To Catch a Thief, Charade, The Truth about Charlie, Arabesque, How to Steal a Million: caccia al marito (1952-2002)
Lo scrittore californiano David Dodge pubblica nel 1952 To Catch a Thief, un romanzo poliziesco intriso di galanteria e di sfumature sentimentali il quale, pur senza tralasciare la costruzione di un brillante e spesso sorprendente intreccio, termina addirittura con doppie nozze.
John Robie detto Il gatto è un ex ladro americano che vive in una bella tenuta in Francia; dopo aver partecipato alla Resistenza, ha cercato in ogni modo di far dimenticare i propri peccati di gioventù. Ora però un
nuovo, misterioso “gatto” deruba le più facoltose signore della costa azzurra e John, inseguito dalla polizia, si vede costretto a fuggire di casa, a ritrovare gli amici della Resistenza - il potente Bellini con la sua agenzia
turistica, copertura di differenti traffici legali e illegali - e a dare la “caccia al ladro”, al fine di poter ritornare alla normalità. Per farlo si traveste da Mr. Burns (si invecchia di circa dieci anni, ingrassa con un
panciotto e mette scarpe ortopediche per assumere la camminata giusta) e si finge un ricco turista americano in vacanza a Cannes. In tal modo avvicina le possibili future vittime del “gatto” e in particolare la coppia Maude e
Franci Stevens, madre ricchissima e spiritosa e figlia laconica e scorbutica. Per non dare nell’occhio assume anche una bella e giovane accompagnatrice, Danielle, che lavora sulla spiaggia di Cannes con il compagno Claude. Nei
dintorni si aggirano, oltre agli immancabili poliziotti, anche l’assicuratore mr. Paige, molto interessato al recupero dei gioielli rubati e un piccolo esercito di ladri (inviati da Bellini, anch’egli iconvinto che il nuovo
ladro vada eliminato dalla scena, per calmare la polizia) che aiutano John a tenere sotto controllo le probabili vittime e il conte Paul, amico di John il quale fa una corte spietata a Danielle. Nel gran finale, nel castello
dei Sanford, John, sempre latitante e ricercato, passa un’intera notte sul tetto in attesa del ladro e quando, finalmente, riesce ad acciuffarlo scopre, con disappunto, che si tratta della simpatica e bella Danielle. Riesce
allora a nasconderla nella stanza di Paul, a convincerla a restituire la refurtiva dei precedenti colpi ed in tal modo tutti la fanno franca. Danielle sposerà il conte mentre anche John cede alla attenzioni di Franci la quale
aveva scoperto da tempo la sua vera identità. Caccia al ladro di Dodge è un romanzo piutosto ordinario, scritto in modo corretto ma senza particolari pregi stilistici, prolisso nelle descrizioni ma capace di costruire un interessante intreccio, estremamente ricco di figure principali e secondarie con le quali lo scrittore tiene comunque desta l’attenzione sia sul versante poliziesco (numerosi sono i possibili colpevoli), sia su quello sentimentale dove - considerato il carattere introverso, scostante ed originale delle due protagoniste - tutto procede a scatti, con svolte improvvise e spesso impreviste.
Alfred Hitchcock, nel suo To Catch a Thief (ago. 1955; 105 min; uscita italiana gen. 1956) porta sullo schermo una storia assai differente, nella quale
tutti gli elementi polizieschi dello scrittore vengono tralasciati o resi marginali ed al loro posto il regista mette in scena la seconda puntata di quella battaglia dei sessi iniziata nell’appartamento del fotografo Jeff (in Rear Window;
vedi). Il centro assoluto del film è il rapporto tra John (Cary Grant) e Frances (Grace Kelly): il primo è uno scapolo che ora ama la vita tranquilla ma che è stato un pericoloso ladro e poi un partigiano mentre la seconda è la
fotocopia di Lisa (Rear Window) ovvero una donna che ha adocchiato la propria preda ed è decisa a non lasciarsela sfuggire. Le numerose trappole predisposte da John per il “gatto” presenti nel romanzo si trasforano in
quelle sentimentali di Frances, culminanti nella grande notte con fuochi d’artificio nella stanza dell’hotel di Cannes. Più che Caccia al ladro il film avrebbe dovuto chiamarsi Caccia al marito (titolo di un film di Girolami del 1960).
Rispetto al precedente capolavoro, la nuova fatica del maestro inglese è assai deludente e va annoverata tra i suoi film minori. Ogni elemento originale del romanzo viene colpevolmente tralasciato: John non è un latitante
inseguito dalla polizia, anzi lavora in sintonia con questa e con Paige; non si traveste e dunque non deve continuamente guardarsi le spalle; manca completamente la figura di Paul (elemento di tensione nel romanzo poiché
quest’ultimo poteva facilemente identificare John e metterlo nei guai) e l’esercito di piccoli truffatori che aiuta il vero “gatto”. Frances, da figura enigmatica e sfuggente (al punto che la si sospetta di poter essere la
ladra), si trasforma nell’elegante e logorroica Grace Kelly che non dà tregua a John il quale, a sua volta, non possiede le qualità dure, fredde e risolute del protagonista del romanzo. In quest’ultimo non c’era neppure la
festa in maschera (tutto si risolveva nella sera precedente tale festa) mentre Hitchcock non si lascia sfuggire questa occasione spettacolare in una pellicola tutta in interni e troppo verbosa (anche le corse in auto - coi trasparenti - non donano al film alcuna reale apertura; perfino durante quelle corse, Francis non smette di parlare... ).
Il commento musicale è mediocre, perfino volgare a tratti e basato sui peggiori stereotipi della commedia romantica hollywoodiana. Per fortuna a partire dal film seguente - My Trouble with Harry - Hitchcock
incontrerà il geniale Bernard Herrmann. Va anche aggiunto tuttavia che in questi primi quindici anni hollywoodiani il regista inglese non ha saputo dare la giusta importanza ad un commento sonoro di valore, fondamentale per la
riuscita di un’opera filmica, collaborando con compositori differenti senza essere in grado di imporre loro - lui che era tanto esigente e deciso in tutti gli altri settori della creazione cinematografica - una linea precisa.
Non è certamente casuale che le migliori creazioni di Hitchcock appartengano al decennio (1955-64) in cui collaborerà con Herrmann. Dopo aver girato un film interamente incentrato sulla “battaglia” tra Cary Grant e Grace
Kelly, Hitchcock cerca di rimediare inserendo l’unica sequenza spettacolare nella frettolosa conclusione, allorché John scopre Danielle e la obbliga a confessare che dietro i colpi c’era l’intera organizzazione di Bertani
(Charles Vanel; ossia Bellini nel romanzo); la soluzione - radicalmente diversa da quella di Dodge - è scodellata senza convinzione e senza le dovute argomentazioni. Caccia al ladro fu un enorme successo commerciale, successo generato dalla buona prova delle due star hollywoodiane; il film, tuttavia, non aggiunge alcunché alla carriera di Hitchcock: semplicemente conferma la sua ossessione per il tema del conflitto uomo-donna, risolto sempre a favore di quest’ultima. Il regista sente profondamente il fascino sensuale della donna e ce la descrive come una sorta di divinità neopagana: si pensi alla sequenza dello scontro (in mare) tra le due rivali, Danielle (anche lei, nel film, fa la corte a John) e Francis con la prima in costume, mollemente adagiata su un fianco (in posa statuaria) sopra una piccola zattera che osserva dall’alto la sua preda (Cary Grant); o si rifletta sul bacio dato da Frances a John nella parte iniziale del film, in un rovesciamento dei ruoli (la donna prende l’iniziativa e poi il sopravvento) che ritroveremo nella trilogia femminile Marion-Melanie-Marnie (Psycho - The Birds - Marnie;
vedi). Nella visione hitchcockiana è Frances a corteggiare senza ritegno e senza sosta John, laddove nel romanzo la coppia si scopre tale solo nella pagina conclusiva.
In definitiva l’unico motivo per ricordare l’hollywoodiano Caccia al ladro consiste nel nuovo monumento che il regista esprime alla bellezza femminile attraverso le due protagoniste, l’una sfrontata e giovanissima, l’altra elegante e spiritosa. Di fronte ad esse John non può che sottomettersi. In tal senso il film anticipa Vertigo, altra narrazione completamente incentrata sull’adorazione della presenza femminile.
Otto anni dopo Stanley Donen gira Charade
(dic 1963; 105 min.; uscita italiana mar.1964), un piacevole thriller con digressioni sentimentali che è evidentemente ispirato al modello di To Catch a Thief. In questo caso (la sceneggiatura originale è di Peter
Stone) la coppia protagonista - di nuovo Cary Grant e un’ottima Audrey Hepburn al posto di Grace Kelly - dà la caccia ad un tesoro anziché ad un ladro mentre, come sottotesto, abbiamo nuovamente una “caccia al marito”. La
vicenda gira intorno ad una forte somma sottratta alle casse del tesoro americano nel 1945 da un quintetto di soldati americani: il possessore del tesoro viene ucciso ma il gruzzolo non si trova. Si danno da fare tre ex soldati
(James Coburn, George Kennedy e Ned Glass), un presunto agente della Cia (Walter Matthau) e soprattutto Regina (Audrey Hepburn), la vedova del morto ed un uomo dalle mille identità (Cary Grant), tra cui anche quella di ladro
(per ribadire la continuità con il testo del 1955). Il mistero è fitto, i delitti, anche truculenti, si susseguono, il tesoro è sotto gli occhi di tutti senza che nessuno lo veda (si tratta di tre francobolli di enorme valore)
ed i colpi di scena si succeddono fitti e abbastanza inattesi fino all’ultima immagine. A differenza del fiacco film di Hitchcock, il racconto di Donen possiede un ritmo invidiabile (non manca la classica sequenza di lotta sui
tetti, già presente in Caccia al ladro ed in altri film hitchcockiani), un ricco cast perfettamente indovinato, una valida colonna sonora (di Henry Mancini) che sa sottolineare i momenti di suspense, una bella ambientazione parigina, tutte qualità che faranno di Charade un classico ed un grande successo internazionale.
La vicenda amorosa, cui viene dato uno spazio nettamente minore rispetto al film del 1955, ricalca coscienziosamente il modello: anche questa volta un riluttante Cary Grant viene sfacciatamente corteggiato e sedotto da una
vedova non troppo inconsolabile. Viene ribadito pertanto il rovesciamento dei ruoli presente (spesso in maniera funesta) in numerose pellicole hitchcockiane e si segnala, per tale via, una prevalenza femminile (quanto meno
nelle faccende “domestiche”) che appare radicata nella società americana. Una curiosità: i tre francobolli mostrati nel film sono inesistenti ma alludono a tre rarità filateliche
molto simili. Ad esempio non è il c.3, bensì il c.2 delle Hawaii del 1851 ad essere rarissimo: se ne conoscono oggi solo tre esemplari.
Circa 40 anni dopo, Jonathan Demme firma un mediocre remake di Sciarada, intitolato The Truth about Charlie
(2002; d. 105 min.). Se la storia rimane quasi identica, lo stile filmico si colloca agli antipodi di quello di Donen (e di Hitchcock): all’armonioso e misurato linguaggio onirico, umoristico e semifiabesco dell’originale, incentrato sulla forte e insostituibile presenza di attori fortemente caratterizzati, si sostituisce un deciso realismo (inadatto all’inverosimiglianza di racconto) intessuto di omaggi al linguaggio stravagante e movimentato della nouvelle vague degli anni sessanta (Truffaut e Godard innanzitutto). Gli attori (Mark Wahlberg al posto di Cary Grant; Thandie Newton invece di Audrey Hepburm; Tim Robbins nel ruolo di Walter Matthau... ), poi, sono imparagonabili con quelli di quatro decenni prima: per quanto dignitosi, non sono in grado di “riempire” lo schermo e rendere interessante una sceneggiatura così strampalata e grottesca.
In definitiva, il film di Demme ha rapporti vaghi con quello di Donen e nessuna relazione con lo stile filmico di Hitchcock. Nella girandola di situazioni si perde completamente la “caccia al marito” presente in Donen ed
Hitchcock (ovvero tutto il lato pseudoromantico e la sottile battaglia dei sessi) e rimane solo una vorticosa e stucchevole “caccia al tesoro”. Sebbene il film sia a tratti piacevole, l’operazione può dirsi, nel suo insieme,
fallita. Commercialmente parlando The Truth About Charlie fu un fiasco.
Tre anni dopo Sciarada, Stanley Donen tenta il bis con Arabesque
(1966; 100 min.; uscita italiana set. 1966), pellicola di avventure spionistiche, ispirato al romanzo The Cipher (1961; trad it. Operazione sfinge, 1966) di George Cotler, in cui tutto rimanda al film con Audrey Hepburn.
La vicenda ruota, questa volta, intorno ad un misterioso messaggio composto da geroglifici. Per decifrarlo viene ingaggiato il brillante professore David Pollock (Gregory Peck) di Oxford il quale si trova, presto, al
proprio fianco la misteriosa Yasmin (Sophia Loren) dalle molteplici identità. Tra sparatorie, inseguimenti ed accenni sentimentali la trama diviene oltremodo complessa fino allo scioglimento: l’”arabesco” conteneva data ed ora
di un attentato nei confronti di un capo di stato arabo. Il nostro eroe tenta invano di sventarlo in una lunga sequenza che ricalca parzialmente quella celebre, ambientata alla Royal Albert Hall, di L’uomo che sapeva troppo (Hitchcck, 1956); a morire è però un sosia mentre il vero leader politico viene rapito e salvto in extremis dalla coppia di eroi.
Rispetto a Sciarada i ruoli sono invertiti: mentre appare chiara fin dall’inizio l’idenitità del professore, è Yasmin a ricoprire un ruolo cangiante ed ambiguo, cosa che lascia sconcertato il nostro professore. Nel finale tuttavia, come per il Cary Grant di Sciarada,
scopriremo che si tratta di una spia orientale, il cui segreto compito era appunto quello di proteggere il leader arabo. Ambientata in una Londra notturna e poco interessante, Arabesque è una copia modesta dell’originale: se
la coppia di protagonisti se la cava egregiamente, l’intreccio, i dialoghi, i comprimari e la musica non sono all’altezza del modello e rasentano spesso la mediocrità. Il soggetto poi è eccessivamente confuso e le giravolte dei
personaggi sono troppe per destare reale interesse. Inoltre il rapporto tra il professore e la spia rimane sostanzialmente prigioniero dell’intreccio romanzesco ed anche l’obbligatoria parentesi sentimentale appare secondaria.
Arabesque, oltre a guardare ai modelli hitchcockiani (Caccia al ladro e L’uomo che sapeva troppo), si ispira alle avventure di James Bond, genere decisamente egemone sugli schermi di tutto il mondo a
metà degli anni sessanta.
Tre anni dopo Sciarada, Audrey Hepburn torna ad essere protagonista della superba commedia poliziesca How to Steal a Million (1966; 123 min.; t.it. Come
rubare un milione di dollari e vivere felice; uscita italiana set. 1966), firmata da William Wyler, regista attento alla poetica hitchcockiana come dimostra il precedente The Collector (1963; vedi), parzialmente ispirato a Psycho.
Nicole Bonnet (Audrey Hepburn) è la figlia dello spassoso falsario Charles (un ottimo Hugh Griffith), appartenente a una progenie di artisti “burloni”. Il nonno aveva scolpito una Venere ora attribuita al Cellini,
mentre Charles produce in serie Corot, Cezanne e Van Gogh. A Parigi un grande museo espone la finta Venere e tutto andrebbe per il meglio se non fosse per la minaccia incombente di un serio test sulla sua autenticità. A quel
punto la rovina è alle porte per l’agiata famiglia Bonnet. Nicole allora ricorre a Simon (Peter O’Toole) che ritiene un ladro d’arte (lo ha sorpreso in casa mentre armeggiava su un “Van Gogh”) e che, invece, è un esperto in
contraffazioni che cerca le prove per incastrate Charles Bonnet. Insieme riescono a rubare la Venere dal museo e a rifilarla a un fanatico collezionista miliardario (Ely Wallach), certi che non la mostrerà ad alcuno. Simon e
Nicole si innamorano e l’uomo impone a Charles la cessazione di ogni sua attività; il pittore accetta a malincuore e forse non rispetterà i patti... La pellicola, ambientata a Parigi (come Scarada; in Francia si svolgeva anche Caccia al ladro),
non nasconde il proprio debito con il maestro inglese (nella sequenza del presunto furto del finto ladro Simon, Nicole distesa a letto sta leggendo dei racconti di Hitchcock) da cui, in fondo, anche questa pellicola deriva: in
entrambi i casi un uomo, che si spaccia per un ladro, e una donna cercano di sventare una minaccia incombente (allora dovevano sorprendere un ladro; ora devono compiere una difficile rapina) e nel farlo si innamorano. Questa
volta, tuttavia, manca completamente la “battaglia dei sessi” ed il rovesciamento dei ruoli: Wyler opta per una conduzione più tradizionale e pertanto meno interessante.
Per quanto riguarda le altre fonti filmiche del film, oltre ai già citati Caccia al ladro e Sciarada, c’è ovviamente Topkapi (Dassin, 1963), il fortunato film con Melina Mercouri che inaugurò il filone dei caper movie impostati su un registro apertamente umoristico che ebbe, anche in Italia, un enorme successo in quegli anni (si pensi a 7 uomini d’oro,
1965, di Vicario e alle decine di imitazioni; vedi). L’intero episodio della rapina, realizzato in modo brillante e ingegnoso, occupa l’intera seconda parte del film e rappresenta la parte più spettacolare del racconto. In
ogni caso il cuore del racconto si trova altrove ovvero nella disamina della questione della falsificazone e riproducibilità dell’opera d’arte. Charles è un burlone di talento: ama i classici dell’impressionismo e riesce a
riprodurne ogni sfumatura, ricreando opere che finiscono nei cataloghi ufficiali di quegli autori. Negli anni sessanta era ancora presente nella memoria collettiva il clamoroso affare Von Meegeren ovvero le gesta del falsario
che creò una serie di Vermeer che vennero accettati come tali per alcuni anni, beffando (nel periodo 1937-47) numerosi critici d’arte, direttori di musei ed il collezionista Hermann Goering. Evidentemente gli autori del film
(la pellicola deriva dal racconto Venus Rising appartenente alla raccolta Practise to Deceive, 1962, di George Bradshaw, raccolta resa unitaria proprio dal tema della contraffazione; il racconto viene rielaborato
in sceneggiatura da Harry Kurnitz) si ricordavano di quel caso tanto da farlo citare dallo stesso Charles in un dialogo; e quest’ultimo appare, in definitiva, Charles apapre, in definitivaun personaggio ispirato a Han van
Meegeren (1889-1947). D’altro canto Wyler, dopo aver ritratto con indulgenza il falsario (che non pagherà per i suoi reati), il quale, a suo modo, amplia il novero delle opere di una certa poetica per la gioia degli estimatori,
ridicolizza i collezionisti (tema che aveva già afrontato e stigmatizzato nel precedente The Collector) come un genere di personaggi alienati la cui unica finalità esistenziale consisterebbe nell’accumulare
egoisticamente opere d’arte da godersi in solitudine. Il nostro Davis Leland, pur d avere l’ambita statuetta, rinuncia immediatamente alle nozze con Nicole... Wyler insomma ironizza sul fanatismo che circonda le opere
d’arte (durante il furto al posto della statuetta, Simon piazza una volgare bottiglia di vino di bassa qualità), ricorda che sono riproducibili ed indica che quasi sempre appartengono ad altre epoche storiche di cui sono una
testimonianza rileante, resa però eccessivamente importante dall’atteggiamento storicistico (esso stesso una “moda” creata dagli interessi “progressisti” della Massoneria) che pervade l’Ottocento e il Novecento. Il regista
americano fa tutto ciò all’interno di quella che veniva considerata (soprattutto allora) un’arte “povera” e secondaria quale il cinema, arte in cui trionfa la riproducibilità a basso costo di un’opera (allora in pellicola, in
seguito in vhs e in dvd). In How to Steal a Million l’arte cinematografica si fa beffe dell’unicità dell’opera, tipica della pittura e della scultura, e smonta l’aura misticheggiante che tende a circondarla.
testo scritto nell’ott. 2013
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