Torn Curtain

Torn Curtain: un contributo alla guerra fredda nello stile di James Bond (1966)

               “Quando le forze ostili al socialismo cercano di       portare lo svilppo di alcuni paesi socialisti verso il capitalismo, questo non diventa solo un problema del paese coinvolto, ma un problema comune e una preoccupazione per tutti i paesi socialisti”.
              Dottrina Breznev (1968)

Dopo il fallimento commerciale di Marnie, Hitchcock accantona la galleria di insolite figure femminili (quelle della trilogia Psycho - The Bird - Marnie) e decide di cimentarsi nella spy story, genere reso popolarissimo proprio da quel Sean Connery che non aveva portato fortuna al precedente film del regista inglese. Quando il progetto Torn Curtain (1966) viene messo in cantiere, ossia nel 1965, nelle sale di tutto il mondo furoreggiano le prime tre puntate della saga di 007 (Dr. No, From Russia with Love e Goldfinger), la seconda delle quali affronta con decisione il tema della guerra fredda, ed è attesissima la quarta (Thunderbolt). Hitchcock commissiona a Brian Moore, romanziere di origini irlandesi ma residente in Canada, una sceneggiatura che tratti, senza infingimenti, lo scontro in atto tra le due superpotenze ma che al tempo stesso offra la possibilità di raccontare una vicenda avventurosa con qualche venatura sentimentale, idonea a fare da traliccio a tre o quattro grandi sequenze d’azione. Insomma Hitchcock ordina un’imitazione dei film incentrati su James Bond, dotata però di un tono più serioso e di un protagonista che è solo una spia dilettante.
Bisogna ricordare che dopo l’erezione del muro di Berlino (agosto 1961), dopo l’episodio della Baia dei Porci (aprile 1961) e la questione dei missili a Cuba (forniti dall’URSS nel 1962, tra l’altro tema del successivo Topaz), la tensione tra USA e impero sovietico è altissima. Non solo. La brutale defenestrazione di Kruscev (ottobre 1964) mediante una sorta di congiura dell’ala conservatrice del PCUS, guidata da Breznev, sancisce la fine definitiva della stagione delle riforme interne, successive alla caduta di Stalin e di qualunque apertura alle libertà economiche dell’Occidente. La destalinizzazione è conclusa: l’est europeo torna ad essere un blocco compatto, soggetto alla dottrina del nuovo leader (per la verità enunciata nel 1968, ma chiara fin dall’inizio del suo lungo periodo di governo) in cui si afferma con chiarezza che nessun paese satellite può mettere in discussione le indicazioni di Mosca e la natura rigorosamente comunista del sistema sociopolitico. I carri armati a Praga (agosto 1968) e il golpe di Jaruzelski in Polonia (dicembre 1981) costituiranno prevedibili e concrete applicazioni di quella realistica concezione geopolitica.
E’ assai probabile che la svolta conservatrice del Cremlino sia una delle principali cause della decisione hollywoodiana (decisione sostanzialmente politica) di mettere in cantiere un film di aperta denuncia dell’inferno comunista, nonché di affidarlo a uno di suoi registi più acclamati, obbligandolo a utilizzare le maggiori star del momento. Si voleva lanciare un vero e proprio attacco mediatico nei confronti dello stile di vita illiberale prevalente al di là della cortina di ferro.
In questo contesto non solo il nuovo film ma l’intero dittico hitchcockiano (Torn Curtain - Topaz) si inserisce perfettamente nel momento sociopolitico di forte tensione, lo riflette ed anzi ne fa attiva parte, divenendo potente strumento di propaganda internazionale, atto a porre a confronto impietosamente lo stile di vita del mondo capitalista e di quello marxista, nonché a diffondere una visione negativa, tetra e desolata dell’universo comunista (visione peraltro non troppo lontana dalla realtà che le disgraziate popolazioni, imprigionate da muri e cortine create dalla burocrazia totalitaria nell’est Europa, erano costrette a sopportare).
La vicenda ideata da Moore è comunque generica e infantile: Michael Armstrong, uno scienziato zelante (Paul Newman, corrucciato e introverso come sempre), decide di mettere in scena il proprio tradimento e di trasferirsi a Berlino Est. Il pretesto si riduce alle solite scioccheze sulla pace e sul disarmo (gli autori si ispirarono sia alla fuga a Mosca delle famose spie inglesi Guy Burgess, Donald Maclean e Kim Philby avvenuta nel 1951 e nel 1963, sia al caso dello scienziato atomico Bruno Pontecorvo che, nel1950, dopo aver lavorato per molti anni per l’Occidente, fuggì a est e si stabilì definitivamente nella Russia di Stalin). Sarah, la fidanzata del protagonista - una noiosissima e inadatta Julie Andrews, imposta dalla produzione a un Hitchcock recalcitrante - lo segue frastornata non essendo al corrente della pericolosa simulazione che lo scienziato sta mettendo in atto (per la verità l’assurda sceneggiatura non chiarisce chi abbia progettato e controlli l’intera operazione). La finalità è poter discutere di matematica con il geniale prof Lindt di Lipsia, per potergli carpire alcune importani formule.
Appena giunto a Berlino est, scortato da Gromek (Wolfgang Kieling), un poliziotto efficiente e sinistro, il nostro non trova di meglio che scappare in aperta campagna da alcuni dissidenti, parte di una rete chiamata “pi greca”, solo per poter avere il nominativo della persona che dovrà facilitare la sua fuga da Lipsia, a missione compiuta. Ovviamente Gromek - seminato in modo assurdo durante la visita a un importante museo (Michael attraversa stanze e corridoi inspiegabilmente deserti ed esce da una porta laterale incustodita, come se fosse in un cinema e non in uno dei più importanti musei del pianeta... ) - lo ritrova e il protagonista è obbligato ad ammazzarlo per evitare di venire arrestato e di vedere fallire l’intera missione.
Nell’università di Lipsia il suo contatto, la dottoressa Koska (Mort Mills), non trova modalità migliore per avvicinarlo che di farlo cadere da una rampa di scale, rischiando di ferirlo gravemente (Michael se la cava con qualche costola incrinata... ) e di compromettere tutta l’operazione (come si nota buona parte del film sfiora il comico involontario). Infine Michael riesce fortunosamente a incontrarsi a quattr’occhi con Lindt (Ludwig Donath) e a rubargli la famosa formula mentre i sospetti ormai si addensano su di lui.
Inizia allora la grande fuga (che occupa tutta la seconda parte, apertamente modellata su North by Northwest, 1959) che si articola in due grandi episodi: quello del falso pullman e quello della scena di panico nel teatro, prima di concludere positivamente l’avventura con i due fidanzatini che si baciano, protetti da una coperta che li nasconde agli occhi di un fotografo (e ai nostri). Insomma un finale identico a quelli dei film di Bond.
Torn Curtain è una pellicola fiacca, interpretata da attori inadatti (con l’eccezione dell’ottimo Kieling), dove la storia è mal costruita (si sente infatti la mancanza di un solido romanzo alle spalle della pellicola; nel periodo 1960-76 questo è l’unico lavoro di Hitchcock a non prendere le mosse da un compiuto testo letterario). Essa parla di spie dilettanti ma è, a sua volta, il prodotto di sceneggiatori (oltre a Moore, altri lavorarono al copione) incapaci di raccontare in modo credibile il terribile lavoro delle spie: gli autori finiscono invece col creare una realtà totalitaria nella quale si immagina una rete di spie operativa, somigliante a una forma di Resistenza organizzata in un contesto bellico (il modello è ripreso dunque dagli eventi del recente conflitto mondiale). Assodato dunque che la vicenda è inattendibile e, come tale, incapace di attuare qualunque fenomeno di identificazione del pubblico più maturo con i due protagonisti, ciò che resta è allora solo un traliccio pretestuoso, utile a fornire la cornice entro cui impostare almeno tre grandi sequenze-chiave le quali finiscono con l’essere il fulcro reale dell’intero film. E’ questo appunto lo stile dei film imperniati sullo 007 di Connery: vicende risibili create allo scopo esclusivo di poter stupire un pubblico disponibile con scene d’azione, acrobazie degli stuntmen ed effetti speciali di ogni tipo.
Le tre grandi sequenze possegono qualità indubbie e, si può dire, posseggono vita propria. Va anticipato che Hitchcock rinuncia questa volta alla colonna sonora del geniale Bernard Herrmann, in questo modo impoverendo ulteriormente la pellicola. La
colonna sonora del consueto collaboratore di Hitchcock era già pronta ed era stata già parzialmente montata sulle immagini (alcuni spezzoni sono infatti visionabili) quando Hitchcock decise di dismetterla per sostituirla con quella di John Addison (musicista inglese, autore del commento sonoro di Tom Jones ,1964). Si buttò via in questo modo un soundtrack “importante” e “presente” - assolutamente tipico di Herrmann - per un commento sonoro onesto, piacevole ma neutro e incapace di aggiungere qualcosa di artistico alle immagini. Anche in questa scelta più “moderna”, volta a cancellare un denso contributo sinfonico a favore di un tematismo più leggero e immediato, si intuisce la decisione di muoversi nel solco di James Bond.
Private dunque dell’ausilio di sonorità seducenti e magiche, le tre sequenze cercano lo stesso di divenire pezzi d’antologia e in parte vi riescono.
L’uccisione di Gromek nella casa di campagna avviene attraverso una lotta furibonda e brutale che, per alcuni minuti, fa dimenticare l’inverosimiglianza dell’insieme per calare il racconto in un’atmosfera scostante e paurosa, priva di commento sonoro. Lo spavaldo e sadico Gromek, certo di avere messo nel sacco la spia dilettante, insulta il malcapitato e lo impaurisce, prima di venire aggredito e selvaggiamente colpito a ripetizione da una coppia di persone palesemente disperate, che stanno giocando il tutto per tutto. Purtroppo appena Michael torna a Berlino, il film riprende quel tono di mascherata inverosimile che lo caratterizza.
La seconda grande sequenza, quella del falso pullmann, è realmente un pezzo di grande cinema: un autobus totalmente fasullo, popolato da dissidenti che si fingono passeggeri per coprire i due fuggitivi, corre tra due autobus reali lungo la linea Lipsia-Berlino. Numerosi sono gli intoppi, i momenti di grande suspence, all’interno di un contesto visionario di notevole forza espressiva. Man mano che l’autobus perde tempo - bloccato da differenti accidenti - l’altro autobus, quello ufficiale, si avvicina sempre più, causando un crescente panico negli abitanti del pullmann “fantasma”.
L’ultima grande sequenza invece è un mezzo fallimento: la coppia in fuga assiste a uno spettacolo di balletto in attesa di nascondersi nei bagagli della compagnia diretta, subito dopo, nella “libera” Stoccolma. Riconosciuti e denunciati, essi assistono inermi all’apparizione di decine di poliziotti nella sala: l’effetto suspence è però rovinato dall’idea eccessiva di far emergere perfino dal golfo mistico una coppia di soldati, praticamente di fronte al direttore d’orchestra. Così l’eccesso distrugge la tensione e frana nel ridicolo. Inoltre il modesto stratagemma di fuga di Michael - nientemeno che urlare “al fuoco” così da generare un’ipotetica baraonda - chiude malamente questo goffo tentativo di replicare la grande sequenza del concerto alla Royal Albert Hall di The Man Who Knew Too Much (1956).
Di interessante rimane, soprattutto, la messa in scena della desolazione che permea la quotidianità comunista. Ben nota a chiunque abbia passato qualche settimana oltre la cortina di ferro, questa cifra esistenziale viene ricreata con grande abilità da Hitchcock: lasciata la Copenhagen iniziale, a Berlino Est tutto appare raggelante e triste. I colori divengono spenti, le stanze sono troppo grandi e troppo spoglie, le strade prive di vita, le figure rassegnate e sofferenti, i gerarchi tronfi e volgari, potenti gestori di un potere assoluto. A coronamento di questo “affresco” antisovietico, compare la macchiettistica, eccessiva contessa Luchinska (Lila Kedrova) che inveisce contro ogni dettaglio di quell’universo concentrazionario (rendendo didascalico il contenuto politico del racconto) e che desidera, sopra ogni cosa, andare in America. E’, insomma, una realtà talmente antivitale da rendere quasi credibile l’esistenza di una rete organizzata di dissidenti, capace di operare in massa allo scoperto come se agisse in un indefinito scenario di guerra e come se i burocrati al potere non fossero persone saldamente installate (da due decenni circa) nelle istituzioni comuniste, bensì solo i momentanei occupanti di una realtà sociale loro estranea.
Torn Curtain - come peraltro tutti i film di Hitchcock successivi a The Birds - non trova molti estimatori tra i critici e tra i registi; solo la brutta sequenza del museo verrà parzialmente imitata (e di gran lunga migliorata) in Dressed to Kill (De Palma, 1980; vedi capitolo su Psycho). Ciononostante il film ottiene un buon successo commerciale.