Totò e Marcellino, Gambe d'oro e Arrangiatevi

Totò e Marcellino, Totò Peppino e le fanatiche, Gambe d’oro, La legge è legge, Totò a Parigi, Totò nella luna, Totò Eva e il pennello proibito, I tartassati, I ladri, Arrangiatevi e La cambiale: miseria, spirito d’iniziativa e legalità (1958-59)

                “Sono un barone eletto dal popolo”
                Totò in Gambe d’oro

                “Ma guarda un po’ alla mia età andare a finire sulla luna.
                Io, di questa stagione, sono abituato ad andare a Capri”
                battute finali di Totò nella luna

Prendendo spunto da una ricca filmografia relativa ai ragazzini abbandonati (Il monello di Chaplin, La finestra sul Luna Park di Comencini) e ispirandosi apertamente al grande successo di Marcellino pane e vino (1955), Antonio Musu firma il pregevole Totò e Marcellino (apr. 1958, 95 min.).
A Roma “Il professore” (Totò), un tempo rispettato maestro d’orchestra, è ora un ladruncolo di buon cuore che vive in un tram abbandonato e che ha per amico Zeffirino (Memmo Carotenuto), una simpatica guardia. In questo contesto, chiaramente memore di Guardie e ladri (Monicelli-Steno, 1950), si inserisce la figura dolente di Marcellino (un eccellente Pablito Calvo), un bambino di otto anni rimasto improvvisamente senza la madre. Totò si fa passare per suo zio e così riesce ad andare a vivere in un appartamento “normale”. Molto presto l’uomo si affeziona al bambino e cerca di provvedere, come può, alle sue quotidiane necessità. Compare però il vero zio (Fanfulla), un delinquente che vive sfruttando tre ragazzini (li costringe a chiedere l’elemosina) e, in breve tempo, anche Marcellino finisce sulla strada mentre lo zio si attrezza per ottenere la tutela del nipote, così da potersi impadronire dell’appartamento di proprietà del ragazzino. Marcellino, oltremodo sensibile, soffre nella nuova situazione, scappa e, pur di guadagnare l’inferno (dove pensa stia la madre morta), cerca di ammazzare “il professore”. Il finale è lieto - la coppia Totò-Marcellino si ricongiunge - anche se alquanto problematico e aperto.
La pellicola si ispira a certo cinema neorealista di denuncia, evitandone però gli eccessi (si respira a tratti il clima di Miracolo a Milano) e riuscendo a restituire un contesto realmente drammatico e amaro senza scadere nel film tetro e deprimente. Tutti si industriano per sfruttare la povera vittima: lo zio rappresenta solo il punto estremo del piccolo calvario di Marcellino poiché anche i vicini di  casa si occupavano di lui, a patto di poterne trarre un qualche vantaggio (sempre relativo all’uso o al possesso del suo appartamento) ed anche la maestra, pur consapevole della situazione difficile del ragazzino (lo zio lo ha obbligato a lasciare la scuola), non fa nulla per cercare di riportarlo in classe dai suoi compagni. In questo senso il film offre un quadro duro e a tratti disperato (si veda anche il modo in cui ritrae i politici ovvero individui potenti e lontani che non concedono confidenza), sempre riequilibrandolo con i sorrisi e le astuzie del buon Totò, la cui sofferta umanità si misura ora con una maschera dolente e seria. La pellicola possiede quindi una notevole forza espressiva e un evidente autenticità, aiutata anche dalla scelta di squarci urbani originali (una Roma poco riconoscibile) e da una suadente colonna sonora (Carlo Rustichelli) di ispirazione rotiana.
Tutto ciò probabilmente sorprese il pubblico dell’epoca, abituato a un Totò più spensierato: la pellicola infatti ottenne incassi assai modesti.

Totò Peppino e le fanatiche (giu 1958, 95 min.), diretto da Mattoli, è invece uno dei peggiori film del comico napoletano.
La coppia comica, rinchiusa in manicomio, racconta al direttore dell’istituto le proprie peripezie. Inizia così un film a episodi in cui Totò e Peppino si lamentano dei propri contesti familiari in cui mogli e figlie sono ormai assorbite da nuove manie, segni inequivocabili del modernismo alle porte. Su ogni tema la coppia imbastisce un siparietto teatrale (gli esterni sono quasi del tutto assenti) scontato e poco divertente. I bersagli sono la vacanze in campeggio, gli elettrodomestici, i nuovi hobby, le serate di beneficenza e il tutto sarebbe di grande interesse se non fosse trattato in maniera scialba, facendo ricorso a battute spesso già sentite.
Totò e Peppino rappresentano, insomma, la vecchia guardia o la Tradizione che si vede svalutata e sottomessa da un esercito di donne vocianti e incontenibili. L’associazione tra modernismo e universo femminile è ribadito in ogni episodio, finendo col caratterizzare la pellicola tramite una vena di aperta misoginia (peraltro già presente in numerose pellicole di Totò). Il benessere, ormai ampiamente diffuso come provano le novità moderniste, tutte legate alle nuove conquiste tecnologiche (l’auto, il frigorifero, la lavatrice... ) libera il mondo femminile da antiche incombenze consentendo a mogli e figlie di dedicarsi con determinazione ad attività inutili, di semplice divertimento, prima impensabili, che consentono loro di uscire dal contesto domestico e appropriarsi di spazi del mondo esterno ai quali prima potevano accedere in maniera alquanto saltuaria. Il film, per quanto modesto, fotografa questa novità sociale e lo fa da un’ottica conservatrice e antifemminista. Peccato che il carattere antiquato e fiacco delle trovate comiche finisca col privilegiare il dinamismo aggraziato delle fanciulle, ottenendo così un esito quasi opposto a quello espresso dal racconto (di fatto nel finale, in manicomio, finiscono le donne e i giovani loro complici... ).
Gli incassi furono discreti, superiori tuttavia a quelli del ben altrimenti valido Totò e Marcellino.

Turi Vasile firma Gambe d’oro (ago 1958, 95 min.), un piacevole racconto ambientato nel mondo del calcio giovanile.
A Cerignola intorno ad una squadra di dilettanti litigano l’appassionato allenatore (Memmo Carotenuto) deciso a portare la compagine almeno in serie C e il presidente (Totò), un avarissimo commerciante di vini che finanzia quei giovani senza convinzione. Lo scontro si accentua quando dalla odiata Milano giunge un emissario della Federazione, intenzionato ad acquistare, per una grossa cifra, i due giocatori migliori (Paolo Ferrari e Rosario Borelli) del Cerignola. L’incredulo presidente accetta subito, tutti sembrano felici tranne l’allenatore che vede così distrutta la propria squadra. Gradualmente quest’ultimo riesce a convincere i due giocatori e il presidente a rimanere nella cittadina pugliese: lo spirito di corpo resterà così immutato e la squadra, tutta intera, cercherà di conquistare la ribalta nazionale.
Nella pellicola si respira il clima ottimistico del cinema di Frank Capra: si giunge fin sull’orlo del baratro (quando nella squadra si scatenano malumori e invidie, minando fatalmente la sua capacità agonistica) per poi ritornare verso contesti più armoniosi e solari. La prova di Totò è notevole: egli disegna uno dei suoi personaggi burberi e polemici di notevole spessore: il suo cinismo, relativamente alle attività sportive giudicate irrilevanti, il suo orgoglio “sudista” e la sua costante rissa con la moglie settentrionale (viene tirato in ballo anche Garibaldi e la sua contestata impresa, molti anni prima della Lega di Bossi), riempiono lo schermo e da soli meritano grande attenzione. C’è poi un bravissimo Carotenuto, una Cerignola perfettamente valorizzata (numerose le sequenze ambientate nella piazza del duomo) e alcune sottostorie amorose abbastanza scontate (ci sono Rossella Como e Scilla Gabel) anche se, a tratti, interessanti nel loro ribadire con decisione la centralità della famiglia e della procreazione, obiettivi certi di tutta la gioventù locale (ancora immune dai germi ribellistici dei futuri anni sessanta). Insomma una pellicola serena e positiva che abbraccia con forza i valori della Tradizione e che porta anche i più riottosi (il presidente Totò) ad accettare e sostenere quel contesto armonioso, rinunciando al proprio gretto cinismo.
Nonostante tutto ciò il film fu un fiasco commerciale.
La pellicola sarà l’evidente modello del più fortunato e decisamente meno valido film con Alberto Sordi ovvero Il presidente del Borgorosso Football Club (D’Amico 1970; vedi)

Nello stesso m ese esce La legge è legge (ago. 1958, 90 min.), una coproduzione italo-francese diretta da Christian-Jaque tesa a rinverdire i fasti del ciclo di Don Camillo. Come in quel caso si affida a un regista d’oltralpe una pellicola incentrata sull’incontro di due  attori ognuno dei quali estremamente popolare nel proprio paese. Così Fernandel (già Don Camillo) deve ora fronteggiare uno scatenato Totò nella classica contrapposizione di guardia e ladro (il ricordo va anche al film di Steno-Monicelli del 1951, con Gino Cervi accanto al comico napoletano).
Il problema posto al centro del racconto è del tutto teorico o meglio ideologico: la presenza del confine tra stato e stato, di cui si vorrebbe fare una critica di tipo umanitaristico; non a caso il film fu presentato al festival di Berlino (giugno 1958) in un contesto politico in cui tale problema era talmente scottante da causare, di lì a tre anni, la creazione del più famoso confine del Novecento (il muro berlinese venne eretto nell’agosto 1961). L’opera, alquanto modesta, non ricevette alcun premio e fu un mezzo fiasco anche in Italia, esito tipico di film in cui l‘intento predicatorio piega ai propri interessi la narrazione con esiti indigesti.
Ad Assola, paesino inventato (in realtà Venafro in Molise), il confine divide in due l’abitato, passa addirittura dentro i quartieri e perfino le case. Sebbene formalmente si tratti del confine italo-francese (si parla della provincia di Cuneo), in realtà il riferimento è alla cittadina di Gorizia al confine orientale (divisa tuttora in Gorizia e Nova Gorica, Slovenia), confine reale e scottante tra due mondi e due visioni ideologiche e più in generale a Berlino e al problema delle due Germanie: l’Occidente liberale vorrebbe evitare la creazione di un confine rigido, in modo che lo strapotere della sua economia, efficiente e creativa, abbia la possibilità di dissolvere, nel giro di qualche decennio, l’utopia comunista, statica e grigia. Come sappiamo le cose andarono altrimenti.
Totò, in gran forma, delinea la figura di un dinamico contrabbandiere al quale inutilmente dà la caccia la guardia di confine Fernandel. Quando il primo scopre che il secondo è nato nella parte italiana di Assola pubblicizza la cosa e crea all’amico-nemico una imprevedibile sequenza di problemi che, in breve, gli rovineranno l’esistenza. Fernandel persa la cittadinanza francese, perde anche tutto il resto: lavoro, famiglia, abitazione. Acquisita la cittadinanza italiana si ritrova carcerato in quanto bigamo (aveva in precedenza divorziato dalla moglie italiana che è poi divenuta moglie di Totò... ; ma in Italia non c’è il divorzio) e in quanto disertore (nel 1940 aveva, ovviamente combattutto con i Francesi...). Insomma gli equivoci e le follie derivanti da un subitaneo e artificioso cambio di nazionalità sono molte, troppe e occupano pedantemente tutto il racconto, stancando presto lo spettatore. Né è sufficiente l’abilità indiscussa dei due interpreti a rendere interessante e spiritoso il film, anche perché tutti gli altri personaggi sono alquanto generici e stereotipati. Altrettanto prevedibile è la briosa colonna sonora di Rota.
Il regista Christian-Jaque, in genere più a suo agio con pellicole d’azione, e gli sceneggiatori Age e Scarpelli vorrebbero dimostrare l’inutilità dei confini, in nome dell’astratto ideale massonico della repubblica universale degli uguali. In realtà la presenza intorno ai due protagonisti, entrambi figure marginali nei loro contesti “nazionali”, di numerosi personaggi (le compagini militari italiane e francesi, le due famiglie) che si identificano con le proprie abitudini, derivate dalla loro cultura nazionale, è motivo già sufficiente a vanificare gli astratti ideali degli autori e della coppia comica mentre le problematiche che investono Fernandel derivano sostanzialmente dalla sua anomalia originaria, non essendo stato riconosciuto alla nascita da suo padre (ma nel racconto si intuisce la presenza di questo padre decisamente francese). Ciò che esiste da secoli possiede sempre una propria ragion d’essere, è incontestabile e invano protestano i due simpatici protagonisti.
Il film riprende la consueta e citata ideologia massonica: l’appello a una pacificazione generale e a una capacità dei popoli di vivere pacificamente, senza confini, è abitualmente un appello di stampo progressista come tutta l’ideologia umanitaria, in quei decenni sponsorizzata ipocritamente dall’Urss, in evidente difficoltà al cospetto della potenza militare Usa. In questo specifico caso però l’appello ad evitare la creazione di confini rigidi, con evidente riferimento alla cortina di ferro, gioca a favore dell’Occidente: senza quella cortina i regimi dell’est verrebbero rapidamente permeati dalla superiorità sociale ed economica dell’ovest e in prospettiva le loro dittature comuniste si dissolverebbero, cosa che in effetti accadrà nel 1989 quando l’apertura dei confini coinciderà con la fine del comunismo.
D’altronde l’ideale massonico e quello comunista, seppure idealmente allineati, appaiono nella realizzazione pratica alquanto differenti visto che la rigida visione egualitaria di tipo marxista può essere realizzata solo instaurando un regime dittatoriale e ferocemente repressivo.

Su tematiche più leggere ed apertamente comiche si torna con il mediocre Totò a Parigi (set 1958, 90 min.), diretto da Camillo Mastrocinque, in cui regista e comico riciclano situazioni e gag abbastanza note.
L’esile trama è impostata sulla presenza di due sosia: il ricchissimo marchese De Chermantel (Totò doppiato) a Parigi e il vagabondo Totò a Roma. Il secondo viene attratto nella capitale francese da alcune seduttrici (tra cui Sylva Koscina) inviate dal primo che vuole fargli prendere il suo posto, fargli la pelle e incassare un colossale premio assicurativo. Ovviamente il Totò buono e sprovveduto trionfa su quello cattivo.
Si tratta di un prodotto ordinario in cui il comico ripropone scenette collaudate come quella del treno con il povero Luigi Pavesi e quella del museo delle cere (l’unica sequenza realmente divertente con Totò travestito da Hitler). Nel prologo romano il vagabondo Totò dialoga con la guardia Memmo Carotenuto, ridando vita per breve tempo all’affiatata coppia di Totò e Marcellino. Accanto alle esibizioni del comico, l’altro vero elemento di richiamo è quello dei locali francesi di spogliarello dove assistiamo a differenti numeri, con perfino un’esibizione canora di Totò.
Nonostante la modestia dell’insieme la pellicola ottenne buoni incassi.

Molto meglio vanno le cose con Totò nella luna (nov. 1958; 90 min.) sceneggiato (da Fulci e Scola) e diretto da Steno.
Pasquale (Totò) dirige Soubrette, un modesto giornaletto scandalistico al quale partecipa come ragazzo tuttofare anche Achille (Ugo Tognazzi). Quest’ultimo possiede grandi ambizioni: ha scritto un romanzo fantascientifico (Il razzo nello spazio) che vorrebbe pubblicare sulla rivista ed ama Lidia (Sylva Koscina), la figlia del principale. Per una serie di malintesi Achille viene avvicinato da agenti segreti americani che vogliono farne il primo astronauta della storia, pagandolo lautamente. Achille e Pasquale credono che le enormi somme prospettate servano invece a lanciare il romanzetto di Achille; ad ingarbugliare la simpatica vicenda arrivano le spie d’oltrecortina (un divertente Luciano Salce supportato dalla provocante Sandra Milo) ed addirittura gli alieni o anellidi che, per impedire ai terrestri di raggiungere la luna, spediscono sulla terra due “cosoni” ovvero due copie perfette di Achille e Pasquale (secondo lo schema inventato da Siegel nel suo celebre L’invasione degli ultracorpi, 1956) che prendono il posto degli originali. Nel finale a sorpresa sulla luna arrivano il vero Totò e il falso Tognazzi, mentre sulla terra rimane la copia di Totò.
Il lavoro mette in scena una vivace e riuscita satira del cinema fantascientifico soprattutto americano e offre l’inedita, efficace coppia Totò-Tognazzi; quest’ultimo azzarda perfino alcune simpatiche caricature del comico napoletano (caricature che abitualmente proponeva negli spettacoli di rivista). Totò interpreta nuovamente una figura dura e burbera (come in Gambe d’oro) che si completa con le sognanti e un po’ sciocche esitazioni del giovane Tognazzi, il quale appare poi esilarante nel ruolo del “cosone” alieno, mezzo robot e mezzo spastico.
Nell’insieme del racconto si fa largo una vena di sano scetticismo intorno alla utilità di esplorare lo spazio (il chiaro sottinteso riguarda gli innumerevoli problemi che esistono ancora sulla terra e che sono in attesa di soluzione). Numerosi sono i dialoghi di Totò che inveiscono contro questa stravagante moda di cui non si sente alcuna reale necessità. Va detto che sessant’anni dopo rimangono dubbi intorno alla reale utilità di queste esplorazioni, accanto al sospetto relativo alla verità complessiva di queste missioni. Dopo un tempo enorme (più di mezzo secolo, in ambito  scientifico un tempo enorme) dai primi passi (coincidenti con l’epoca del film di Steno) la dimensione spaziale rimane sostanzialmente estranea all’umanità in quanto ancora nessun civile è potuto andare nello spazio “da turista”, neppure per una breve orbita intorno alla terra. La questione spaziale rimane a tutt’oggi una questione estremamente circoscritta e di natura squisitamente militare e ciò spiega il sostanziale disinteresse delle masse per una dimensione alla quale esse non hanno sostanzialmente accesso. Lo scetticismo dell’uomo comune Totò trova pertanto una perfetta conferma ai giorni nostri.
Gli incassi furono molto modesti: gli Italiani dell’epoca confermarono in questo modo il loro disinteresse per lo spazio e per Totò astronauta.

Si torna a un livello scadente con Totò, Eva e il pennello proibito (gen 1959 - 90 min.), farsa prevedibile ambientata in una Madrid invisibile in cui si riprendono temi del recente successo americano La Maja desnuda (Koster, 1958).
A Madrid (presente solo con le immagini turistiche dei titoli di testa; i film è stato girato in interni a Roma) il truffatore Mario Carotenuto, aiutato dalla bella Abbe Lane vuole vendere, sul mercato antiquario, un falso Goya ovvero una presunta “Maja in camicia” dipinta dal falsario Totò e riconosciuta dal critico d’arte Louis De Funes (al suo primo incontro con Totò), quest’ultimo irretito dalla bella Abbe Lane. Malintesi a non finire con Totò spesso vestito da torero. Realmente divertente risulta solo la lunga sequenza al night con la porta girevole che fa impazzire un marito in cerca della moglie infedele e la sfilata finale delle numerose Maja, dipinte da un indispettito Totò.
Per il resto siamo al solito repertorio di mimiche e mossette ampiamente sfruttato da Totò e dai suoi abituali collaboratori.
Nel suo relegare il mondo femminile in ambito erotico-familiare, lasciando ogni fatto decisionale all’universo maschile, anche questo film conferma l’aderenza alla Tradizione di questo cinema di mero intrattenimento in cui i differenti e gerarchizzati ruoli storici di maschio e femmina vengono costantemente confermati.
Il film fu un fiasco.

Otto anni dopo Guardie e ladri (1951), Steno dirige quasi un remake con il pregevole I tartassati (mar 1959; 100 min.), coadiuvato alla sceneggiatura da Fabrizi, Maccari (che era anche tra gli sceneggiatori del precedente film) ed altri.
Fabrizi alias maresciallo Topponi della tributaria riveste ancora il ruolo il persecutore, stanco rappresentante sottopagato di uno stato che fatica a farsi pagare le tasse mentre Totò passa dalla figura del ladro a quella del cavaliere Pezzella, commerciante di successo e grande evasore (quindi, a suo modo, sempre ladro). In un’Italia ormai lontana da quella dell’immediato dopoguerra non è un caso che il ladro si sia trasformato in un brillante piccolo imprenditore, categoria che, nella visione di un cinema venato, in questo caso, da tenui ricordi neorealistici di marca “progressista”, rimane quella antagonista, volta a frenare il presunto cammino verso l’opinabile traguardo di una stringente e paralizzante equità economica e sociale. Il film, dunque, dipinge l’esistenza di due Italie (tuttora esistenti) ovvero quella degli statali garantiti, che vivono in ristrettezze e guardano con diffiìdenza e risentimento al mondo dei commercianti e degli industriali, l’altra Italia, in cui il denaro sembra prodursi in grande quantità e i cui protagonisti evadono massicciamente il fisco con stratagemmi di ogni genere. Pezzella ha addirittura reclutato un consulente fiscale (Louis De Funes) il cui compito è suggerirgli tutti i possibili metodi per eludere le tasse e corrompere eventuali finanzieri (prassi odierna assolutamente ordinaria). Così quando Topponi irrompe nel negozio di Pezzella e vi si stabilisce per un lungo controllo (la cifra da pagare, tra multe e tasse evase, è enorme per l’epoca: quindici milioni di lire ovvero 400.000 euro del 2020) Pezzella cerca in ogni modo di fraternizzare con lui e di corromperlo con regali di ogni tipo. Il maresciallo è però incorruttibile ed allora il negoziante riesce a rubargli le carte, mettendolo in grave difficoltà: come la guardia del 1951, anche il maresciallo ora rischia la galera per negligenza: a questo punto il commerciante, uomo di buon cuore, accetta di pagare. Nel frattempo le due famiglie hanno fatto amicizia e i figlioli si sono fidanzati...
Il film di Steno vanta innanzitutto due comici strepitosi, in grande forma che da soli tengono in piedi la modesta e ripetitiva sceneggiatura che, tuttavia, conosce un proprio efficace crescendo che culmina nell’esilarante, perfetta sequenza dell’ospedale in cui si trovano riuniti tutti i principali protagonisti. Totò dà forma ad uno dei suoi personaggi scuri e burberi mentre Fabrizi delinea la consueta figura dell’uomo semplice e modesto, fedele alle leggi dello stato, tranquillo e contento di quel poco che ha. Intorno a loro ci sono le due Italie l’un contro l’altra armate: da una parte ricchezza e spreco, dall’altra clima austero e un po’ malinconico. Il confronto tra le due abitazioni riassume compiutamente i differenti mondi e le antitetiche attitudini di fronte all’esistenza: controllata e fiera l’una, debordante e sciocca l’altra. Tra i due modelli ovviamente il film guarda con una certa ammirazione alla prima, tanto è vero che sarà la figlia del maresciallo a “redimere” il figlio del negoziante da uno stile di vita inconcludente e dispersivo, avviandolo alla ripresa degli studi universitari. Il punto debole del film è la sceneggiatura troppo monotona: essa si limita ad allineare i tentativi maldestri di Pezzella per corrompere Topponi, senza riuscire ad inserire qualche elemento differente o ad allargare il quadro ad altre storie o personaggi, mentre la vicenda degli amorosi è quanto mai generica e stereotipata. In ogni caso il finale rosa (il matrimonio dei figlioli) e la comprensione che, infine, ciascuna delle due Italie prova per l’altra è invece un’altra qualità del racconto che, negli anni del boom economico, descrive un contesto sociale in cui la guerra tra le differenti classi sociali non è mai all’ultimo sangue e in cui una certa vicendevole comprensione sembra farsi largo e garantire la compattezza del contesto sociale, una coesione che andrà disgregandosi nei sanguinosi anni settanta.
La pellicola ottenne incassi modesti.

Il film d’esordio di Lucio Fulci, I ladri (giu 1959; 80 min.) è un mediocre clone de I soliti ignoti in cui la partecipazione di Totò nell’insolito ruolo di commissario non è sufficiente a salvare l’opera.
La fin troppo complicata vicenda riguarda un gangster americano (Armando Calvo) impegnato a recuperare una refurtiva persa in quel di Napoli. Nelle elaborate operazioni finalizzate a ritrovare un numero cospicuo di sterline d’oro entrano in gioco un gruppo di ladruncoli (Giovanna Ralli, Giacomo Furia) e una piccola banda di criminali locali, pronta a pagare una forte somma in cambio della refurtiva. Le vicende si intrecciano senza mai riuscire ad essere divertenti o appassionanti e il film, costellato di lunghi, dettagliati preparativi relativi a imprese abbastanza ordinarie, naufraga nella noia.
Le gag di Totò non convincono, i siparietti musicali sono irrilevanti, Giovanna Ralli è sacrificata nel ruolo di ladra inesperta mentre Napoli si intravede appena (prevalgono gli anonimi interni)
Anche gli incassi furono molto ridotti.

Tre anni dopo Guardia, Guardia scelta... (1956), Mauro Bolognini gira un altro film corale originale e incisivo ovvero Arrangiatevi (set. 1959, 110 min.) che mette in immagini la commedia Casa nova... vita nova (1956) di .Vinicio Gioli e Mario Da Majo.
La famiglia Armentano, guidata dal capofamiglia Peppino (P. De Filippo), è costretta, nell’immediato dopoguerra, a condividere l’abitazione con una famiglia di profughi istriani. Dieci anni dopo, finalmente, Peppino riesce ad ottenere una casa spaziosa ad un prezzo stracciato, in quanto si tratta di una ex casa chiusa (quella che vediamo è realmente una casa di tolleranza chiusa nel 1958). L’uomo decide di trasferire la famiglia, tacendo loro la realtà dei fatti. Tuttavia la vecchia funzione della casa riemerge in mille modi differenti: telefonate provocatorie, soldati in congedo che, a frotte, si presentano a tutte le ore, il vicinato che ironizza apertamente e addirittura gli amici uno dei figli di Peppino che scambiano le sue sorelle per prostitute. Quando le donne di casa (Laura Adami e Crisitna Gajoni) scoprono la verità, dapprima pensano di abbandonare la casa a tutti i costi, anche lasciandovi il riluttante Peppino; poi, in un sussulto di orgoglio, rivendicano il loro diritto ad abitare in quell’edificio, alla faccia di tutto e di tutti.
Bolognini ha saputo abilmente miscelare commedia umoristica con passaggi realmente spassosi e  tono “neorealistico” laddove si parla delle difficoltà dei ceti meno abbienti. In ogni caso quest’ultima tematica rimane ai margini e non deprime un racconto che sa divertire, inanellando battute spiritose e situazioni equivoche, orchestrate con garbo. Peppino De Filippo è in gran forma nel dar vita al consueto ritratto di un italiano che sa che deve comunque arrangiarsi, chiedendo, pregando e supplicando. Notevole la sequenza in cui, mentre cura i piedi (di lavoro è podologo) ad un importante monsignore, chiede raccomandazioni a raffica (un figlio lo ha spedito in seminario... ); riuscita anche la figura del pappone (Vittorio Caprioli) e della sua donna (Franca Valeri) che truffano in svariati modi il povero Peppino. La presenza di Totò, sebbene non centrale (è il padre di Peppino) è spesso decisiva: i suoi numeri sono tutti incisivi, in particolare la gag in cui lungamente, a più riprese, si interroga sulla vera natura di quella strana abitazione in cui è finito a vivere e che gli sembra di conoscere...
La questione delle case chiuse rimane sullo sfondo: se ne parla con aperta ironia - tutti i maschi ammettono di esserci stati, anche il giovane figlio di Peppino e la cosa appare assolutamente normale mentre le donne reagiscono in modo drammatico quando scoprono dove sono finite. Lo iato che separa le prostitute dalle donne maritate è profondissimo e lo si percepisce con forza allorché la madre decide che, piuttosto che essere accomunata a “quelle” è meglio separarsi dal marito e dalla famiglia. D’altronde la tematica della chiusura delle case, tipica di altri film (Adua e le compagne su tutti) qui non è minimamente affrontata anche perché il testo teatrale di Gioli e De Majo risale a un’epoca in cui le case erano ancora perfettamente funzionanti. In ogni caso la questione della prostituzione non è oggetto di alcuna riflessione: è solo un’antica e radicata consuetudine che riguardava donne “perdute”, costrette a quel lavoro dalla miseria. Il film non partecipa al coro moralistico di chi ha voluto strenuamente quella chiusura (la legge Merlin dei socialisti) ed infatti la pellicola, pur con tutte le sue notevoli qualità, venne liquidata all’epoca con sufficienza dalla critica che emarginò il lavoro tra le pellicole di mero intrattenimento (si parlò di “farsa di grana grossa”), non paragonabili a quelle in cui simili temi erano trattati in maniera più “seria” (leggi predicatoria e deprimente).
Gli incassi furono discreti.

Un esito discontinuo si trova invece in La cambiale (nov 1959, 110 min.) di Camillo Mastrocinque dove, accanto alla ben nota coppia Totò - Peppino, sfila un cast di tutto rispetto. La pellicola adotta l’insolita struttura del racconto circolare (celebre quella usata da Ophuls ne La ronde, 1950) al cui centro si trova una cambiale fasulla mentre intorno si agita un piccolo mondo di truffatori e furbastri, tanto dinamici quanto bugiardi. Insomma l’Italia come il solito paese di teatranti abili e disonesti la cui unica finalità è soddisfare i propri istinti (lussuria e avidità innanzi tutto, ma anche semplicemente vanità e fame).
Totò e Peppino danno vita al prevedibile episodio dei falsi infortunati: essi cercano di estorcere lauti compensi dal presunto riccone di turno (Aroldo Tieri) da cui ricevono una cambiale. Luigi Pavese è invece un padrone di casa che invano cerca di riscuotere l’affitto (dalla coppia di spiantati Totò-Peppino) e che, con la cambiale fasulla si compra un falso cane da caccia; Gassman, modesto tosacani, si fa passare per principe russo con la prostituta d’alto bordo Sylva Koscina e le cede la nota cambiale; la donna se ne libera comprando una pelliccia in una elegante boutique e, invano, Tognazzi e Vianello cercano di recuperare il denaro dalla donna, preferendo, infine, andarci a letto. Inizia poi un percorso “retrogrado” che termina con la spassosa esibizione di Totò e Peppino falsi testimoni in tribunale, al servizio (nello stesso procedimento) di accusa (Gina Rovere) e difesa (Luigi Pavese). Tornata nelle mani del proprietario, quest’ultimo si limita a prorogarla...
I singoli episodi sono di valore differente: stanche le chiacchiere di Totò, Peppino e Pavese, vivace lo scenario presso il negozio di animali (in cui un gruppo di donne ricche e mature passa il tempo a corteggiare Gassman) dove ci sono anche Paolo Ferrari e Giorgia Moll e notevole lo sketch con Tognazzi lottatore improvvisato e malmenato. Il difetto generale è quello di offrire una serie di siparietti tipici dell’avanspettacolo, tutti ambientati in anonimi interni, che finiscono col dare al film un carattere eccessivamente teatrale e statico. Roma, praticamente, non si vede. La coerenza dell’insieme si ottiene comunque nel piccolo, complessivo affresco che mostra un’Italia vivace e arraffona, allergica ai finti doveri e ingegnosa nel cercare soluzioni individuali a problemi incoffessabili.
Il film riscosse un notevole successo.

testo scritto nel feb. 2020