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Ecco la radio!, La granduchessa si diverte, Validità giorni 10, La danza dei milioni, Cuori nella tormenta, Un’avventura di Salvator Rosa e La fanciulla di Portici: populismo e livore antiaristocratico (1940)
Giacomo Gentilomo, originario di Trieste (n. 1909), si trasferisce ventenne a Roma dove inizia a lavorare nel mondo del cinema come aiutoregista di Mattoli, Bragaglia e altri. Il primo lungometraggio firmato
in qualità di autore è Il carnevale di Venezia (1939) cui segue Ecco la radio!
(feb. 1940; 70 min.), una sorta di fantasia-documentario basato su una sceneggiatura dello stesso regista (con Fulvio Palmieri), composta da una serie di episodi autonomi con i quali si racconta, si spiega e si celebra il più importante mezzo di comunicazione dell’epoca, operativo dalla metà degli anni venti (nel 1927, tuttavia, gli abbonati erano ancora solo 40000 e bisognerà attendere il decennio successivo per assistere alla concreta diffusione della radio).
L’autore affianca intento didascalico e gusto per la scenetta ora spiritosa, ora fantastica mentre il grande pubblico può finalmente vedere i volti di numerosi popolari conduttori radiofonici. Attraverso questo curioso film
lo spettatore odierno si rende conto del fatto che la radio ricopriva, a tutti gli effetti, la medesima importante funzione quotidiana svolta oggi dalla televisione. Essa informava con i numerosi notiziari, indottrinava con i
molteplici riferimenti ai valori di riferimento in auge (nel 1940 erano ovviamente quelli fascisti, nei successivi decenni “televisivi” saranno altri) e intratteneva con concerti di musica colta (piacevole l’episodio ispirato a
Tartini e alla leggenda delle circostanze in cui nacque la composizione Il trillo del diavolo), di musica leggera, con la cronaca degli eventi sportivi più rilevanti e con radiodrammi a puntate. Grazie all’utilizzo della
diretta radiofonica, il pubblico degli anni trenta e quaranta sarà il primo ad avere la (per ora flebile e appena accennata) sensazione di vivere in un villaggio globale in cui i grandi eventi della cultura e della politica
potevano entrare, in alcune occasioni addirittura in tempo reale (ad esempio una prima scaligera), nella sfera domestica. Particolarmente interessante appare, infine, l’episodio dei due ladruncoli miseri e affamati che,
scoprendosi fortemente somiglianti a due popolari conduttori radiofonici, riescono a scroccare un pranzo in cambio di finti autografi. E’ singolare che la censura fascista, sempre così attenta a cancellare qualunque segno di
povertà dall’universo mediatico (oppure a trasferire in improbabili stati esteri le vicende più scabrose), abbia lasciato correre questa scenetta la quale, sebbene giocata su toni apertamente comici, ricorda al grande pubblico
che anche nell’efficiente e fattiva Italia di Mussolini ci sono ladri e miseria. Il successivo La granduchessa si diverte (luglio 1940; 85 min.) è un film teatrale - liberamente tratto dalla commedia in tre atti La corona di strass (1932) di Ugo Falena - che non si discosta dagli schemi del populismo imperante. In un granducato da burletta la granduchessa (Paola Barbara) non sopporta gli obblighi dell’aristocrazia, le formalità e l’etichetta. Così spesso si unisce al popolo in incognito frequentando le bettole più umili, con grande disappunto dei dignitari di corte (descritti come il solito branco di imbecilli). Un giorno incontra una cantante che le somiglia come una goccia d’acqua: le due donne si scambiano i ruoli per qualche giorno, creando il massimo scompiglio. Poi tutto si aggiusta: la soubrette sposerà l’uomo che ama, la nobildonna invece un cugino che non sopporta, per pure esigenze di governo.
La morale è sempre la solita: gli umili sono felici (soprattutto perché c’è il fascismo... ) mentre i nobili sono residui del passato, prigionieri di assurde usanze e lontani dalla vita vera. Non a caso la critica
dell’epoca, pur rilevando la pochezza del film, ebbe parole di lode per le “efficaci sfumature caricaturali” riguardanti l’universo aristocratico ossia per il lato apertamente ideologico della pellicola. Il pubblico popolare
delle sale periferiche poteva ben uscire soddisfatto e rincuorato da queste modeste favolette nelle quali peraltro l’umorismo è fiacco e incapace di provocare alcun divertimento (per quanto futile) mentre gli attori appaiono
tutti poco convinti di quanto vanno facendo e dicendo. Il cuore social-socialista-populista del regime ne veniva comuque rafforzato. Di notevole il film conta solamente la bella colonna sonora organizzata per Leitmotive dell’operista Salvatore Allegra i cui motivi seriosi e vagamente verdiani, se non legano molto con l’esilità delle figure del racconto, tuttavia offrono una piacevole occasione di ascolto. La storiella sembra uscita del teatro buffo rossiniano (come sempre evidente la continuità tra melodramma e cinema), lo sviluppo impresso da Gentilomo è invece assai poco divertente e, a tratti, vira perfino verso il dramma serio mentre la colonna sonora opta per quest’ultimo registro.
Il medesimo livore antiaristocratico caratterizzerà il clima politico della seconda metà del Novecento come dimostreranno i casi montati ad arte dell’ottocentesca principessa Sissi (si veda la popolare trilogia filmica con
Romy Schneider, Marischka 1955-57) e della principessa Diana (puntualmente celebrata nel brutto The Queen, Frears 2006). Il massonismo segreto del fascismo si collega a quello esplicito delle democrazie postbelliche: i
teatranti contestano la Storia e portano il loro banale semplicismo nei palazzi reali.
Camillo Mastrocinque, nato a Roma (1901), si laurea in architettura ed esordisce nel cinema in qualità di scenografo.
Dopo un periodo di lavoro trascorso in Francia, torna in patria dove passa alla regia a partire dal 1936. Nella seconda metà degli anni trenta firma un paio di pellicole l’anno; nel 1940 gira La danza dei milioni, una commedia di ambientazione bancaria e Don
Pasquale, una versione cinematografica della celebre opera buffa donizettiana (1843). Validità giorni 10 (marzo 1940; 76 min.) è il suo quinto film. In esso si prende spunto da un romanzo di Pietro Silvio Rivetta,
sceneggiato dal regista con altri, per raccontare le disavventure di un impiegato (Antonio Centa) di Cinecittà il quale, per seguire una bella fanciulla (Laura Solari), finisce a Venezia e si trova impegolato in una complicato
girotondo nel quale tutti cercano una preziosa collana rubata. Ovviamente il ladro è un avventuriero russo (gli italiani queste cose non le fanno) che verrà scoperto proprio dalla ragazza che fa parte dello staff della
compagnia di assicurazioni; quest’ultima infatti - per non rifondere il danno alla proprietaria - ha sguinzagliato tutti i suoi dipendenti in questa sorta di caccia al tesoro. Il film possiede il tono della commeda
giallorosa, di evidente matrice hollywoodiana; purtroppo i dialoghi sono banali, gli attori alquanto impacciati, le ambientazioni generiche (i soliti grandi alberghi mentre purtroppo di Venezia si vedono solo pochi scorci) e
l’andamento della storia di assoluta prevedibilità. L’unica sorpresa è costituita dalla cornice metafilmica: la pellicola si apre in uno studio di doppiaggio di Cinecittà e termina con un lieto fine nel quale i protagonisti
avvisano il pubblico in sala che la scritta “Fine” sta per sopraggiungere. Tutto il resto è logoro repertorio di moine e mimiche arcinote. Realizzare film leggeri e divertenti non è cosa tanto semplice quando manca l’estro
umoristico e non si possiedono idee narrative minimamente originali. Le stesse osservazioni valgono per il successivo La danza dei milioni
(ago. 1940; 80 min.) in cui Mastrocinque prende spunto dalla commedia ungherese L’affare Kubinski di Laszlo Fodor e Laszlo Lakatos (la sceneggiatura è firmata da Luigi Zampa). Vi si raccontano le disavventure di
Gustavo Wiesinger (Nino Besozzi), impiegato senza lavoro ma ricco di iniziativa, il quale si piazza nell’ufficio di un vecchio compagno di scuola (Carlo Campanini) all’interno di un’importante banca. L’uomo si fa passare per un
dipendente di antica data: dopo qualche perplessità tutti lo accettano ed anzi ne condividono le brillanti, innovative proposte. In particolare prende piede il piano Gombos con cui i vertici della banca decidono di finanziare
consistenti e necessarie opere pubbliche, anteponendo l’interesse del paese al proprio. Nel giubilante finale tutti applaudono “l’uomo nuovo” (nient’altro che il solito piccolo borghese operoso ed entusiasta, modello centrale
del regime) che inaugura i lavori e si fidanza ufficialmente con la figlia del proprietario della banca, strappandola a un infelice matrimonio combinato tra dinastie finanziarie Il racconto è bamboleggiante e ripetitivo,
verboso e prigioniero di scenari artefatti,
tutti identici. Si anima solo nel finale allorchè compare la consueta sottotraccia della feroce critica a un ceto finanziario di tipo parassitario: gli autori possono dipingere con zelo e cattiveria una serie di figure insulse e sciocche, tanto più che si tratta di gente d’Ungheria. Gustavo arringa il consiglio d’amministrazione con un sermone degno di un comizio marxista (parla di società senza classi, di necessità di investire per aiutare il popolo ecc.), elogia la gente operosa delle classi sociali disagiate (come lui, un abusivo estraneo al contesto bancario), spinge i banchieri verso un utilizzo “sociale” dei capitali ed ottiene un trionfo in un finale che ricorda i documentari Luce che ritraggono Mussolini che inaugura questa o quella nuova città, strappata alle paludi. Così facendo conquista anche la figlia del padrone, distogliendola da un insulso matrimonio di classe.
Il film, complessivamente modesto e assai poco divertente (sebbene cerchi di imitare il modello hollywoodiano della screwball comedy), appare degno di nota per il tratto populistico di netta marca fascista: esso
evidenzia, in modo netto, l’estrema vicinanza tra l’ideologia sociale mussoliniana e quella socialcomunista.
L’ennesimo esempio di propaganda populista e antiborghese si trova nel mediocre Cuori nella tormenta
(mag 1940; 90 min.) di Campogalliani, basato su una sceneggiatura del regista e di Sergo Amidei. Lo schema narrativo è quello della Carmen di Bizet: in un paesino di montagna sulle Alpi, abitato da gente semplice e
schietta, arriva Roberta (Silvia Manto) una donna fatale, milanese, ricca e altoborghese (è stata costretta ad un atterraggio di fortuna con il suo aereo privato... ), seduce Piero, il più aitante (Mino Doro) dei suoi
soccorritori, già fidanzata con Teresa,
un’angelica creatura (Dria Paola) che lavora alle poste. Scoppia il dramma: l’uomo lascia il paesino e viene “corrotto” dalle usanze vacue di Roberta e della sua cerchia; però Teresa ha un incidente, è in fin di vita e l’uomo, compreso l’errore, accorre al suo capezzale. Redenzione e lieto fine.
Il consueto schema operistico viene ricreato con dialoghi insulsi, personaggi di cartapesta e scenari generici; purtroppo manca una colonna sonora degna (quella dei teatri lirici) che possa giustificare la visione di un
simile melenso racconto. Al contrario la pellicola ribadisce la visione mussoliniana dello Strapaese: ogni virtù è custodita nei piccoli centri dove tutti si danno da fare (non a caso l’angelica fidanzata lavora alle poste...)
mentre ogni atteggiamento parassitario, frivolo e (si sottintende) ostile all’etica fascista, si ritrova nell’inutile lusso dei grandi centri urbani, popolati di gente supponente, che spreca il proprio tempo in divagazioni
improduttive (Roberta non lavora e sfaccendati appaiono anche i suoi compagni di vacanze). Lo scenario semimarionettistico è quello di decine di altre pellicole senza che Cuori nella tormenta riesca ad aggiungervi alcunchè di originale. L’unico motivo di interesse è la partecipazione di Alberto Sordi (si tratta di uno dei suoi primi ruoli significativi) che, doppiato, interpreta uno dei petulanti amici milanesi (!!!) della protagonista.
Alessandro Blasetti nasce a Roma il 3 luglio 1900, figlio di Cesare, oboista e professore di conservatorio e di Augusta Luliani. Si laurea in legge nel 1924, ma intanto svolge attività di giornalista e di
critico cinematografico. Esordisce alla regia cinematografica con Sole (1929), lavoro volto a esaltare la coeva politica delle bonifiche posta in atto dal fascismo. Negli anni trenta, dopo il severo e poco fortunato 1860 (1933), Blasetti celebra la marcia su Roma con Vecchia
guardia (1934), film troppo realistico che divide un regime nel quale si preferisce non rievocare in modo troppo dettagliato l’ascesa al potere avvenuta in un clima di diffuse violenze.
Nel 1939 Blasetti dirige uno dei suoi film più noti, Un’avventura di Salvator Rosa
(gennaio 1940; 95 min.), pellicola che riscuote ampio successo di critica e di pubblico. Si arriva a definirlo il suo film migliore, sebbene si tratti sostanzialmente di un lavoro di mero intrattenimento, destinato a un pubblico di ragazzini e di adulti quanto mai pazienti e disponibili (non a caso il Centro Cattolico definisce il film ”per tutti”, fatto abbastanza insolito).
Nella Napoli in cui è appena declinata la stella di Masaniello (1647), il pittore Salvator Rosa (Gino Cervi) aiuta il popolo partenopeo, maltrattato da nobili, vicerè spagnoli e potenti ottusi di ogni sorta, intervenendo
nascosto dietro la maschera nello spadaccino Formica. Il “supereroe” - in larga parte ricalcato sulle figure di Robin Hood e di Zorro - aiuta gli umili e castiga i potenti secondo schemi narrativi perfettamente in linea con il
populismo fascista. Anzi, in questo film tanto impegnativo (un “kolossal” per l’epoca), si può intuire meglio che in altri il segreto desiderio del regime (di cui si potevano già percepire alcuni primi timidi tentativi) di
disfarsi prima o poi dell’ingombrante casa Savoia con la quale Mussolini si ritrova a dover dividere il Potere da quasi vent’anni, in una posizione gerarchicamente secondaria (proprio un anno prima dell’inizio delle riprese,
nel maggio 1938, Mussolini aveva dovuto subire lo “smacco” di dovere ricevere Hitler a Roma in una poszione secondaria rispetto a quella del re e imperatore Vittorio Emanuele III, vero capo dello stato). Il ricorrente,
mazziniano disprezzo per le classi aristocratiche, assai evidente nell’intero cinema fascista del periodo, oggi appare fatto ignoto alla letteratura critica sul periodo, troppo assorbita dall’inesistente contrapposizione
“telefoni bianchi - neorealismo” per potersi permettere uno sguardo veritiero sulla realtà culturale e politica del fascismo. Così perfino lo stesso Blasetti potrà in fondo avvantaggiarsene e dichiarare (in seguito) che il suo Salvator Rosa era “uno sberleffo e una messa in berlina dei potenti e dei privilegiati e un puntello dei diseredati e degli umili” come se la cosa costituisse eccezione per il cinema di quegli anni. Al contrario il suo Salvator Rosa è allineato ai desideri mussoliniani, non meno di Sole e di Vecchia guardia.
La trama - scritta dallo stesso regista con Ugo Scotti Berni, Corrado Pavolini e Renato Castellani - è cosa pressoché irrilevante e a tratti pasticciata e inverosimile come quella di un fumetto popolare, anche se realizzata
sempre con elegante gusto figurativo e con l’ausilio di attori tutti in gran forma. La duchessa di Torniano (Rina Morelli) sta per sposare il perfido conte spagnolo Lamberti (Osvaldo Valenti), eminente rappresentante
dell’altrettanto spietata corte spagnola napoletana, il quale mira a impossessarsi delle ricchezze del ducato e, di conseguenza, a peggiorare le condizioni di vita dei contadini. Salvator Rosa alias Formica, ospite della
duchessa, opera in gran segreto e riesce a sventare il losco piano, seduce la duchessa, sconfigge il conte e infine sposa una focosa popolana (Luisa Ferida). Le principali coordinate del cinema di regime di questo
periodo - populismo e patriottismo - sono perfettamente rispettate, gli umili (tra cui un efficace Paolo Stoppa) trionfano coadiuvati dall’eroe popolare, amico dei potenti ma solo per necessità (insomma una controfigura dell’ex
maestro di scuola ed ex leader socialista Mussolini) mentre le casate nobili, profittatrici (quella spagnola) o semplicemente stravaganti e inattendibili (quella della duchessa di Torniano), sopravvivono a patto di negoziare il
loro potere con i desideri del popolo in rivolta. Assistiamo pertanto a una sorta di rilettura fantastica della Marcia su Roma (ottobre 1922), altro che film “sberleffo”. Va ricordato che la pellicola si ispira liberamente
alla figura di Salvator Rosa (1615-73), pittore, poeta e musicista dal carattere ribelle che (sembra) partecipò alla rivoluzione di Masaniello, ad alcune azioni violente contro i dominatori spagnoli napoletani e che sia stato
poi costretto a lasciare la città per evitare di finire in carcere. Di questa sorta di eroe romantico si ricorderà il Liszt “italiano” dei pianistici Anni di pellegrinaggio (2° libro, 1858) in Canzonetta di Salvator
Rosa, semplice trascrizione di un canto italiano attribuito a Bononcini sulla poesia “Vado ben spesso cangiando loco” del pittore-poeta napoletano. Tra le curiosità bisogna annoverare la presenza di due coppie destinate
a sicura celebrità: quella tragica di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida (uccisi per strada da un manipolo partigiano a Milano, il 30 aprile 1945) e quella longeva di Gino Cervi e Rina Morelli, destinata ad allietare le serate
domestiche degli Italiani negli anni sessanta come famiglia Maigret.
La tematica della rivoluzione popolare antispagnola e antinobiliare viene ripresa qualche mese dopo in un altro film destinato a grande successo il quale, invece, racconta proprio la vicenda di quel
Masaniello sulla cui morte si apre il film di Blasetti. Mario Bonnard dirige infatti con La fanciulla di Portici
(ottobre 1940; 88 min.) una delle pellicole più emblematiche del periodo. Nel rievocare la figura di Masaniello (1620-47), pescivendolo napoletano in rivolta contro le autorità spagnole, il regista (coadiuvato nella sceneggiatura da Alberto Consiglio e Ferruccio Biancini) coniuga tre tematiche centrali della poetica fascista: l’esaltazione degli umili, la tendenza giacobina a sovvertire l’ordine in nome di superiori idealità (questo fu, in definitiva, la Marcia su Roma) e la fede nazionalistico-risorgimentale, naturalmente ostile alla presenza di dominatori stranieri sul suolo delle penisola. Il tutto si lega al particolare clima di quell’autunno (l’entrata dell’Italia nel conflitto mondiale) e alla necessità di incitare gli Italiani al cimento, ricordando loro altre, passate lotte nelle quali essi si dimostrarono capaci di gesti inattesi e risoluti.
In realtà la vicenda di Masaniello (ben interpretato da un Carlo Ninchi, un po’ troppo avanti con gli anni per il ruolo) viene rieditata in modo alquanto fantasioso, inserendovi il consueto schema teatral-operistico dei
Capuleti e dei Montecchi (il figlio del viceré spagnolo ha già messo incinta la sorella di Masaniello e ora pretende di sposarla contro gli ordini del padre e della corte) e soprattutto censurando il finale tragico dei fatti
storici (dopo la rivolta, avvenuta nel 1647, Masaniello, pur avendo trionfato, viene poco dopo ucciso dai suoi stessi seguaci). In ogni caso questa specie di summa del pensiero fascista è ottimamente filmata da Bonnard il
quale non solo dirige con grande bravura gli interpreti (ottimo l’ironico viceré reso da Giulio Donadio; c’è anche Luisa Ferida nel ruolo della fidanzata dell’eroe), ma organizza con innegabile estro numerose sequenze nelle
quali lega con efficaci raccordi di montaggio l’universo di corte e quello dei popolani (i regali per le principesche nozze, cui viene obbligato il figlio de viceré, si trasformano nelle armi dei rivoltosi), veicolando poi le
numerose, intrecciate storie (i preparativi della rivolta, i preparativi per le nozze a corte, il destino della fanciulla di Portici “deportata” in un convento col suo bimbetto, la contorta vicenda amorosa di Masaniello, le
complesse trame dei cortigiani) in una sorta di struttura narrativa a imbuto che sfocia nel grande, polifonico e concitato finale. In quest’ultimo il gran rifiuto opposto dal figlio (Roberto Villa) del viceré durante la solenne
funzione matrimoniale coincide col segnale d’inizio della rivolta alla quale deve rapidamente cedere il nobile spagnolo. I napoletani, guidati dall’inossidabile Masaniello, rifiutano di pagare le eccessive tasse imposte loro e
soprattutto non accettano di venire coscritti per andare a combattere a Piombino una guerra che non li riguarda. Il valido commento sonoro di Giulio Bonnard, drammatico quanto basta e tuttavia non esente da momenti leggeri,
aggiunge un ulteriore elemento positivo a una pellicola nella quale l’eleganza degli interni, l’ottima scelta dei volti dei caratteristi e la verve ironica che innerva tutto quanto circonda la figura del viceré e dei suoi consiglieri, approdano a uno spettacolo completo e variegato, lontano dal drammone stucchevole come pure dal film marionettistico e banale.
Lo stile sostanzialmente operistico dell’intera operazione - ennesima conferma della continuità esistente tra melodramma e film negli anni quaranta - è anche il prodotto della netta derivazione della sceneggiatura da La muette de Portici di Daniel Auber (Parigi, 1828) uno dei più grandi successi del teatro lirico francese dell’Ottocento. Somiglianze e radicali differenze sono istruttive: nel libretto di Eugéne Scribe e German Delavigne - fantasioso quanto la narrazione di Bonnard e soci - si immagina il figlio del viceré seduttore pentito, innamorato della sua regale sposa (da quest’ultima perdonato) e un Masaniello inorridito dinanzi ai massacri della rivolta; la ragazza di Portici è la muta del titolo e nel finale tragico, tipico dell’opera romantica, sia Masaniello, sia la protagonista muoiono. Mancano pertanto l’ottimismo di Bonnard, l’esaltazione del popolo e la sua finale parificazione all’universo dei potenti mediante le nozze tra il figlio del viceré e l’umile fanciulla di Portici.
Nei suoi impliciti significati il film di Bonnard appare, insomma, una dei primi fiduciosi moniti dell’era bellica: esso sembra voler dire che il popolo deve affrontare un breve sanguinoso conflitto se vuole approdare a più
alti destini. Purtroppo l’incontrollabile tragedia mondiale - del tutto svincolata dai semplicistici schemi che governano il mondo dello spettacolo - si dirigerà verso risultati ben diversi.
testo scritto nel 2009; ultimo aggiornamento: ott. 2017
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