Teresa Venerdì, I nostri sogni, Luce nelle tenebre, Ore 9: lezione di chimica, Un marito per il mese di aprile, Via delle cinque lune, La bella addormentata, L’avventuriera del piano di sopra, Giorno di
nozze, Il birichino di papà, Soltanto un bacio, Musica proibita e Calafuria: ragazze in fuga (1941-43)
“C’è poi il settore degli <interessi lesi>, di coloro cioè che sono stati scomodati nelle loro abitudini, perché è stata soppressa
la circolazione automobilistica, si sono imposte le tessere, è stato ordinato l’oscuramento....E’ questo il mondo borghese. E’ ormai accertato che la parola borghese non esprime un
concetto di carattere economico, bensì un concetto di carattere morale. Però si è dimostrato che spesso le insufficienze morali sono accompagnate dall’abbondanza
del denaro. E’ per questo che i popoli poveri fanno la guerra meglio dei popoli ricchi: perché hanno meno bisogni” Mussolini (dal discorso del 3 gennaio 1942)
Il terzo lavoro di Vittorio De Sica, il pregevole Teresa Venerdì
(novembre 1941, 96 min), costituisce la prima testimonianza della sensibilità e dell’arte di un grande protagonista del cinema italiano. Se confrontato con i primi due film, Rose scarlatte e Maddalena... zero in condotta,
appare evidente il netto balzo in avanti del regista in ogni direzione: innanzitutto nell’arguta “orchestrazione” di un vivace intreccio che corre straripante di eventi e figure, senza annoiare per un solo momento; inoltre
nella capacità di dipingere differenti, antitetici ambienti con mano sicura e infine nella superba, controllata recitazione con la quale l’autore-attore dà vita alla figura del protagonista. Il film trae spunto da un
romanzo di Rudolf Torok sceneggiato da Gherardo Gherardi, Franco Riganti, Aldo De Benedetti (non accreditato per motivi “razziali”) e De Sica stesso. Vi si narrano le vicende sentimentali del medico Pietro Vignali il quale
intrattiene una relazione con la cantante Loletta (un’ottima Anna Magnani al primo ruolo importante), si fidanza controvoglia con Lilli Passalacqua, una ragazza della media borghesia (Irasema Diliam) e infine si innamora di
Teresa Venerdì (Adriana Benetti), esuberante diciottenne che ha conosciuto in quanto direttore sanitario dell’orfanotrofio in cui la giovane risiede. Tutti i nodi vengono al pettine in una nottata tempestosa allorché le tre
rivali si ritrovano nell’abitazione del medico: Teresa riesce a sbaragliare le contendenti le quali, spaventate dalle stravaganti storie inventate dalla giovane che si fa passare per la sorella del medico, rapidamente
abbandonano la scena; poi in modo rocambolesco Teresa si procura una forte somma (circa 39000 lire) necessaria a saldare gli ingenti debiti del Vignali. A quest’ultimo, stupefatto e grato, non resta che sposarla. L’intreccio
è tutt’altro che originale; tuttavia De Sica sa vivificare ognuno degli episodi che lo compone. La descrizione amorevole e pietosa della vita nell’orfanotrofio è una bella pagina che già rivela il futuro, sensibile narratore di
amare vicende di ragazzi trascurati e feriti (I bambini ci guardano, 1943; Sciuscià, 1946; Ladri di biciclette, 1948); ad essa si contrappone l’ambiente lezioso e stucchevole della famiglia medio borghese
Passalacqua la cui divertente e certamente eccessiva vacuità appare un omaggio alla politica astiosamente antiborghese inaugurata dal regime fascista alla fine degli anni trenta. Tra i due antitetici ambienti si situa il mondo
della rivista esemplificato mediante il ritratto della cinica cantante Loletta quale luogo della simulazione e della falsità (l’amante del medico è un’evidente profittatrice, nonché la causa primaria del dissesto finanziario in
cui versa quest’ultimo). Il girotondo sentimentale trova pungenti contrappunti comici nelle figurine dei tre creditori, sempre in agguato ed in lotta perfino per accaparrarsi la poltrona migliore nell’atrio della villa del
Vignali; ma è soprattutto il cameriere Antonio (un ex stalliere interpretato da Virgilio Riento) la carta vincente: dal momento della sua entrata in scena ogni battuta sentimentale e languida trova una perfetta neutralizzazione
nelle goffaggini a ripetizione poste in essere dal maldestro servitore. Il segreto della riuscita di Teresa Venerdì consiste nel vivace ritmo del montaggio entro il quale gli opposti continuamente si cercano e cozzano l’uno contro l’altro: la miseria dell’orfanotrofio e il lusso delle case borghesi, la serietà delle direttrici scolastiche e l’atteggiamento sbarazzino e svogliato del medico, la ridondante retorica della ragazza borghese (solita declamare puerili versi di propria invenzione) e le battute taglienti (di un insolito realismo) del protagonista, le telefonate palpitanti di Lilli ed i “grugniti” spicci del domestico. Il gioco degli opposti, a volte coesistenti nella medesima inquadratura, costruisce un caleidoscopio vario e spesso sorprendente entro il quale la freddezza piuttosto cinica e individualista del Vignali finisce per smontare tutte le differenti opzioni circostanti (romantica, sensuale, poetica, impegnata) per approdare a una visione disincantata del reale, priva di ogni risonanza collettiva e basata su un empirico pragmatismo assai lontano dalle direttive dell’etica fascista e di tanto cinema coevo.
Come già in Maddalena.. zero in condotta De Sica gioca abilmente con le esigenze della politica culturale fascista: la blandisce irridendo la grassa borghesia faccendiera e “pacifista” ed al tempo stesso la pugnala al cuore, offrendo un modello di comportamento scettico, edonistico, vagamente indolente e certamente antieroico.
Un anno e mezzo dopo ritroviamo qualcosa di simile nel modesto I nostri sogni
(giugno 1943; 80 min.), pellicola che segna l’esordio cinematografico di Vittorio Cottafavi (Modena, 1914), il quale aveva iniziato da alcuni anni a lavorare come aiuto regista. La storiella, ricavata da una commedia (1937) di Ugo Betti, sceneggiata da ben sei autori tra i quali spiccano Vittorio De Sica, Cesare Zavattini e lo stesso regista, ritrae il simpatico sfaccendato Leo (Vittorio De Sica) che vive di piccoli imbrogli il quale - per un insieme stravagante di coincidenze - si spaccia per milionario con la giovane telefonista Titi (Maria Mercader). Per una sera la coppia si concede ogni lusso (si recano al “Ragno d’oro”, un ristorante faraonico), dimenticando la propria opaca realtà quotidiana senonché, poche ore dopo, l’imbroglio viene a galla (la ragazza e la sua famiglia però non sapranno mai la verità) e ogni personaggio torna al proprio contesto abituale.
Il film, nel quale la presenza di De Sica (nel doppio ruolo di attore e sceneggiatore) è centrale, ricalca alcuni tratti di Teresa Venerdì riguardo a un certo scetticismo complessivo che accompagna la figura del protagonista e anticipa - nel suo tono apertamente favolistico in cui si agitano milionari onnipotenti, professionisti servili, umili impiegatucci e truffatori di buon cuore - perfino certe atmosfere di Miracolo a Milano (1951). Se tutto ciò è vero, il risultato appare decisamente anomalo in riferimento alla politica culturale del regime, per la verità ormai prossimo allo sbando.
Innanzitutto l’aver eletto a protagonisti una coppia di imbroglioni (a De Sica fa da spalla un bravissimo Paolo Stoppa) è una prima dissonanza politica: nel cinema fascista ladri e truffatori erano minoranze (si pretendeva
fossero stati debellati dalle politiche del regime) da far entrare in scena con le dovute cautele e in posizioni assolutamente marginali. In secondo luogo il racconto indugia con compiaciuta cattiveria nell’illustrare tutti i
disagi in cui vive l’umile classe impiegatizia di Titi: un piccolo appartamento umido e male arredato, cibi ridotti all’essenziale, l’esigenza di tenere per casa un pensionante ecc. Così la classe piccolo borghese, da sempre
spina dorsale del regime lodata in tutta la cinematografia mussoliniana, viene descritta come miserabile e desolata. Non solo. Essa appare priva di ogni fierezza (quella fierezza che anima decine di personaggi umili e
orgogliosi della coeva cinematografia) e smaniosa di accedere, anche per una sola serata, nei santuari di quella alta borghesia da anni vituperata e descritta come parassitaria. Il sogno è in definitiva quello di entrare nei
grandi ristoranti e venire serviti da decine di eleganti camerieri mentre un taxi attende fuori, per ricondurvi a casa. A poco servono le correzioni finali allorché il giovane pensionante - figura grigia e noiosetta di
cinefilo (parla solo di andare al cinematografo) geloso, in ansia per l’avventura della ragazza con il presunto milionario - e la famiglia di Titi si precipitano al ristorante, temendo che Leo possa approfittare della ingenuità
della telefonista. Nel siparietto finale di sapore moralistico l’etica di regime viene ristabilita: tutti i personaggi rifiutano i numerosi vantaggi offerti loro dalla situazione insolita per fare orgogliosamente ritorno al
proprio grigiore. Ma ormai nessuno può dar credito a quei gesti meccanici. I nostri sogni insomma è un filmetto di fine fascismo nel quale scalpitano idee nuove, peraltro non proprio geniali: il lavoro quotidiano è una prigione, gli scarsi guadagni provocano un’angusta desolazione esistenziale e la felicità coincide nell’aver accesso all’universo dei potenti. Non manca il giovane serioso che predica da mattina a sera e si rinchiude in solitudine nei cinema: vi si può intravedere il futuro “intellettuale organico”.
Accantonate le vecchie logiche del
corporativismo, gli autori dunque si muovono entro le coordinate di un neomaterialismo economicista e dipingono situazioni segnate da un’evidente frustrazione globale attribuita (o meglio - tramite pellicole come questa - sapientemente istillata) a intere categorie sociali. All’orizzonte si profila (ormai è questione di un paio d’anni) la lotta di classe.
Mario Mattoli nasce a Tolentino (Macerata) nel 1898. Abbandonata negli anni venti la carriera di avvocato, il giovane si dedica dapprima al teatro, poi passa al cinema in qualità di produttore nei primi anni
trenta. L’esordio come regista avviene con Tempo massimo (1934) cui seguono, nel periodo 1936-40, un notevole numero di pellicole (circa tre l’anno) tra le quali prevale il genere della commedia brillante.
Una prima prova di completa maturità si trova nell’ammirevole Luce nelle tenebre
(luglio 1941; 80 min.), film drammatico e ricco di sfaccettature, basato su un soggetto dell’autore. Vi si racconta di due sorelle - la torbida Clara (Clara Calamai) e l’angelica Marina (Alida Valli) - entrambe innamorate dell’ingegnere minerario Ferrari (Fosco Giachetti); quest’ultimo si lega alla prima mentre la seconda soffre in silenzio, senza peraltro perdere completamente la speranza. Clara intanto continua a vedersi con l’amante di sempre, lo spregiudicato violinista Sartori (Carlo Lombardi) e quando il fidanzato parte per il Turkestan, lo lascia e segue il musicista in un giro di concerti. Intanto Ferrari subisce un grave incidente: aggredito in miniera da alcuni predoni, perde la vista a causa di un incendio, causato dalla colluttazione. Tornato a Roma l’uomo viene amorevolmente accudito da Marina, che si fa passare per Clara. Nel tesissimo finale - riacquistata la vista dopo un intervento chirurgico - il protagonista, a sorpresa, guarda con disprezzo Clara e si avvia con Marina verso una nuova esistenza. Da tempo aveva capito chi realmente lo amava e si stava prendendo cura di lui.
La pellicola, raccontata con ottimo senso del ritmo, interpretata con encomiabile e misurata partecipazione emotiva da parte di tutti gli attori (ottimo anche Campanini nel ruolo più “leggero” dell’amico inseparabile del
protagonista) e commentata da pagine musicali di Chopin e Liszt, coinvolge lo spettatore con garbo, senza eccessi di cattivo gusto e con una scelta sempre elegante nel taglio delle inquadrature (pochi e ben dosati i primi
piani) e dei movimenti di macchina. Essa si presta inoltre a una serie di considerazione che vanno ben oltre la semplice vicenda amorosa. Ambientato nell’ambito della media borghesia produttiva, il film oppone - come di
consueto - tipologie positive centrate intorno al concetto di dedizione (al proprio lavoro o al proprio uomo), esemplificate nei personaggi dei due ingegneri, del padre chirurgo (Enzo Biliotti) delle due sorelle e di Marina,
fedele a oltranza, al proprio sentimento d’amore e tipologie negative, tipiche della propaganda fascista, incarnate dalla fatua Clara e dal suo compagno violinista, personaggi “inutili” che trascorrono il proprio tempo in
lussuosi caffé e finiscono in rovina (ridotti in miseria, alloggiano in una pensione per prostitute). Per numerosi aspetti la pellicola sembra dunque allinearsi ai consueti luoghi comuni della cultura del regime, senonché
un’attenta disamina viene scoprendo aspetti imprevedibili e a tal punto coraggiosi da far pensare che si tratti - da parte di Mattoli - di simbologie in parte inconsapevoli. Siamo nell’estate 1941, quando la guerra si sta
trasformando in guerra lunga e desolata. La fede incrollabile nelle magnifiche sorti progressive del fascismo sembra vacillare, e ciò è percepibile anche in alcuni dettagli secondari di Luce nelle tenebre, dettagli che però non possono passare inosservati.
I due ingegneri scelgono di servire la patria, accettando un incarico pericoloso, da tutti evitato. Finiscono così in Turkestan, ovvero tra figure esotiche in un contesto simile a quello coloniale africano. L’esotismo
tuttavia perde rapidamente ogni banale fascino e si carica di ombre sgradevoli e minacciose. Così la scelta di servire con indomito coraggio le esigenze della patria non viene premiato dall’autore del racconto; è anzi causa di
sofferenze inattese e di una rovina che appare quasi definitiva. La gente del luogo infatti è inospitale e pericolosa, svogliata e pronta ad aggredirti fino ad accecarti. Lo spingersi lontano - in terre ignote - è dunque un
fatto negativo e vi si può leggere quindi un giudizio di totale dissenso riguardo alle imprese imperiali e africane (in particolare all’apertura del fronte angloegiziano). Il fervente ingegnere torna a casa cieco perché è
sempre stato cieco: non ha capito che il regime gli andava chiedendo troppo. Insomma gli Italiani sarebbero un popolo che vive nelle “tenebre”: si è ciecamente affidato a un Potere superiore incontrollabile e avventurista (dei
propri kafkiani Superiori i due amici parlano in termini di entità inarrivabili e oscure) e ora dovrà scontare il proprio peccato di eccessivo fideismo. Come in numerose pellicole coeve, la soluzione sembra essere il
Vaticano (non a caso un entusiasta Centro Cattolico definisce il film per “tutti”, nonostante i numerosi episodi scabrosi, insolitamente espliciti, legati alla figura di Clara). L’amore “salvifico” di Marina trova infatti una
prima benedizione durante una funzione liturgica (episodio iniziale - sui monti della Val d’Aosta - evidentemente simbolico, in quanto privo di qualunque funzione narrativa) mentre la finale, “miracolosa” riacquisizione della
vista avviene in parallelo con insistenti immagini di una statua della Madonna: un popolo accecato dalla demagogia (la miniere dell’Asia, l’amore non corrisposto per l’avventuriera Clara) torna a vedere e a capire con
equilibrata intelligenza (l’amore per l’esemplare Marina, il cui nome assomiglia a quello della Vergine) con i propri occhi per intercessione della vera, arcaica e tradizionale fede, quella nella Chiesa di Roma. Solo per tale
via si esce dalle perigliose “tenebre” e si ritorna ad abitare nella armoniosa “luce”. Un film di ambientazione scolastica è l’altrettanto ammirevole Ore 9: lezione di chimica
(settembre 1941; 91 min) di Mattoli, presentato alla mostra di Venezia. Tale pellicola, la quale condivide con quella desichiana la presenza dell’attrice Irasema Diliam in un ruolo principale, si colloca per il resto agli antipodi dei tratti realistici, dell’ambientazione umile e dell’insolito scetticismo che percorrono Teresa Venerdì;
infatti ora abbiamo a che fare con un collegio femminile esclusivo destinato all’alta borghesia e con una commedia la quale giunta a metà accantona i toni gai e vira verso un dramma intenso e calibrato. Ore 9: lezione di chimica si basa su un soggetto di Laura Pedrosi sviluppato in sceneggiatura dal regista aiutato da Marcello Marchesi. Vi si racconta la rivalità tra due allieve, Anna (Alida Valli) innamorata di Marini, il professore di chimica (Andrea Checchi) e Maria (Irasema Dilian), ragazza introversa che nasconde un segreto. Una notte quest’ultima viene vista dalle altre durante un convegno notturno con un uomo. Anna, convinta che l’uomo sia l’adorato professore, in preda alla gelosia denuncia la compagna la quale, durante una notte temporalesca fugge precipitosamente dal collegio e si ferisce gravemente. Ricondotta priva di sensi nella scuola viene salvata dalla trasfusione di sangue offerto proprio da Anna la quale nel frattempo ha compreso il proprio errore (nell’incontro segreto Maria aveva incontrato il padre in procinto di consegnarsi alla giustizia per motivi poco chiari). Nel felice epilogo la giovane conquista finalmente il professore e nelle ultime immagini la scolaresca fa lezione di chimica con una differente insegnante (così come un nuovo, anziano direttore sanitario compariva nella conclusione di Teresa Venerdì).
Mattoli dirige con eleganza e sicurezza questa semplice fiaba. Nella prima parte descrive l’ambiente elegante del collegio femminile (lezioni di equitazione, di pianoforte a quattro mani, di cucito) senza alcuna presa di
distanza, con brio divertito (si pensi alla macchietta del bidello Campanelli) e con attenzione per l’universo fantastico-amoroso delle giovani allieve; ed in tal senso il film sembra inizialmente porsi agli antipodi del citato
atteggiamento critico desichiano nei confronti del mondo borghese. Nella seconda parte invece i toni si fanno foschi, le immagini scure (prevale l’ambientazione notturna) e tempestose, la musica trova accenti turbinosi (la
colonna sonora rielabora in veste sinfonico-romantica il celebre, drammatico tema del Grave introduttivo della Sonata op 13 - Patetica per pianoforte di Beethoven): la narrazione diviene allora tesa, misteriosa e si incanala entro un magistrale crescendo che tocca il proprio apice nella sequenza della fuga sotto la pioggia scrosciante e poi delle tempestive cure mediche. Tutte le tensioni vengono abilmente sciolte e il luminoso epilogo, ambientato durante le prove di una recita scolastica, possiede qualità le necessarie qualità riequilibratrici (opportunamente la musica opta ora per l’arrangiamento orchestrale del grazioso e danzante Tempo di minuetto della Sonata op 49 n. 2 per pianoforte sempre di Beethoven).
L’opera di Mattoli è dunque un elegante saggio di classicismo cinematografico nel suo passare dalla serena distensione iniziale alle tensioni centrali guidate verso un climax narrativo sapientemente risolto mediante la
ricomparsa delle spensierate atmosfere dell’incipit. Essa costituisce dunque un buon saggio cinematografico quasi totalmente irrelato rispetto al contesto storico in quanto nessuna preoccupazione bellica si insinua nel mondo
dorato e quieto delle giovinette borghesi, scosso solo da innocenti preoccupazioni amorose. In ogni caso, sebbene (come si è detto) il regista guardi con simpatia all’universo altoborghese del collegio, giunti alla fine della
pellicola si scopre che le figure più interessanti ritratte dall’autore si collocano ai margini di quel mondo: sono infatti il popolano Campanelli, il semplice professore di chimica che alloggia in una modesta pensione i cui
modesti arredi stridono con quelli sontuosi del collegio e il padre di Anna, un esuberante arricchito di umili origini (la sua parlata possiede cadenze dialettali) dai tratti caratteriali vagamente simili a quelli del frenetico
miliardario di Centomila dollari (Camerini 1940). Mattoli dunque non smentisce la linea politica di un cinema fascista che guarda con sospetto alla borghesia sofisticata e “lassista” cui antepone gli atteggiamenti schietti, fattivi ed anche un po’ grossolani che segnano le figure di estrazione popolare.
La pellicola ottiene un enorme successo; Mattoli ne girerà un remake con Le diciottenni (1955) interpretato da Marisa Allasio (Anna), Virna Lisi (Maria) e Antonio De Teffé (il professore) che si rivelerà invece un mezzo fiasco.
Tra le ragazze in fuga possiamo annoverare anche Mara (Vanna Vanni) de Un marito per il mese di aprile (feb. 1941; 75 min.), scadente commedia di Simonelli intorno a questa fanciulla la quale,
perseguitata da un ammiratore ossessivo, si inventa un marito (Carlo Romano). Quest’ultimo dapprima riesce a demotivare l’ingombrante corteggiatore e poi, ovviamente, conquista realmente Mara. Nozze finali. Il carattere
frivolo e teatrale del racconto non si trasforma in vivace umorismo: situazioni ripetitive e prolisse si susseguono nel contesto stucchevole e irreale di un’alta borghesia come sempre impegnata in futili divertimenti (viaggi,
tavoli da gioco ecc.). Il disperato tentativo di rendere simpatici questi assurdi personaggi (cui non è dato alcun contraltare; manca il consueto piccolo borghese attivo, leale e concreto) evita l’abituale atteggiamento
caustico nei confronti di questa borghesia sfaccendata. Fuori dalla sala l’Italia in guerra non sembra avere alcun punto di contatto con questi risibili personaggi da operetta.
Luigi Chiarini, originario di Roma (n. 1900), è tra i fondatori del Centro Sperimentale di Cinematografia (1935) del quale è direttore fino a tutto il periodo bellico. Critico e saggista esordisce alla regia
con Via delle cinque lune (maggio 1942, 81 min.), elegante pellicola tratta dal racconto O Giovannino, o la morte (edito nella raccolta All’erta sentinella! Racconti napoletani, 1889) di Matilde Serao,
sceneggiata dal regista con l’aiuto di Francesco Pasinetti e Umberto Barbaro. Vi si racconta della tragica rivalità di matrigna e figliastra nei confronti del fidanzato di quest’ultima, una rivalità che termina con il suicidio
della giovane. Ambientato nei quartieri popolari adiacenti a piazza Navona, nella Roma di metà Ottocento (che sostituisce la cornice napoletana presente nel testo della Serao), la vicenda offre numerosi motivi di riflessioni
che oltrepassano il consueto, abusato triangolo passionale. Lo scontro tra le due donne, Sora Teta (Olga Solbelli) e Ines (Luisella Begli), acquista l’aspetto di uno scontro morale tra due visioni del mondo, quella
materialistica della quarantenne spregiudicata, un’usuraia che costruisce una fortuna sulle sofferenze della povera gente che le chiede dei prestiti, e quella spirituale della giovane ventenne che passa la propria esistenza con
le monache (per le quali lavora) e che, delusa dal fidanzato Checco (Andrea Checchi), medita di prendere il velo. L’uomo, dapprima sinceramente innamorato, si lascia corrompere dalla matrigna, cede al suo torbido fascino, alle
sue ricchezze e causa, con la sua condotta amorale, il suicidio della ragazza, sconvolta dall’avere scoperto di colpo la tresca in atto. Stile filmico e contenuto morale stupiscono in questa prova decisamente
anticonformistica di Chiarini (quasi certamente il suo film migliore). Il linguaggio adottato è di un’eleganza ineccepibile: fluidi movimenti di macchina accarezzano figure e cose, scenografie e tavolate, avvicinandosi ed
allontanadosi dall’oggetto della narrazione con notevole libertà e fantasia. L’apice viene toccato nella virtuosistica sequenza al teatro d’opera, con un carrello sopraelevato che scorre orizzontalmente lungo i palchi,
illustrando un panorama umano variegato e complesso. Se il distacco dalla materia è ampio e ogni processo di identificazione viene mortificato, d’altro canto la grande scena madre conclusiva, con la scoperta del tradimento in
atto reso con un primissimo piano (un dettaglio dello sguardo) stupefatto e aggiacciante dell’innocente fidanzata, è un brano d’antologia che di colpo immerge lo spettatore in una realtà lacerante e lo fa partecipe del gesto
estremo di Ines la quale, immediatamente, si getta nello strapiombo della corte popolaresca e giace morta in un campo lungo che la ritrae in un rettangolo di luce, contornato da contrastate ombre. Insomma la mdp di Chiarini
rimane sempre lontana, contempla il male e il bene, la passione torbida e la purezza incantevole senza eccessive emozioni, in una Roma ottocentesca un po’ oleografica, nella quale la ricchezza dei dettagli pittoreschi sconfina
spesso nello scenario teatrale inerte e calligrafico. Quando però la tragedia esplode, l’autore registra il dramma con un’austera concisione legata a immagini di intensa forza espressiva. Il contenuto invece offre una
materia scabrosa, del tutto insolita per il coevo cinema italiano. D’altro canto, La cena delle beffe aveva schiuso la via (pochi mesi prima) al racconto a forte tinte erotiche e dunque il lavoro di Chiarini si inserisce in quella produzione volta a offrire emozioni forti a un pubblico demoralizzato dagli eventi bellici. In tal senso appare largamente scontato il giudizio negativo (“escluso”) del Centro Cattolico. Va aggiunto che se la pellicola propone un dramma scabroso piuttosto esplicito, peraltro essa termina in maniera talmente desolata che si resta stupiti dal fatto che la censura del regime abbia concesso il nullaosta a un simile film. Il suicidio era materia mal vista nelle direttive del Ministero della Cultura Popolare, tanto più che questo brutale suicidio del personaggio principale, ritratto senza ellissi, poteva prestarsi a letture simboliche piuttosto sconcertanti. La giovane che cerca rifugio presso le monache, sta per farsi suora, poi affronta la realtà e ne muore, appare un simbolo (quasi certamente inconsapevole) della tragedia italiana in corso: la tentazione di affidarsi al Papato, ricorrente in numerose pellicole del periodo (in questa però le religiose sono dipinte senza particolare simpatia), è anche qui l’unica via di salvezza mentre la decisione di tornare a “combattere la propria battaglia” amorosa risulta fatale e trascina la ragazza alla completa rovina. L’usuraia trionfa e l’innocente, fragile ed ingenua, soccombe.
Si noti infine che l’intero episodio delle monache, che -come si è visto - culmina nell’intenzione di Ines di fuggire il mondo e prendere il velo, è l’unico inventato dai tre sceneggiatori i quali, per il resto, si tengono
sostanzialmente aderenti al racconto della Serao. Questo fatto aggiunge interesse alla lettura simbolica sopra svolta e la rende ancor più credibile: forse senza averne piena coscienza, Chiarini si allinea alla tendenza -
diffusa in quei primi anni quaranta - di volgere il proprio sguardo al Vaticano quale possibile via di salvezza. La descrizione della realtà popolare romana approda a uno spettacolo venato di cinismo (atteggiamento insolito
nel cinema del regime, abituato a guardare con favore gli strati più umili della nazione) in cui la parte sana del tessuto sociale soffre e patisce la brutale corsa all’arricchimento della strozzina e dei suoi accoliti.
L’avidità regna sovrana e la lotta per la “roba” annichilisce ogni sentimento di pietà. Poi il desiderio sensuale della donna, alle soglie della vecchiaia, la rende cacciatrice implacabile e vampiresca, disinteressata perfino
delle ricchezze materiali, ormai già ammassate in quantità. In questo scenario turpe si consuma il sacrificio della giovane incauta mentre in scenari europei altrettanto cupi e governati da una simile, irrefrenabile volontà di
potenza va prendendo corpo il fallimento dell’Italia quale stato sovrano e il suo incamminarsi verso il suicidio politico (la resa incondizionata è di pochi mesi successiva). Nel secondo, deludente lavoro,
La bella addormentata
(settembre 1942; 90 min.), il regista si ispira all’omonimo dramma teatrale (1919) dello scrittore siciliano Rosso di San Secondo (sceneggiato da Umberto Barbaro, Vitaliano Brancati e dallo stesso Chiarini) per dare voce, ancora una volta, a una serrata critica dell’immobilismo ipocrita di una certa borghesia.
In un paesino siciliano la ragazza in fuga è Carmela (Luisa Ferida), domestica in casa di un notaio smidollato (Osvaldo Valenti) succube di un’arcigna zia (Teresa Franchini), nonché difesa da Salvatore, un esuberante e
temuto popolano (Amedeo Nazzari). Violentata dal padrone scappa dalla dimora dei notabili e finisce a fare la prostituta nel caffé del paese per la gioia dei signorotti locali. Salvatore la salva e impone al notaio un
matrimonio riparatore; la giovane, fragile e come perennemente assorta in uno strano “sonnambulismo”, non regge alla situazione e muore. Come si nota, il racconto possiede evidenti analogie con Via delle cinque lune: vi
si ritrova il tragico percorso esistenziale di una “ragazza in fuga”, circondata da un contesto meschino e corrotto. “La vera canaglia è quella che si chiama galantuomo” va urlando, nella scena madre centrale, il popolano
rivolto al notaio, mentre gli riporta la giovane umiliata e offesa; così, seppure all’interno di un film dai notevoli pregi “pittorici”, popolato da inquadrature complesse e studiate di indubbio pregio, tutto si riduce
nuovamente all’eterna polemica antoborghese del fascismo in guerra. Le figure del lavoro risultano quantomai stereotipate e astratte: l’onesto popolano raddrizzatorti, la giovane sprovveduta e bamboleggiante oltre l’accettabile
e i borghesi meschini e insensibili (la zia è una macchietta francamente ripetitiva e indigesta); intorno a loro un paesino cartolinesco e inverosimile genera la sensazione di una recita artefatta, di una “poesia” cercata ed
esibita con evidente compiacimento autoriale ma sostanzialemnte priva di umana verità e di partecipazione emotiva. Insomma uno sterile accademismo allineato con le esigente politiche del regime.
Il medesimo atteggiamento antiborghese anima a tratti alcune commedie brillanti di Raffaello Matarazzo, film simili ai sopracitati lavori di De Sica e Mattoli quanto ad ambientazione ma nettamente inferiori
quanto a esiti stilistici. Si tratta di L’avventuriera del piano di sopra (ottobre 1941; 82 min.), Giorno di nozze (settembre 1942; 93 min.) e Il birichino di papà (febbraio 1943; 80 min.). Nel primo, basato su sogetto e sceneggiatura dello stesso Matarazzo, il taglio critico è latente e il regista si abbandona al semplice, usurato meccanismo narrativo che intreccia le vicende di due coppie borghesi in una stiracchiata commedia degli equivoci.
Finalmente liberatosi della moglie (in partenza per impegni familiari), Fabrizio Marchini si trova in casa una bella sconosciuta (Clara Calamai), in fuga da un marito prepotente (Camillo Pilotto); al mattino la donna è
sparita insieme a una collana di valore. Preso dal panico l’uomo, aiutato da un amico (Carlo Campanini), la ritrova (si è rifugiata dai genitori) mentre sul posto sopraggiungono anche la moglie rientrata anzitempo e il marito
della fuggitiva. Ogni malinteso si chiarisce e la pace familiare sembra essere ristabilita. Il semplice meccanismo narrativo mostra presto la corda poiché la trattazione che si vorrebbe brillante è affidata ad attori poco
convinti, dialoghi privi di sorprese e prolissità inaccettabili in una commedia degli equivoci che dovrebbe almeno correre indiavolata al fine di far dimenticare la propria pochezza contenutistica (la storia si riduce a un paio
di situazioni dilatate senza estro al fine di raggiungere la durata standard di un lungometraggio). Lo sguardo di Matarazzo è per ora innocuo: i suoi eroi borghesi, affaccendati in piccoli litigi matrimoniali, sono guardati con
distacco ma non sottoposti a critica. Manca inoltre qualunque riferimento al contesto bellico. Il film verrà rifatto da Giorgio Bianchi in Buonanotte.... avvocato! (1955) con Alberto Sordi e Giulietta Masina nei ruoli principali.
In Giorno di nozze (ispirato alla commedia Fine mese di Paola Riccora) si raccontano invece le difficoltà della modesta famiglia Bonotti allorché deve affrontare i preparativi per le nozze della figlia (Anna Vivaldi alias Proclemer), fidanzata con il discendente (Roberto Villa) di una famiglia milionaria guidata dal dinamismo incontenibile del padre (Antonio Gandusio) del fidanzato. I Bonotti si indebitano oltre ogni limite per rinnovare il proprio appartamento al fine di non sfigurare con i futuri parenti nel giorno del matrimonio; intanto però l’inarrestabile uomo d’affari sembra essersi rovinato con le proprie mani a causa di un’azzardata speculazione finanziaria. Così nelle ultime battute sarà proprio questi a implorare un prestito dal modesto padre della sposa (Armando Falconi) il quale però, a causa di una fortunata coincidenza (un telegramma non spedito) ha in realtà salvato l’uomo d’affari.
L’intero film si basa sulla verve esuberante di Gandusio il quale trascina gli eventi con modi chiassosi e inverosimili secondo un copione scontato e molto presto stucchevole. Superata l’iniziale simpatia il pubblico però
viene invitato a guardare con scetticismo alla vacuità di questo esponente dell’alta borghesia che parla esclusivamente di milioni, titoli azionari e misteriose riunioni d’affari ai quattro angoli del pianeta. Ciò che risulta
evidente nella raffigurazione di questo ceto finanziario è che esso appare sganciato dalla realtà nazionale e occupato in enigmatiche, “cosmopolite” transizioni cartacee irrelate al mondo concreto della produzione industriale
(ossia della reale ricchezza nazionale) e con l’universo autarchico della semplice piccola borghesia fedele al regime. In breve tempo dunque questo personaggio assume i contorni di uno sciocco logorroico che ha costruito le
proprie fortune su alcune felici operazioni borsistiche (forse casuali) e che può rapidamente precipitare nella miseria a causa dei propri azzardi. Di contro il padre della sposa, umile lavoratore che si è sempre testardamente
sacrificato per il benessere della figlia, e proprio per ciò è ora perseguitato da avidi creditori, risulta al termine la figura vincente da ogni punto di vista. Insomma la polemica antiborghese del fascismo permea ogni pagina
di questa modesta pellicola e indica per l’ennesima volta la “disimpegnata” borghesia finanziaria quale quinta colonna delle forze nemiche. Nel successivo, altrettanto frastornante Il birichino di papà
(ispirato a un lavoro comico di Henry Koch) l’intreccio è ancora più banale e l’esito di qualità irrisoria. Vi si narra di una ragazzina in fuga (Chiaretta Gelli) per salvare l’esito dell’infelice matrimonio della sorella (ancora Anna Vivaldi) sposatasi con un infido, giovane aristocratico. Si ripete pertanto quello sguardo di antipatia critica nei confronti dei ceti più ricchi della nazione.
Raffaello Matarazzo, nato a Roma nel 1909, lavora nel cinema a partire dagli anni trenta. Dopo alcune sceneggiature esordisce alla regia con Treno popolare (1933), una delle migliori pellicole del decennio e prosegue con una produzione abbastanza esigua (meno di un film l’anno) rispetto alla media del periodo.
Altrettanto modesto e simile nell’impostazione ideologica è Soltanto un bacio (maggio 1942; 80 min.), undicesima fatica di Giorgio Simonelli, basata su una sceneggiatura di Giuseppe
Marotta, Francesco Pasinetti, Gianni Puccini e Belisario Randone. La vicenda è arcinota: Luisa Berni (Valentina Cortese), una fanciulla, ricchissima presidentessa di un’importante impresa, detesta il proprio ambiente familiare
nobile e altoborghese e si innamora di Gianni Astolfi (Otello Toso), un pianista squattrinato (per farsi accettare da lui si fa credere la cameriera di casa Berni…). La cerchia della giovane – il solito branco di idioti (almeno
some tali vengono descritti, in stretta osservanza al populismo “mazziniano” del regime) – la mette al bando; ciononostante Luisa, sicura di sé, opta per l’amore e impone la propria scelta sentimentale a tutti. Nelle vicende
secondarie compaiono un generoso professore (Carlo Campanini), amico di Gianni e una giovane innamorata delusa, entrambi simpatici e umanissimi in quanto appartenenti all’universo piccolo borghese, nettamente contrapposto a
quello di casa Berni. La pellicola è inconsistente e stiracchiata, lenta nel ritmo e attraversata da un’ironia che non diverte nessuno, nonché interamente girata nei soliti interni stereotipati (più teatro che cinema,
insomma). A peggiorare le cose ci si mette anche Giovanni Fusco che trascrive per orchestra alcuni temi famosi di Chopin (in particolare quelli della Ballata in sol minore e della Fantasia-improvviso), avvolgendo il
modesto raccontino in sonorità inutilmente languide e “colte”. E’ nota l’antipatia di Mussolini e dei suoi gerarchi più fedeli per la monarchia: l’ossessiva denigrazione delle sfere altoborghesi e soprattutto nobiliari
avrebbe, prima o poi, giustificato presso le masse un colpo di mano antimonarchico (teso a liquidare anche l’ingombrante cerchia dei Savoia) che era nei programmi meno confessabili del duce. La tragedia bellica rende secondarie
queste macchinazioni e sarà, invece, proprio Mussolini, di lì a poco (il 25 luglio 1943), a venire liquidato, insieme al suo regime, proprio dagli odiati aristocratici.
Sempre il mondo aristocratico risulta essere il bersaglio del discreto Musica proibita (ottobre 1942; 90 min) di Campogalliani, su soggetto di Nito Vito Cavallo e sceneggiatura di Carlo Duse e del
regista. Nella Firenze di fine Ottocento (il film è girato in interni e possiede il consueto taglio teatrale) si racconta l’ennesima variante di Romeo e Giulietta: Paolo Marini, un povero cantante di talento (il celebre
baritono Tito Gobbi), costretto a mantenersi cantando nei varietà, si innamora della contessina Claretta Melzi (Maria Mercader). I parenti della ragazza la isolano dallo sfortunato spasimante mentre il fratello cerca di
screditarlo in ogni modo. Nel rocambolesco finale quest’ultimo viene ucciso e, per errore, Paolo viene processato (verrà assolto per insufficienza di prove). L’infelice storia si riverbera su quella dei figli (Giuseppe Rinaldi
e Letizia Quaranta) dei due protagonisti (ambientata al presente, sempre in un’immaginaria Firenze, in realtà negli studi cinematografici di Torino) i quali, ovviamente, si amano: dopo alcune incomprensioni e, soprattutto dopo
un drammatico chiarimento tra gli antichi amanti (la donna ha sempre creduto Paolo colpevole per la morte del fratello), tutto si accomoda. La nuova generazione potrà ottenere ciò che non riuscì a quella passata. La
prevedibile antitesi tra passato infelice e presente soddisfacente propone il tipico schema propagandistico di tutti i regimi rivoluzionari e, in particolare, appare assimilabile a quello prevalente nei regimi comunisti
(dapprima nel cinema sovietico e, dopo il 1945, in quello d’oltrecortina): il passato viene sempre dipinto come un inferno mentre il presente offre la giusta soluzione per ogni problema. Così nell’Italia fascista che, come
noto, guarda con enorme simpatia innanzitutto alle classi più umili, i pregiudizi classisti sono stati finalmente cancellati e la vicenda amorosa tra il figlio di un celebre cantante e la figlia di una contessa trova il proprio
lieto fine; al contrario nel passato, quando prevaleva il “corrotto” sistema liberale, gli aristocratici vivevano in un universo separato e potente e guardavano con sommo disprezzo alla gente semplice, la contessina “in fuga”
veniva perseguitata dalla propria famiglia e imprigionata dentro le mura domestiche, costringendo il giovane baritono a tentare un audace rapimento che finiva in tragedia. Come si nota l’ottica ideologica è sempre la solita e
viene propinata all’ingenuo pubblico secondo psicologie così stereotipate e stucchevoli da far insorgere persino meneghini, il critico dell’Osservatore Romano, il quale, recensendo il film nel giugno 1943, ricorda che una
simile supponente aristocrazia fiorentina non esisteva già più negli anni della nascita dello stato italiano, figurarsi a fine Ottocento. Accantonato il messaggio ideologico, funzionale a future svolte antimonarchiche, va
rilevato che la pellicola possiede buona scorrevolezza, interpreti abbastanza validi e, soprattutto nella concitata parte finale nella quale avviene il doppio scioglimento (chiarimento per entrambe le tormentate storie
amorose), si snoda con un ritmo serrato ed efficace. Inoltre l’elemento musicale (il titolo cita una bella romanza di Gastaldon del 1881) aiuta a rendere più intenso questo vero e proprio melodramma (come si è detto girato
tutto in interni), ennesimo esempio di quella continuità esistente in quei decenni tra teatro lirico al proprio crepuscolo e nascente (il sonoro parte dal 1930… )
cinematografo. Il valido commento musicale è firmato da Ettore Campogalliani e dall’organista e compositore monzese Gian Luigi Centemeri (1903-97), destinato a lunga e importante carriera musicale.
Dopo Carmela (1942, vedi), film tratto da De Amicis, Calzavara torna a fare coppia con Doris Duranti per Calafuria
(marzo 1943, 80 min.), pellicola ispirata all’omonimo romanzo (1929) di Delfino Cinelli, sceneggiata dal regista. Il tono drammatico e le atmosfere espressioniste (generate dalla fotografia fortmente contrastata, alla quale Calzavara ricorre frequentemente) ricordano il precedente lavoro, anche se adesso gli autori prendono di petto l’attualità e firmano un film di perfetta propaganda fascista in cui il prevalente atteggiamento antiborghese viene esasperato dalla equivoca provenienza della “innocente” protagonista (i vicoli più malfamati di Firenze, quelli delle prostitute e delle case chiuse).
Tommaso (Gustav Diessl), un pittore prigioniero di un fatuo ambiente sociale altoborghese (una fidanzata petulante, uno zio moralista), passeggiando di notte tra i luridi quartieri delle prostitute fiorentine si
imbatte in Marta (Doris Duranti, che si pretende quindicenne... ), l’ennesima “ragazza in fuga” perseguitata da un presunto padre. La porta con sè nel proprio lussuoso albergo (dove cominciano le opposizioni di rito) e poi
addirittura a casa propria, a Livorno (Calafuria è una torre di avvistamento medievale che faceva parte della cinta difensiva sul mare). Tommaso la presenta come una ragazza per bene, appassionata di cose artistiche, ma presto
la verità viene a galla. Intanto il pittore e la ragazza sono diventati amanti e Marta è addirittura incinta. La pressione dell’ambiente sociale altoborghese e retrivo (come sempre... ) costringe la giovane a fuggire (farà
credere di essersi suicidata nei pressi della torre Calafuria) mentre Tommaso, disperato, si arruola in aviazione e va a combattere. In quest’ultima scelta ideale diviene ancora più esplicito il messaggio ideologico del regime:
i veri eroi appartengono alla gente umile, sono uomini d’azione e rifuggono dalle chiacchiere perbeniste dell’inconcludente universo borghese. Nel finale Tommaso, gravemente ferito ma vivo, ritrova miracolosamente Marta e il
suo bimbo nell’obbligatorio lieto fine (trattandosi di un lavoro di esplicita propaganda). Calafuria, pur iscritto in una rigida e scontata grigia ideologica, è tra le migliori pellicole di Calzavara: gli interpreti
sono convincenti, gli ambienti abbastanza curati, gli scenari marini posseggono forza espressiva e la pittura dei vicoli di Firenze è inedita e forte (come si vede non era solo Ossessione di Visconti a portare queste scomode realtà sullo schermo). Il film, inoltre, girato a pochi mesi dalla tragedia dell’8 settembre, appare uno degli ultimi, accorati appelli alle rimanenti forze fasciste nonché l’ennesimo astioso atto d’accusa nei confronti di una borghesia attendista e ormai distante dal fascismo (come tale assai saggia, aggiungiamo noi) che non sopportava il carattere populista del regime.
Il film appare dunque emblematico dell’ultima fase del cinema fascista: la tematica della ragazza innocente, che fugge da un ambiente malsano e cerca di redimersi (percorso che culmina addirittura nella maternità, valore
sommo per il regime), si salda a quello dell’artista che lascia da parte un’attività divenuta inutile in quel frangente, accantona un ambiente classista, soffocante e anche disonesto (lo zio, conosciuti i trascorsi della
ragazza, tenta di violentarla) e sceglie di andare a combattere nei cieli d’Italia. Alle anguste stanze dell’abitazione dello zio (Aldo Silvani), piene di ”inutili” libri e di scartoffie varie, si contrappone dunque
la bellezza degli aerei militari che sfrecciano alti nei cieli. Il cameratismo militare, protagonista dell’ultima parte del film, appare il virile antidoto a una realtà meschina e circoscritta, nella quale non si sa accogliere il diverso.
Interclassismo, eroismo militare, cameratismo, esaltazione degli umili, disprezzo per le classi colte e agiate: come si nota non vi è poi grande distanza tra il cinema mussoliniano e il futuro cinema “neorealista”. Il
fascismo della fase “imperiale” (post 1936) rimedita numerosi aspetti della cultura socialista della quale il giovane Mussolini fu un importante esponente per circa vent’anni.
testo scritto nell’apr 2005; ultimo aggiornamento: ott. 2017
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