Bellocchio (I pugni in tasca) approdando ad una pellicola che possiede pregi visivi e qualche trovata blasfema di una certa
(bunueliana) suggestione ma il tutto inserito in un indigesto mattone intorno ai presunti orrori del matrimonio e dell’ordine familiare. Il titolo allude ironicamente, al tempo stesso, alla vita adulta e matrimoniale e al
sinistro affresco surrealista (1490ca) di Bosch. Carlo (un introverso Maurice Ronet memore di Fuoco fatuo) si trova “imprigionato” in un viaggio di nozze con la bella moglie Carla (Evelyn Stewart): il fesso l’ha messa
incinta e si è trovato obbligato a sposarla. Per tutto il film continua a polemizzare in un monlogo interiore (inudibile alla malcapitata consorte) intorno all’inutilità dei legami stabili. E’ chiaro che, esaurita ormai da
tempo l‘attrazione sessuale, l’uomo non sopporta più Carla che è uan borghese educata, noiosa e con accennate tendenze al comando (si fa già servire e riverire) la quale, tuttavia, pronuncia l’unica frase sensata della
pellicola: di fronte al marito scocciatore, che continua ad arringare intorno alla presunta inutilità e all’assurdità del matrimonio (in cui si è cacciato da solo... nessuno lo obbligava) e a chiederle il senso del loro gesto e
del matrimono in generale, gli risponde: "Non lo so, ma se si è sempre fatto vuol dire che un senso c'è". Questa frase che, sicuramente per il regista “contestatore” e “progressista” dovrebbe rappresentare l’ottusità tradizionalista della moglie, finisce col rappresentare invece proprio la soluzione ovvia del problema. Il matrimonio, come dice la parola stessa, esiste da sempre con la finalità di creare una madre e una discendenza, non certo per farsi compagnia e tanto meno solo per moltiplicare gli atti sesssuli; per questi ultimi ci sono tante altre possibilità e scelte, esterne all’unione coniugale.
Per il resto il film procede a un’esame particolareggiato dell’infanzia repressa del protagonista, costretto a frequentare scuole cattoliche e chiese (ovviamente tutte popolate da preti e maestri pedofili) e a soffrire in
una rigida famiglia borghese dove tutto è etichetta e nulla è sentimento. La lagna, peraltro messa in scena con gusto, prosegue con le rappresentazioni blasfeme del ragazzino che gioca a fare il prete che dice messa davanti a
una bambola crocefissa e con un’ostia rubata. Il film prende la piega dello psicodramma individuale: la situazione psicologica del protagonista,
talmente singolare ed estrema da non rappresentare altro che se stessa, toglie qualuque forza critica al messaggio di forte contestazione di tutte le istituzioni (stato - famiglia - matrimonio - chiesa cattolica). Nella seconda parte la follia si appropria di Carlo: anzichè curare la disgraziata moglie, immobilizzata a letto da un’emorragia, amoreggia con la vicina di stanta (Lea Massari), presenza oscura e simbolica (non apre mai bocca) di una donna intesa quale pura sensualità, priva di esigenze sociali e culturali. Rafforza questa idea una sceneggiata rock che (alquanto goffa) vorrebbe mimare le esigenze libertarie di una gioventù in cammino verso nuovi orizzonti sociali. L’amore adultero in un albergo, consumato dal protagonista mentre la moglie riposa (e soffre) nella propria stanza, rimanda direttamte al celebre finale de L’avventura (Antonioni
1960) come d’altronde tutto questo cinema di aspra critica all’ordine borghese visto come luogo mortifero e vuoto di significato. La conclusione aperta è decisamente forte e inattesa: giunta l’alba, dopo la notte d’amore con
la sconosciuta, Carlo dapprima è tentato dal suicidio, poi rinetra in albergo dove trova la moglie cadavere che, in qualche modo, lo fissa. La poca simpatia che ispira il complessato protagonista si estende al film nel suo
complesso: se innegabile è un certo estro visivo, rafforzato da musiche morriconiane cupe e atonali, coerenti con il clima del racconto, l’insieme delle argomentazioni di Carlo sono talmente faziose e labili da allontanare
qualunque pubblico equilibrato, che non condivida in partenza l’odio istituzionale dell’autore. Rivisto oggi (2015) ovviamente tutta la polemica antisistema appare largamente incomprensibile e viene percepita come un residuo
delle ideologie “rivoluzionarie” di quel lontano periodo. Il film fu un prevedibile fiasco commerciale.
Due anni dopo il disastroso Made in Italy, Nanni Loy firma un altro film fallimentare, Il padre di famiglia (set. 1967; 100 min.), parzialmente salvato
dall’ottima resa di tutti gli interpreti che, volentieri, si assogettano ad una sceneggiatura ridicola. Infatti nonostante tutto il film si lascia seguire con grande interesse; ottimo appare anche il contributo di Tognazzi nel
ruolo di un anarchico straccione (che doveva essere interpretato da Totò). L’autore racconta le peripezie di un integerrimo architetto socialista
(Nino Manfredi) tra il 1946 e il 1966. Il giovane appare ossessionato da un unico tema nella sua esistenza: la speculazione edilizia. Pertanto rifiuta qualunque lavoro redditizio poichè in tutti rileva elementi di corruzione e passa il tempo in oscure riunioni politiche (si immagina vicine al Pci e al Psi) in cui si continua a dire tutto il male possibile della crescita edilizia di Roma. Nel frattempo gli anni passano e la bella moglie (Leslie Caron) dona al marito ben quattro figli dei quali l’uomo sembra totalmente disinteressarsi, anzi appare evidentemente infastidito dalla loro presenza in quanto non gli permettono di dedicarsi a tempo pieno al suo famoso lavoro di controllo critico dell’altrui operato in ambito architettonico-urbanistico, lavoro che, peraltro, nel film non appare chiaro: a parte le ovvie rilevazioni intorno alla mancanza di verde cittadino, non si comprende come costui sbarchi realmente il lunario.
Quello che invece Loy ha chiaro e vuole comunicare con forza ai poveri spettatori è che avere quattro figli è peggio che vivere nell’Inferno dantesco. Così la pellicola si sforza di mostrare la casa dell’architetto sempre
avvolta nel più totale e frastornante caos con un effetto realmente fastidioso, simile a quello di chi si reca a un concerto e si veda propinare una sequenza ininterrotta di rovinose dissonanze o meglio una qualche “moderna”
composizione dodecafonica, politicamente perfettamente in linea con il cinema “negativo” di Nanni Loy. In realtà appare incomprensibile come quest’uomo, dotato di quattro magnifici figli con i quali potrebbe instaurare ogni
tipo di dialogo, non voglia dedicare loro la minima attenzione e si ostini a occuparsi solo delle sue annose polemiche urbane. Assecondando un modello di lotta politica che pone come centrale sempre e solo la “questione
morale”, modello che diverrà dirompente dopo la caduta del muro e la fine del comunismo, l’architetto accentua il discorso della legalità e di una presunta superiorità morale di chi non si sporca le mani e passa il tempo a
criticare il prossimo, divenendo tra l’altro un tipo umano di rara monotonia: Manfredi, infatti, recita col “broncio” dalla prima immagine all’ultima. Nel suo fanatismo ideologico avrebbe preferito una moglie lavoratrice (è
anch’essa architetto, ma ha abbandonato la professione per seguire la famiglia, scelta riprovevole nel contesto di questo racconto), magari senza figli o con i figli perennemente
“abbandonati” in istituti scolastici. Questa preoccupazione estrema per il diritto al verde e ai campi giochi in città, preoccupazione ovviamente solo astratta e pretestuosa (in nessun momento lo vediamo giocare coi figli in qualche campetto sportivo), ha quasi il sapore della paranoia patologica; va da sè che l’uomo non sente il bisogno di preoccuparsi della tragica negazione di diritti umani assai più essenziali che prevale al di là della cortina di ferro, in quel mondo socialcomunista al quale sembra aspirare con tanta determinazione. Nell’assurdo finale – assurdo se non fosse per l’eccellente recitazione di Leslie Caron – la madre impazzisce per lo sforzo di seguire i quattro figli...
Poche volte si è assistito al cinema ad un sermone tanto netto contro la famiglia, fonte di ogni male ipotizzabile: l’architetto non riesce a portare a termine i suoi misteriosi progetti e la madre addirittura finisce in
una casa di cura a causa di quei quattro figli. Di fronte a pellicole tanto
faziose è sufficiente ripescare il saggio proverbio arabo, decisamente ignoto ai protagonisti: “spazza davanti a casa e la città sarà pulita” ovvero evita le discussioni ideologiche astratte, non inseguire le Verità assolute (che cambiano di epoca in epoca... ) ma impegnati nelle cose che ti circondano quotidianamente; solo così migliorerai il contesto sociale.
Ciononostante la pellicola, che partecipò in concorso al festival di Venezia, riscosse un buon successo commerciale ed ovviamente il plauso della critica progressita che parlò di “cinema d’idee” e di “battaglia degli
ideali”, ma si dimostrò comunque insoddisfatta per il carattere troppo moderato della protesta di Loy...
Massimo Franciosa gira Pronto... c’è una certa Giuliana per te (set. 1967; 95 min.), delicata e ingenua love story di ambiente scolastico abbastanza insolita per il periodo, la quale rimanda semmai ad alcuni film del decennio precedente (Terza liceo, Emmer, 1954).
Giuliana (Mita Medici) e Paolo (Gianni Dei), due giovani benestanti assai differenti tra loro, entrambi alle soglie dell’esame di maturità classica, si amano. La prima, orfana e un po’ sradicata, vive in modo disordinato e
allegro mentre il secondo, pacato e riflessivo, la asseconda pur rimanendo spesso interdetto dalle sue inizative e dai suoi repentini cambi umorali. Dopo gli esami (Giuliana verrà bocciata) la coppia parte per una favolosa
vacanza estiva in autostop. Nel cast figurano anche Francoise Prévost e Paolo Ferrari, genitori di Paolo e Caterina Boratto e Marina Malfatti, zia e istitutrice di Giuliana.
In una Roma invisibile, ridotta a poche, secondarie location, la vicenda è tutta incentrata sui due giovani. Intorno a loro tutto si sfoca: ambiente scolastico, professori (tra i qualia Anna Maria Mazzamauro), genitori
(la possessiva e abbastanza irreale mamma di Paolo) e parenti. Anche le due figure principali, così ingenue e gioconde, sembrano appartenere più agli anni cinquanta che non a quella Roma alle soglie dei disordini di valle
Giulia (1968) se non fosse per le continue citazioni dei Beatles e per le piccole libertà sentimentali che si concede Giuliana, libertà che sconvolgono il tradizionale Paolo il quale, non a caso, si chiede fin dove deve
“giungere la sua modernità”. E’ questa domanda, in fondo, il cuore del racconto: Paolo se la pone di fronte a un presunto tradimento di Giuliana, cercando di frenare la naturale gelosia in omaggio ai tempi nuovi, alla coppia
aperta e alle altre stupidaggini che stanno per diventare realtà nel costume italiano ed europeo. Il ragazzo, di formazione classica, spesso in giacca e cravatta, cerca di adeguarsi ai nuovi usi della modernità di cui Giuliana
è un vero e proprio simbolo; ma si tratta pur sempre di uno sforzo difficile, artificioso ed anche alquanto dannoso (ad un certo punto il giovane, depresso, vorrebbe addirittura abbandonare gli studi). Nel finale, tuttavia,
egli cede totalmente ai tempi nuovi: pur essendo assai ricco (come pure, si intuisce, Giuliana), egli si adatta a partire per una vacanza in autostop, come uno spiantato qualunque. La coppia sembra felice ma il suo futuro
appare poco solido, fondato esclusivamente su una certa attrazione fisica. Franciosa guarda alla sua capricciosa Giuliana, la quale, per quanto briosa e simpatica, appare spesso puerile (non a caso non è in grado di
preparare la maturità), con un certo scetticismo, lo stesso che anima, a tratti, il protagonista maschile anche se sembra affascinato dalla giovanile esuberanza della giovane. Il cuore del racconto è tutto qua: il fascino
discreto del disordine e del disimpegno (la bocciatura di Giuliana, determinata dal suo esplicito rifiuto relativo allo studio ovvero alla tradizione, è anche un primo segno di contestazione antisistema) è assai forte ma le sue
conseguenze sono enigmatiche e ignote come il futuro che attende i due giovani. La pellicola è, in questo senso, molto vicina a Il laureato (Nichols, dic.1967), film emblematico di quegli anni. Il regista confermerà la propria diffidenza nei confronti della Modernità nel successivo La stagione dei sensi (1969; vedi).
Il film fu un fiasco commerciale.
Dopo l’impegnativo film su papa Govanni XXIII, Olmi torna al realismo quotidiano che predilige con La cotta
(ott 1967; 40 min.), un breve film girato per la Rai (poi inserito nel film a episodi Racconti di giovani amori) in cui si raccontano
le peripezie amorose del quindicenne Andrea (Luciano Piergiovanni) il quale si innamora della coetanea Janine (Renata Carniglia) intorno al 20 dicembre, la frequenta e le dà appuntamneto per la festa di Capodanno. Il ragazzo prende le cose con eccessiva serietà mentre la giovane manca al fatidico appuntamento. Andrea si ritrova solo ad una festa alla periferia di Milano e, per consolarsi, intavola una lunga discussione con una giovane, affascinante venticinquenne (Giovanna Claudia Mongino), anch’essa sola in quell’occasione, intorno all’amore. In pochi minuti si innamora anche di questa che lo rimprovera dolcemente e lo invita a prendere le cose con meno serietà, considerata la sua età e lo avvisa che l’amore non è una sbandata improvvisa ma “va costruito giorno per giorno”.
Il piccolo racconto, ambientato in una suggestiva Milano nebbiosa (oggi inesistente), assai vicina a quella de Il posto (1961), si incentra sul ritratto di questo giovane verboso e preciso che vorrebbe tutto programmare e, così, mettersi al riparo dalla imprevedibilità delle cose della vita. In particolare vorrebbe avere immediate certezze in un campo sentimentale che è, per sua natura, imprevebile in quanto correlato con la sfera dell’emotività. Andrea è, in qualche modo, un outsider della
sua epoca: sempre serio, spesso in giacca e cravatta, egli vorrebbe trovare subito la compagna di un’intera esistenza in un’epoca in cui tutto sta diventando transitorio ed effimero, soprattuto in ambito amoroso. Ascolta musica
colta (con gli amici commentano una verisone orchestrale di Petroushka di Stravinskij) e, nel finale, è subito attratto da una venticinquenne che, ai suoi occhi, è una donna matura. Andrea, nel quale si può forse intravedere lo stesso Olmi, è destinato a rimanere una figura pittoresca e marginale nei tempi che si preparano così come insolito e totalmente “inattuale” è il cinema di Olmi in quegli anni.
testo scritto nell’ott.2015
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