The Man Who Knew Too Much

The Man Who Knew Too Much: complotti politici e gente comune (1934-56)

              “Let’s say that the first version was the work of a talented
              amateur and the second was made by a professional”
              Hitchcock parla delle due versioni di The Man Who Knew To
               Much
              con Truffaut in Il cinema secondo Hitchcock (1967)

The Man Who Knew Too Much (dic. 1934; 84 min.) è il settimo film sonoro del periodo inglese di Hitchcock. La vicenda, inventata da Charles Bennett e da altri sceneggiatori, racconta le peripezie di una famiglia inglese - Bob (Leslie Banks), Jill (Edna Best) e la loro figlioletta Betty (Nova Pilbeam) - in vacanza a S. Moritz (in realtà una serie di interni girati a Londra). Un loro amico (Pierre Fresnay) viene misteriosamente ucciso durante una festa e, prima di morire, confida ai coniugi uno scottante segreto: un importante leader politico verrà assassinato a Londra, di lì a poco. La polizia svizzera (la quale parla tedesco ed anche italiano) indaga ed interroga la coppia con modi autoritari ed ostili; nel frattempo i colpevoli, guidati da Abbot (un perfido Peter Lorre, reso celebre dalla recente interpretazione di M - Il mostro di Dusseldorf, Lang, 1931), hanno rapito Betty e costringono Bob e Jill al silenzio. Tornata a Londra, la coppia, disperata, continua a tacere anche con i servizi segreti inglesi e cerca di trovare autonomamente il nascondiglio dei rapitori. Mentre Bob riesce ad individuarlo in una cappella religiosa (ma viene prontamente catturato e affiancato a Betty), Jill si reca alla Royal Albert Hall dove, durante l’esecuzione di The Storm Clouds Cantata di Arthur Benjamin, avverrà l’omicidio eccellente. Nelle intenzioni dei congiurati, il colpo di pistola dovrà essere coperto dal frastuono dell’orchestra ed, in particolare, da un colpo dei piatti. Jill riesce a sventare l’omicidio e la polizia, dopo avere individuato la base dei congiurati, attacca l’edificio, ingaggiando un conflitto a fuoco degno dei coevi film gangsteristici di Hollywood (si pensi a Scarface, Hawks, 1933). Il bene trionfa.
La pellicola, sebbene ottenga un notevole successo in Inghilterra, appare decisamente modesta. Gli interpreti sono solo dignitosi, l’ambientazione è teatrale e priva di scenari interessanti, lo scontro a fuoco finale è stucchevole. Rimane all’attivo del film la grande sequenza del concerto dove, grazie anche all’ottima composizione del musicista australiano Arthus Benjamin (Sydney 1893 - Londra 1960), innervata da un’intensa crescente drammaticità, il regista perviene ad un esito entusiasmante. Benjamin si era stabilito definitivamente a Londra nel 1921 dove, tra l’altro, sarà insegnante di pianoforte di Benjamin Britten. La musica scritta per il film in questione è una vibrante e tesa cantata per soli, coro e orchestra in cui si dipinge uno scenario naturale oscuro e tempestoso e, musicalmente parlando, si ritrovano echi verdiani e brahmsiani. In essa gli episodi angosciosi sono sagacemente alternati con momenti di lirico abbandono, generando un’atmosfera sonora perfetta nella quale Hitchcock ambienta le scena madre del racconto, utilizzando tutte le tipologie dell’inquadratura (dai campi lunghissimi ai dettagli) con rara maestria. E’ certamente il desiderio di replicare tale esploit che porterà il regista al celebre remake del 1956.
Il film, inedito in Italia come la maggior parte dei film del periodo inglese di Hitchcock, si segnala anche per il preciso contenuto politico, decisamente profetico considerato l’anno di edizione. I cospiratori - gente insensibile ad ogni regola morale e decisa ad usare qualunque mezzo pur di ottenere l’esito desiderato - sono un gruppo di tedeschi dal carattere sinistro e duro nei quali si può chiaramente intravedere un duro gudizio sulla Germania, passata al nazismo (gen. 1933) da solo un anno (tuttavia c’era già stato, il 30 giugno 1934, il clamoroso episodio della “notte dei lunghi coltelli” ovvero l’eliminazione fisica della dirigenza delle SA di Rohm e di alcune figure di opposizione al nuovo regime, per ordine diretto di Hitler). Nell’ambientazione svizzera, segnata da dialoghi in tedesco e in italiano, è l’intero blocco nazifascista (italo-tedesco) ad essere preso di mira. E’ questo l’aspetto più interessante di una pellicola complessivamente fiacca e scolastica.

Il film omonimo (giu 1956; uscita italiana set. 1956; 120 min), girato circa vent’anni dopo a Hollywood, è decisamente superiore anche se il momento più interessante contiua ad essere la grande sequenza musicale (circa 9 min.) ambientata alla Royal Albert Hall (ora nelle vesti di direttore d’orchesta c’è Bernard Herrmann), quasi identica a quella del film inglese.
La sceneggiatura è ampiamente riveduta. La prima parte, dotata di un respiro più ampio e suggestivo, è ambientata a Marrakesh, la coppia di genitori è interpretata da James Stewart e Doris Day (entrambi ottimi) mentre la figlioletta si trasforma in un figlioletto. La visione hollywoodiana del mondo arabo si conferma paternalista e vagamente ostile. La famigliola americana in vacanza guarda con svagata superiorità un universo disordinato (si veda il “faticoso” ingresso dell’autobus in città) e arcaizzante, segnato da bizzarre e “sciocche” usanze (l’intera sequenza del ristorante). Mancano, tuttavia, nel nuovo film, riferimenti precisi ai mandanti dell’omicidio: tutto si riduce ad una faida interna alla dirigenza di un indefinito stato africano o asiatico mentre il carattere arabo del sicario così come la nazionalità inglese dei cospiratori appare casuale ed irrelata con l’attualità politica. Anche un vago riferimento (in un dialogo nella parte finale) alla divisione in blocchi, generata dalla guerra fredda, appare abbastanza generico.
Il commento sonoro di Herrmann, sebbene sostanzialmente atematico e limitato ad alcuni brevi cenni di accompagnamento durante le sequenze di maggiore tensione, è sempre efficace e riesce a circondare i suddetti episodi di un alone inquietante e suggestivo (si pensi alle efficacissime sequenze della morte dell’agente segreto nella piazza del mercato di Marrakesh ed a quelle della Ambrose Chapel di Londra). Al contrario neppure la musica può salvare il lungo epilogo all’ambasciata (conclusione che sostituisce la lunga sparatoria del film inglese) del tutto inverosimile (perché nascondere il bambino proprio in un edificio tanto problematico?) e condotto in modo fiacco (si pensi che dopo alcuni minuti di esibizione canora di Doris Day, James Stewart sta ancora cercando il modo di eclissarsi dalla sala... ). Anche il ravvedimento finale della rapitrice non poggia su alcun elemento psicologico ed appare del tutto gratuito.
Rimane all’attivo del film un suggestivo approfondimento della profonda separazione che divide l’universo della gente comune da quello del Potere. La descrizione della famigliola borghese è assai più completa ed efficace nella nuova edizione ed evidenzia ancor di più la totale estraneità del vivere quotidiano - ordinato e prevedibile, sottomesso alle leggi dello stato - rispetto alla sorprendente, amorale libertà d’azione che regola invece la lotta per il potere politico. E’ un tema universale ed atemporale (anche nelle vicende politiche italiane ne troviamo continue conferme, al di là delle sciocchezze moralistiche con le quali i media si affannano a giudicare gli eventi politici, sciocchezze tipiche di giornalisti contigui ma sostanzialmente estranei alla sfera del Potere; si pensi, uno per tutti, al clamoroso caso del rapimento di Emanuela Orlandi - un caso che potrebbe essere assai simile a quello del film - ed alle infinite risonanze che provoca nelle stanze del potere) che costituisce il vero tema del racconto. Si noti, tra l’altro, che i protagonisti non sono del tutto avulsi dalla sfera pubblica, in quanto Doris Day è stata, in gioventù, una famosa cantante; ma questa sua popolarità si limita all’universo mediatico il quale, per quanto “confinante” con quello del Potere, non riesce a conoscere i segreti e crudeli meccanismi di funzionamento della lotta politica. L’incontro con la spia a Marrakesh e il coinvolgimento involontario nella trama cospiratoria apre, di colpo, un abisso, interseca due universi che, per loro natura, dovrebbero rimanere costantemente estranei e genera il dramma. I malcapitati precipitano in una dimensione violenta e spietata e, da quel momento, cercano in ogni modo di uscirne indenni per tornare alla quiete inconsapevole della propria quotidianità. E’ in questa capacità, tutta hitchcockiana, di far esplodere la dimensione straordinaria nell’ordinario che consiste il segreto fascino del film(si pensi, ad esempio, al carattere sinistro - come appartenente ad “un altro mondo” -  di cui si ammanta la Ambrose Chapel allorché viene individuata dal padre alla ricerca del proprio figlio; si pensi, inoltre, alle coperture rispettabili che celano gli attori della dimensione nascosta: una cappella religiosa nasconde un gruppo criminale; un agente di comemrcio è invece un agente segreto...). Siccome, poi, gli spettatori - destinatari ultimi del prodotto hollywoodiano - sono ordinary people, ecco che il regista li rassicura in ogni modo, inserendo la simpatica gag degli amici in visita a Londra, del tutto inconsapevoli del dramma che James Stewart e Doris Day stanno attraversando. Sarà proprio su questi personaggi e sulla loro naturale serenità che il racconto termina: i nostri eroi ritornano nella stanza d’albergo con il figliolo, finalmente in salvo, ed è come se tornassero da un orribile e, fino a poco tempo prima, ignoto pianeta. Quella pagina terribile viene chiusa per sempre e la famiglia borghese riunita può ritornare alla tranquillità del quotidiano. Con una consapevolezza in più: dietro ai pacifici meccanismi della società civile si nascondono trame inconfessabili e sanguinose ed una silenziosa lotta senza quartiere dal cui esito dipende proprio quella pacifica convivenza civile. Siamo negli anni della guerra fredda e, se anche il regista non fa cenno ai nemici d’oltrecortina (ai quali dedicherà, in seguito, Il sipario starppato e Topaz; vedi), appare evidente che i congiurati che agiscono nell’ombra, con i loro lineamenti “esotici” ed estranei, alludono a quell’altra realtà lontana eppur sempre incombente. In definitiva i nostri eroi scoprono che la loro quiete domestica è garantita da una guerra di spie in cui prevale la licenza di uccidere ed in cui i malcapitati innocenti, che casualmente finiscono in quelle trame, rischiano di non fare ritorno alla loro rassicurante, seppur circoscritta realtà.

scheda creata nel nov. 2013