Torna... a Sorrento, Pronto, chi parla?, Lo sbaglio di essere vivo e Albergo Luna camera 36: ricerca del piacere e miserie della prostituzione (1945-46)
“I prezzi delle bambine e dei ragazzi, da qualche giorno, erano caduti, e continuavano a ribassare. Mentre i prezzi dello zucchero, dell’olio, della
farina, della carne, del pane, erano saliti, e continuavano ad aumentare, il prezzo della carne
umana calava di giorno in giorno. Una ragazza fra i venti e i venticinque anni, che una settimana prima valeva fino a dieci dollari, ormai valeva appena quattro dollari, ossa comprese. La ragione di una tal caduta di prezzo della carne umana sul mercato napoletano dipendeva forse dal fatto che a Napoli accorrevano donne da tutte le parti dell’Italia meridionale”.
C. Malaparte, La pelle, 1949
Nell’immediato dopoguerra il “veterano” Carlo Ludovico Bragaglia rinnova la propria collaborazione con lo scrittore Aldo De Benedetti in un quartetto di pellicole. Si comincia con il brillante
Torna... a Sorrento!
(settembre 1945; 88 min.), commedia degli equivoci incentrata sulla presenza di due Mario Bianchi (il baritono Gino Bechi e Aroldo Tieri), entrambi cantanti in erba ed entrambi innamorati della stessa fanciulla (Adriana Benetti). Quest’ultima fugge di casa (Sorrento) e corre a Roma per sposarsi con Aroldo Tieri (in un ruolo di fidanzato geloso molto simile a quello sostenuto in Il fidanzato di mia moglie,
1943, film sempre di Bragaglia) dove invece incontra il suo omonimo Gino Bechi; insieme cercano a lungo l’introvabile fidanzato in un carosello di episodi che mette in scena commissari e prostitute, impresari lirici e
trasmissioni radiofoniche. Alla fine tutto sembra aggiustarsi ma, come prevedibile, in extremis la giovane decide di sposare il secondo Mario Bianchi, ormai cantante affermato. La vicenda è raccontata in flashback da Gino Bechi
tra il secondo e il terzo atto di una rappresentazione del Rigoletto in cui interpreta il ruolo principale: al suo ritorno a casa troverà la giovane (nuovamente in fuga) ad attenderlo. La pellicola è tra i massimi successi commerciali del periodo.
Numerose sono le novità “antropologiche” della commedia di De Benedetti-Bragaglia: la giovane abbandona la casa paterna contro il parere del padre (come già la Gilda nel finale del Rigoletto) per contrarre un
matrimonio osteggiato e nel farlo si avvale della complicità della zia; risulta evidente che l’autorità genitoriale, impersonata da una coppia di personaggi buffi e inetti (c’è anche lo zio di Aroldo Tieri), è ormai un inutile
ferro vecchio mentre il cammino di emancipazione della donna appare destinato a un rapido e trionfale percorso. Una simile visione sociale, governata dalle esigenze sentimentali femminili (visione abbastanza frequente in un
certo teatro lirico ottocentesco), offre un segno di netta discontinuità rispetto alle scelte narrative del cinema prebellico. L’ambientazione nelle strade di una Roma estiva e popolosa conferisce ulteriore forza di verità
al racconto il quale si colora di sottintese, compiaciute e ironiche allusioni sessuali, impensabili nel cinema fascista. La ragazza è dunque indecisa tra i due Mario Bianchi, entrambi dotati di una bella voce; la fanciulla si
è fidanzata con il Tieri avendone lei stessa scoperto le “nascoste” virtù artistiche; tuttavia quando per puro caso viene a conoscenza del ben “superiore” talento canoro del Bechi, talento sottolineato dallo stupore sincero (e
inequivoco quanto a sottintesi sessuali) di un paio di prostitute che lo ascoltano cantare in galera, non esita a lasciare il primo per il secondo. Dietro il trito romanzo sentimentale si nasconde (e neanche troppo) l’ardita
esigenza femminile di trovare il partner più “soddisfacente”. The Times They Are A-Changin’.... La critica però non se ne accorse nè allora, nè dopo; così questo tipo di cinema, ricco di contenuti inediti e come tali
influenti sui costumi sociali della Italia postfascista, viene trascurato dagli intellettuali del settore, troppo intenti a coltivare il debole, nascente “neorealismo” nel quale vedono una possibilità assai più concreta e
diretta di una propaganda volta a spostare l’asse politico italiano a sinistra. Così il Brunetta, nella sua ponderosa Storia del cinema italiano (1982), in riferimento a queste pellicole del duo De Benedetti- Bragaglia non coglie le concrete, significative novità e parla invece di “tentativi di mantenere in vita, sotto una tenda a ossigeno, un genere dalla formula collaudata”. La realtà successiva dimostra che i costumi italiani diverrano progressivamente più liberali e libertari anche grazie all’insinuarsi nella realtà quotidiana di atteggiamenti come quelli esposti in Torna...a Sorrento (e innumerevoli altre commedie simili) e non certo per effetto di pellicole desolanti e pauperistiche (nonché snobbate dal grande pubblico) come quelle del periodo 1945-48 dei vari De Sica, Visconti e Rossellini.
Per la medesima casa di produzione (la Manenti Film) e con un cast simile (ancora Gino Bechi e Aroldo Tieri rivali in amore) Bragaglia e De Benedetti firmano Pronto, chi parla?
(dicembre 1945; 82 min.), pellicola musicale mediocre e retta in modo esclusivo da una serie di personaggi e situazioni stereotipati. Probabilmente la pellicola, uscita nelle sale dopo Torna.... a Sorrento, venne
diretta per prima in quanto denota l’evidente insicurezza di chi, a contatto con una realtà sociopolitica completamente inedita e in movimento, si rifugia in un copione asettico e “atemporale”, basato sui tipici fraintendimenti
della commedia teatrale comica e dell’opera buffa settecentesca. Due coppie di personaggi si corteggiano e finiscono per sposarsi: i padroni vestono panni dei servi e i popolani si fingono nobili; malintesi e situazioni
farsesche si susseguono senza provocare la minima sorpresa fino al previsto scioglimento di ogni equivoco. Servi e aristocratici godono entrambi delle simpatie degli autori (è dismesso l’atteggiamento critico “fascista” nei
confronti delle classi alte) in una pochade che attinge a piene mani dal repertorio operistico. Bechi, nella sequenza più riuscita, si finge sonnambulo e, circondato dallo stupore di tutti, intona l’intero Prologo dei Pagliacci (1892) di Leoncavallo così da rimarcare sia la dipendenza del film dalla tradizione lirica (la scena di sonnabulismo è di per sè un luogo canonico del melodramma), sia il suo carattere di esplicita simulazione (la celebre opera verista prevedeva appunto il teatro nel teatro). A differenza del vivido Torna a Sorrento, Pronto, chi parla? è un deciso flop: il pubblico rifiuta questa farsa opaca e relegata in una prudente e fastidiosa no man’s land.
Nel terzo film, Lo sbaglio di essere vivo
(dicembre 1945; 85 min.) Bragaglia mette in immagini in modo solo dignitoso l’omonima commedia di Aldo De Benedetti in cui il letterato tratta in modo piuttosto banale e scombinato il classico tema pirandelliano della finta morte e della conseguente “rinascita”. Adriano (Vittorio De Sica), per tutti deceduto a causa di un improvviso malore, si risveglia, fa seppellire una bara vuota e decide di sfruttare la situazione in accordo con la moglie Maria (una spigolosa Isa Miranda). I due, una coppia piccolo borghese di modeste ambizioni, riscuotono una ricca (ma non troppo) somma che dilapidano in soli tre mesi. Fuggiti da Roma vengono però incontrati per caso da Guglielmi (Gino Cervi), un devoto innamorato della donna, un tempo principale del marito il quale ora, in evidente imbarazzo, si fa passare per il cognato della vedova. Equivoci a non finire portano a uno scioglimento sorprendente: Adriano finge di suicidarsi per lasciare liberi Guglielmi e Maria di convolare a nozze.
La narrazione è sviluppata attraverso numerose goffaggini e insostenibili passi falsi, il peggiore dei quali è costituito dal fatto che la donna dapprima spera che l’ingombrante ammiratore si dilegui; poi, quando ciò
accade, anziché affrettarsi a ripartire per far perdere le proprie tracce (in fondo ella ha truffato un’assicurazione, dichiarato il falso ecc.), rimane ancora nell’hotel dove l’uomo può successivamente reperirla; e infatti ciò
puntualmente accade prolungando l’equivoco della falsa vedova e del falso cognato oltre un tempo sostenibile (praticamente per quasi l’intera pellicola). Ciononostante il lavoro, mal condotto in sede di sceneggiatura fino a
rendere l’espediente iniziale della falsa morte un fatto secondario, risulta però interessante nell’esame di psicologie radicalmente mutate rispetto a quelle di pochi anni prima. La coppia piccolo borghese, che nel cinema
popolano del fascismo sarebbe risultata integerrima e simpatica, è invece segnata da disonestà ed evidente stoltezza: Adriano, senza motivo, dilapida un capitale in pochi mesi e poi si ritrova a cercar lavoro come l’ultimo dei
miserabili (per di più senza documenti); la donna è una frustrata che è vissuto all’ombra di un uomo mediocre, frequentando di nascosto il Guglielmi, un gran signore che si intende di musica sinfonica e vive in una reggia
principesca. Quest’ultimo e la sua famiglia, anziché sbeffeggiati come gente vacua e inconcludente (come accadeva a quasi tutti gli alto borghesi nel cinema dell’ultimo fascismo), risultano gente colta e intelligente,
rispettosa nei confronti dei modesti sottoposti ma anche conscia della propria naturale superiorità. E’ un ulteriore tratto nuovo che arricchisce il cinema italiano con figure ora differenziate, più libere e sganciate dalle
esigenze della monocorde e infondata propaganda del regime. Infine la stessa, inattesa e beffarda svolta conclusiva, decisamente venata di misoginia e amarezza, sarebbe stato impensabile pochi anni prima. Adriano, comprese
le ambizioni di scalata sociale della moglie, capisce di essere superfluo e decide di lasciarla, recuperando peraltro la propria indipendenza. Così la figura femminile, persa l’aura amorosa e materna che la circondava nel
cinema del patriottismo fascista, viene ridotta a pragmatica opportunista in cerca di un benessere materiale lungamente desiderato in segreto. L’aperta ricerca del piacere e la conseguente, inedita libertà nel far valere le
proprie rivendicazioni si attuano entro audaci psicologie femminili le quali costituiscono l’elemento unificante il teatrale Lo sbaglio di essere vivo e Torna...a Sorrento!
Uno dei grandi successi del 1945 era stato La vita ricomincia (vedi) di Mario Mattoli su soggetto e sceneggiatura di Aldo De Benedetti il quale plagia se stesso in Albergo Luna, camera 34
(settembre 1946; 85 min.), producendo una fotocopia dell’intensa pellicola mattoliana. La terza collaborazione postbellica dello scrittore e di Carlo Ludovico Bragaglia in ambito narrativo costituisce una sorta di remake: ancora una candida fanciulla, Bianca Morelli (Chiaretta Gelli nel ruolo già di Alida Valli) la quale, durante gli anni di guerra, è costretta a prostituirsi (un’unica volta) per procurarsi il denaro per curare l’anziana madre in fin di vita (nel film di Mattoli invece era gravemente malato il bambino). Anni dopo il seduttore (Andrea Checchi) ritrova per caso la propria vittima, ora felicemente fidanzata a un compositore (Roberto Villa neml ruolo già di Fosco Giachetti) e la ricatta. Un gentile vicino di casa (Carlo Campanini in un ruolo simile a quello di Eduardo De Filippo nella pellicola “modello”) aiuta in ogni modo la giovane; nel finale, identico a quello di La vita ricomincia,
quando tutto sembra perduto, il fidanzato comprende e perdona. Se la vicenda è nota e gli attori appaiono decisamente inferiori a quelli del precedente lavoro, va tuttavia rilevato che la regia di Bragaglia mostra alcuni
“virtuosismi” (rispetto alla consueta scrittura lineare e “distante” dell’autore) sia nell’insolito, frequente ed espressivo uso del primo piano volto a sottolineare le sofferenze della protagonista, sia nel ricorso a brevi,
puntuali immagini in flashback quali vibranti emanazioni del racconto riflessivo del fidanzato-compositore (momento culminante dell’intero percorso umano dei personaggi). L’ambientazione della storia offre un momento di
particolare interesse nell’episodio che illustra la miserevole vita degli sfollati (tra cui Bianca) in un campo profughi allestito per coloro che hanno perso ogni cosa sotto i bombardamenti alleati. E’ un tema il quale,
ovviamente censurato durante gli anni di guerra, si mostra ora in tutta la sua durezza, venendo anzi a costituire l’elemento scatenante il dramma: la giovane è costretta a cedere al seduttore proprio perchè ha perso tutto
quello che aveva. Per tale via il cinema postbellico documentava e rendeva note le recenti sofferente della popolazione civile e nello stesso tempo alludeva a una miseria tuttora operante poiché la prostituzione, non solo nei
confronti di biechi personaggi, ma soprattutto verso i “ricchi” militari angloamericani, nuovi padroni della penisola, è uno degli atteggiamenti più diffusi e a suo modo sconcertanti (considerando la rigida morale cattolica e
fascista degli anni passati) di quel difficile dopoguerra. La pellicola si chiude con alcune osservazioni morali di indubbia forza e originalità affidate da De Benedetti a Campanini: anziché dare l’esclusiva responsabilità
di ogni evento e gesto alle circostanze drammatiche ed estreme del conflitto, il disincantato comico afferma in modo netto che il mondo è diviso tra persone d’animo buono e cattivo e che l’abisso che separa gli uni dagli altri
appare invalicabile in quanto tali caratteri sono immodificabili in quanto così generati dalla natura. Così, prendendo le distanze dal “neorealismo” filomarxista intento a dipingere ogni sconcezza, ogni errore umano e ogni
gesto criminale quale prodotto del condizionamento ambientale e soprattutto quale conseguenza della rovina economico-sociale in cui il fascismo aveva trascinato l’Italia, De Benedetti e Bragaglia, pur raccontando proprio le
miserie indotte dalla tragedia dell’apocalittico conflitto, si ricordano tuttavia che le responsabilità di ogni azione rimangono un fatto personale, spesso semplicemente connaturato e generato dalle originarie (genetiche)
inclinazioni dell’individuo. Sotto tale profilo anche una pellicola ordinaria quale Albergo Luna camera 34 possiede elementi di notevole interesse e di rottura nei confronti dell’opaco determinismo prevalente nella cosiddetta poetica neorealista. Non desta alcuno stupore quindi che tale pellicola non abbia ottenuto la minima attenzione nelle storie del cinema italiano, tutte redatte (in riferimento agli anni quaranta) secondo un disegno volto a illuminare esclusivamente i lavori della suddetta corrente e a lasciare in ombra gli altri testi filmici.
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