Il sole di Montecassino, Un giorno nella vita e Il testimone

Il sole di Montecassino, Un giorno nella vita e Il testimone: con i denari del Vaticano (1946)
 

              "Cosa vuole, per me i comunisti sono come la scarlattina. Un male meno grave del cancro, ma sempre un male. Sono come i preti: una cosa a parte, gente con cui è meglio non discutere"
              Germi, intervista per l'Espresso (1963)

Sebbene non finanziato direttamente dal Vaticano, il film d’esordio di Giuseppe Maria Scotese, Il sole di Montecassino (settembre 1945; 90 min.) si colloca in modo fermo e inequivoco nella corrente cinematografica filocattolica che si è sviluppata fin dagli inizi del decennio (si veda quanto affermato a proposito de I promessi sposi, 1941, di Camerini) e che guarda alle gerarchie clericali come a una preziosa àncora di salvataggio alla quale aggrapparsi nel difficile periodo della ricostruzione.
Giuseppe Maria Scotese, nato a Monteprandone (Ascoli Piceno, 1916), dopo aver studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia, firma il proprio esordio alla regia con questo film sulla storia del monachesimo .
La pellicola racconta la biografia di San Benedetto, adottando uno stile severo e didattico, nonché calando questa rievocazione nel contesto di un’Italia per l‘ennesima volta distrutta da nuovi “barbari”. Il titolo secondario del film, San Benedetto dominatore dei barbari, è assai più esplicito al riguardo. Il racconto, sceneggiato dallo stesso Scotese con il cattolico Diego Fabbri, Mario Monicelli e altri, inizia proprio con le immagini dell’Abbazia di Montecassino colpita a morte dai bombardieri angloamericani (15 febbraio 1944, circa 230 morti; atto di inutile crudeltà contro il quale invano si era speso il Pontefice, chiedendo agli Alleati di risparmiare quell’antico monumento della Cristianità) mentre la povera gente fugge come può, chiedendosi come mai Dio abbia dimentcato di proteggere quel sacro luogo. Per tutta risposta un sacerdote racconta le vicende biografiche di Benedetto d Norcia (480-547), proprio per dimostrare che l’Italia è stata, in ogni tempo, preda di differenti orde barbariche alle quali la santità di Benedetto, dei suoi monaci e della sua Regola ha dato una risposta duratura, capace di contrastare le peggiori avversità.
Benedetto (un intenso Fosco Giachetti), nobile umbro, colpito a Roma dalla dolorosa miseria in cui versa la maggior parte del popolo, abbandona la propria propria esistenza privilegiata e va a vivere in uno speco nei dintorni di Subiaco. La sua scelta eremitica e la sua saggezza lo rendono popolare e i monaci corrotti di Vicovaro lo eleggono loro abate, sperando di potersi servire del suo luminoso esempio. In realtà, poco dopo, non riuscendo ad adeguarsi alla dirittura morale di Benedetto, tentano di avvelenarlo. L’abate li abbandona e torna al proprio eremitaggio. Dopo aver portato pace e concordia nelle popolazioni locali, fonda una serie di conventi nella zona del fiume Aniene e poi, intorno al 530, si trasferisce a Montecassino per portarvi la sua opera di cristianizzazione.
Qui si trova a dover affrontare il barbaro Zalla, capo dei Goti, il quale è deciso a sottomettere i nuovi venuti e a trattarli come schiavi. Dopo un aspro combattimento, che ha visto perire la quasi totalità dei seguaci di Benedetto, quest’ultimo affronta solo lo scellerato Zalla e lo converte, operando un miracolo. Ora la comunità di Montecassino potrà vivere e prosperare tranquilla.
Mentre tutte le vicende biografiche fino all’arrivo a Cassino rispecchiano la tradizione (che poggia largamente sui Dialoghi, 593, di papa Gregorio Magno, ammiratore nonché primo biografo del santo), il lungo episodio finale di Zalla è di mera invenzione e fonde l’evento veritiero della visita a Benedetto di Totila (543), capo degli Ostrogoti, con il celebre gesto di Leone Magno che intimorisce e ferma Attila alle porte di Roma.
Il senso complessivo del film - ingiustamente dimenticato come tanti lavori del periodo, non allineati con i dogmi “neorealisti” - ribadisce la grandezza di Roma, della sua cultura pacificatrice, generata essenzialmente dal suo essere divenuta la città cardine del cristianesimo, ne ricorda l’afflato universale e protesta apertamente contro le distruzioni attuate nella penisola da angloamericani e tedeschi, entrambi, in qualche modo, discendenti degli antichi Goti (tra l’altro l’abbazia era già stata distrutta una prima volta nel 577, dall’intervento dei Longobardi). Anche la biografia di Benedetto si svolge in un’epoca di guerre brutali (quella delle numerose invasioni babariche, nonché della guerra greco-gotica del 535-553) alle quali contrappone la capacità di cercare sempre la via della conciliazione, della comprensione reciproca e del mutuo soccorso. Ricordando il provocatorio scempio del bombardamento dell’Abbazia, il lavoro contesta in modo aperto e coraggioso gli eccessi dei nuovi vincitori (il film esce esattamente un mese dopo le tragedie atomiche di Hiroshima e Nagasaki), rincuora gli Italiani e ammonisce i combattenti di ogni fazione.
Scotese sceglie una scrittura semplice ed essenziale, nella quale risalta la severa mimica del protagonista; trova inoltre volti idonei a evocare un passato tanto distante e pone grande attenzione al contenuto didascalico dei dialoghi. Se lo stile filmico non è particolarmente raffinato (le inquadrature sono piuttosto sciatte, il montaggio è meramente funzionale e i movimenti d macchina quasi assenti), va invece lodata la bella colonna sonora di Giovanni Fusco, ricca di accenti patetici e solenni, di colte rivisitazioni dei canti gregoriani nonché particolarmente inventiva nei tumultuosi episodi finali per i quali utilizza il tema medievale del Dies Irae sottoponendolo a una serie di variazioni.

Nell'estate 1943 Blasetti deve interrompere la lavorazione del dramma Nessuno torna indietro (le vicende romane di sette ragazze che hanno da poco terminati gli studi presso un istituto di suore), film che termina faticosamente nel 1945. Il cineasta, nonostante fosse stato uno dei registi piu' emblematici del regime, riesce a continuare a lavorare nel periodo 1945-50 grazie alla casa di produzione cattolica Orbis che aveva esordito con la desichiana Porta del cielo. Un giorno nella vita (117 min) racconta la difficile coabitazione tra un gruppo di partigiani rifugiatisi dentro le mura di un convento di clausura e le suore che lo abitano. I due eterogenei gruppi di persone fraternizzano durante la lunga permanenza in un sotterraneo ove si sono rifugiati a causa di un bombardamento aereo. Nel finale l'irruzione dei nazisti nel convento provoca la catastrofe: resi furibondi dalla scoperta che le suore hanno dato asilo ai partigiani, nonche' dalla morte di uno dei loro commilitoni avvenuta all'interno del luogo sacro, sterminano le povere donne prima di venire a loro volta uccisi dai partigiani. Il triste spettacolo finale e' contemplato anche dagli inglesi appena giunti.
Blasetti e i suoi sceneggiatori (tra cui Zavattini e Fabbri) celebrano la nuova alleanza tra la chiesa e le forze democratiche del CLN (De Gasperi e' al governo dal dicembre '45), futura classe dirigente della repubblica mentre il nemico assume i colori dello stereotipo truce dei soldati nazisti. I fascisti, non a caso, sono assenti in questa pellicola; al contrario Amedeo Nazzari, il tipico eroe del cinema fascista (lo si e' visto anche in esempi recenti come Bengasi del 1942) riesce sfrontatamente a riciclarsi come capopartigiano, divenendo (parallelamente allo stesso Blasetti che avrebbe fatto meglio a evitare la tematica politica) l'ennesimo esempio del trasformismo di un popolo, pronto a scaricare l'intero peso della sconfitta su una ristretta cerchia di gerarchi, quando non sul solo Mussolini e a proclamarsi sorprendentemente estraneo alle vicende del ventennio. I fascisti sono scomparsi dalla scena poiche' si sono tramutati in combattenti della liberta', al fianco degli angloamericani celebrati ora (dopo le recenti, ostili raffigurazioni in Un pilota ritorna e ancora in Bengasi) come popolo portatore della vera, auspicata civilta' democratica.
Lo stile della pellicola e' anonimo e incolore, ostacolato da tipi umani stereotipati e grevi; solo nel drammatico finale la mdp di Blasetti sembra trovare qualche momento di sincera intensita'. La lieve e originale semplicita' di 4 passi tra le nuvole non riesce a manifestarsi tra le anguste mura del convento.

La pellicola si compone di quattro parti. Nella prima un gruppo di partigiani (uno di loro è ferito) si nasconde in un convento di clausura, mettendo in imbarazzo le suore, mentre fuori infuriano i combattimenti. La descrizione del gruppo maschile ripete gli accenti di festoso cameratismo con il quale si era soliti descrivere i combattenti del regime (si pensi ai film di De Robertis e Rossellini). Poco cambia: qualche generica frase di lode (ammirazione per la ricca cultura inglese e biasimo per l'incoscienza di un'Italia povera che si è arrischiata a sfidare una simile potenza) cerca di motivare il nuovo atteggiamento italiano, successivo all'otto settembre.
La seconda parte racconta l'operazione chirurgica necessaria a salvare la gamba di Monotti, il partigiano ferito. Chi opera è un americano, figura fraterna e gioviale, che fa parte del gruppo combattente. La lettura simbolica e' palese: gli USA curano e salvano un'Italia malata e ciò è reso possibile dal rifugio accogliente del convento, ovvero del Papato destinato a ereditare questa nazione allo sbando. Blasetti celebra a suo modo la triplice "santa" alleanza: USA-Chiesa-CLN (ovvero nuova partitocrazia).
In questo episodio Blasetti inserisce un mediocre intreccio melodrammatico: Monotti è nientemeno che l'assassino che uccise, dieci anni prima, il marito della madre superiora del convento, causandone la crisi spirituale e la scelta cristiana. Questi incontri inverosimili (si veda anche La nave bianca e Marinai senza stelle) sono un portato del melodramma e risultano quanto mai artificiosi all'interno della pretesa realistica insita nell'essenza stessa del racconto filmico.
La terza parte vede stringersi ulteriormente l' "alleanza" tra partigiani e suore: a sorpresa i primi si recano in chiesa a pregare; nel sotterraneo, dove tutti si sono rifugiati a causa di un bombardamento aereo, le seconde abbandonano il rigido atteggiamento claustrale e collaborano con gli uomini a liberare l'accesso al sotterraneo bloccato dalle esplosioni.
L'ultima parte è la piu' drammatica ed anche l'unica a contenere immagini incisive: la lotta in chiesa tra il partigiano e il tedesco; la sofferta morte di quest'ultimo che ringrazia le stupefatte suore che ne raccolgono le parole estreme; l'irruzione della bestialità nazista e l'orrenda strage sono pagine scritte con dura essenzialità da Blasetti e culminano nella splendida immagine dell'unica suora superstite che, traumatizzata, chiude il cancello di un convento svuotato e distrutto: nel suo sguardo folle c'è l'unico accento di verita' del film ovvero l'apolitico orrore per la guerra e per le sue crudeli mostruosità.

Pietro Germi nasce a Genova il 14 settembre 1914 in una famiglia modesta (il padre Giovanni era portiere in un albergo). Dopo aver frequentato l'Istituto Nautico per allievi ufficiali nei primi anni trenta, si interessa al cinema dalla meta' del decennio: scrive racconti, sceneggiature e si iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia (1938), abbandonando cosi' Genova per Roma. Durante la guerra lavora come aiuto regista per Blasetti e per Palermi.
Nei 1945 la casa di produzione cattolica Orbis vuole acquistare da Germi il soggetto de Il testimone (94 min.) e, vista l'insistenza dell'autore, finisce per affidargliene anche la regia. Il film, sceneggiato tra gli altri da Diego Fabbri e Cesare Zavattini, esce nelle prime settimane del 1946 e si colloca al di fuori del prevalente cinema storico-politico detto "neorealismo"; Germi, prendendo spunto dal cinema noir americano e francese, opta per un giallo nel quale i riferimenti alla difficile situazione che il paese sta attraversando sono quasi inesistenti. Questo aspetto eterogeneo rispetto alla totalità dei film d'autore del periodo pone fin d'ora il regista genovese in una posizione di isolamento alla quale egli stesso contribuisce dichiarandosi "socialdemocratico" e tutt'altro che simpatizzante per l'egemone (almeno in ambito culturale) cultura socialcomunista.
Il pregevole esordio di Germi propone due fatti nuovi nel cinema italiano: l'apparizione del male quotidiano nella sua semplice, inescusabile realtà e la predilezione per uno stile narrativo conciso e sofisticato, ripreso dalla piu sviluppata cinematografia americana. Il personaggio di Pietro, rapinatore e all'occasione assassino, seppure in definitiva abbastanza ovvio, esplode sugli schermi italiani come un vera scoperta. I cineasti della penisola stanno "traslocando" da un'ideologia all'altra, dalla disciplina fascista al moralismo marxista; per entrambe tali visioni del mondo la criminalita' pura non esiste: non andava mostrata nel "perfetto" universo civile redento dalla rivoluzione fascista; esiste ma come semplice effetto delle ineguaglianze sociali nel cosiddetto "neorealismo" postbellico in via di definizione. Il personale stesso della cinematografia italiana (si pensi a De Sica, Rossellini, Vergano, Nazzari, Calamai ecc.) testimoniava il passaggio "indolore", quasi miracoloso, dalla prima concezione alla seconda, visioni assai distanti, accomunate pero dal medesimo carattere illusorio e falsificazionista. Germi, personaggio scorbutico e testardo, manda i giochi all'aria e finalmente descrive un "semplice" criminale, un individuo votato al male, come ce ne sono migliaia, privo delle usurate scusanti socioeconomiche (quelle che giustificano ad esempio i rapinatori di Caccia tragica di De Santis, 1947). Neanche l'inconsueta e inverosimile coppia assassina di Ossessione, circondata da un'aura di letteraria stanchezza esistenziale e ritratta come in un grande melodramma lirico, puo' essere considerata un precedente. Inoltre Pietro viene descritto come parte di una sorta di pittoresca comunita dedita al crimine (sequenza della festa a casa del protagonista), composta da gente poco raccomandabile che non pare proprio essere il frutto dell'ingiustizia sociale, tanto meno poi delle miserie postbelliche poiche' questo gruppo di "seri" professionisti sembra praticare il furto da sempre, in ossequio ad una propria naturale inclinazione (le pistole vengono infatti definite "ferri del mestiere"). Insomma il cinema di Germi introduce la figura del vero criminale, dell'individuo che ha fatto dell'illegalita' la propria scelta di vita, figura ben nota ad esempio nel cinema nero americano o nel cinema (inglese prima, hollywoodiano poi) di Hitchcock (tra l'altro Il testimone possiede curiose somiglianze con Suspicion [1941]), ma pressoche' inedita nel contesto filmico italiano. A Pietro si oppone la commovente purezza dell'anziano Giuseppe, il testimone, e perfino di Linda, giovane sbandata, con i quali il protagonista è costretto a fare i conti. Nella pellicola del nuovo autore i personaggi sono completamente responsabili dei loro atti, nel bene e nel male: ritorna in scena la coscienza individuale e la reale varietà degli uomini, finalmente sciolta dalla inflazionata contrapposizione di fascisti e partigiani quali interpreti unici del male e del bene. Non a caso il fondale del film di Germi e' completamente privo di riferimenti sia alla guerra mondiale, sia alla guerra civile, seguendo un atteggiamento che, nel contesto culturale di quegli anni, non poteva non apparire isolato e perfino polemico nella sua radicalita'. L'Italia de Il testimone e' una nazione priva di coordinate spazio-temporali precise (la citta' in cui l'azione si svolge rimane senza nome).
La seconda novita è costituita dalla sicurezza di una scrittura che, pur con qualche compiacimento di troppo, è finalizzata a valorizzare anzitutto l'intreccio e ad approfondire le sfumature psicologiche, evitando le lungaggini "neorealiste", gli esterni documentaristici, gli attori presi dalla strada, spesso goffi nell'intonazione delle battute quando non completamente incapaci di recitare. Germi, regista diplomato, mostra di aver assorbito la serietà professionale del cinema americano e di saper usare i movimenti di macchina, le soggettive, la fotografia fortemente contrastata e quasi espressionista, artifici tutti posti al sevizio di una narrazione che riesce quindi efficace e coinvolgente dalla prima all'ultima immagine.

Il film si articola in tre parti: il processo, la vicenda sentimentale, la ricomparsa del testimone. Germi inizia il racconto laddove in genere esso termina: in un'aula di tribunale, con il protagonista sottoposto a giudizio per un omicidio lasciato "fuori campo". E' una scelta originale che immerge la narrazione nell'ambiguita: il testimone riconosce nell'imputato l'uomo che usciva dalla casa dove è stato commesso un omicidio, ma poi ci ripensa e, alle soglie dell'esecuzione (in Italia c'e' ancora la pena di morte; verrà abolita nell'aprile 1947 per effetto dell'articolo 27 della Costituzione), l'uomo viene assolto e rimesso in libertà. Cosi nella prima e nella seconda parte lo spettatore viene lasciato nel dubbio intorno alla probabile colpevolezza di Pietro, incertezza che perdura fin quasi alla fine, allorché il testimone capisce il suo errore: in quel frangente, temendo di finire nuovamente in galera, Pietro decide di recarsi a casa di Giuseppe per ucciderlo; solo allora appare evidente che egli è veramente colpevole dei fatti per i quali è stato processato. Tuttavia fin dall'inizio la maschera dura e come segnata da un freddo cinismo ci dice che quest'uomo è un criminale incallito e lo è perche tale è la sua natura: Germi non nutre dubbi al riguardo e in definitiva lascia ben poco spazio all'ambiguità e al "sospetto" (sebbene in direzione opposta lo stesso accadeva in Suspicion di Hitchcock ove il volto radioso di Cary Grant ci assicurava fin dall'inizio che in quel caso eravamo di fronte a un innocente). Tale impressione viene rafforzata dalla sequenza della "festa dei ladri" (nella terza parte) nella quale il regista ha modo di allineare un'efficace galleria di volti miserabili e inquietanti, sorta di amplificazione della mimica sinistra di  Pietro.
In fondo Il testimone è una storia di volti: a quallo arcigno e scostante del protagonista si oppone quello quasi angelico di Giuseppe, l'uomo buono e ragionevole, nonché integerrimo servitore della giustizia: appena in lui sorge un dubbio (artificiosamente causato dalla manomissione del suo orologio ad opera dello squallido avvocato del criminale) intorno alla colpevolezza dell'uomo che sta praticamente mandando al patibolo, egli si affretta a discolparlo. Quando poi capisce di essere stato giocato cerca di porvi rimedio ma la morte sopraggiunge improvvisa e gli impedisce di agire nuovamente: in quel suo "tramontare" (in una malinconica sequenza Giuseppe riflette con Linda intorno alla sua prossima fine) compare una nota amara intorno alla rarità e inattualità. delle sue qualita morali. Anche la serena figura femminile, che porta il didascalico nome di Linda, contrasta con lo sguardo duro di Pietro, la cui finale redenzione, per quanto abbastanza forzata e subitanea (conclusione necessaria in un film finanziato da denaro cattolico), può considerarsi l'esito di un rimorso che ha silenziosamente perseguitato Pietro fino a modificarne il carattere: la bontà del testimone e l'amore della giovane finiscono con l'influire sul personaggio. In ogni caso il breve edificante epilogo (insieme alla mediocre, melensa colonna sonora) rimane la cosa piu debole della notevole pellicola.
La seconda parte inizia con Pietro che strappa la cameriera Linda alla sua penosa situazione di sottomissione (forse anche sessuale) al suo datore di lavoro attraverso una vera prova di forza. Se ne deduce che l'universo maschile è regolato dalla legge del piu forte anche tra la gente misera e che anche sotto tale aspetto il disincantato realismo di Germi lascia ogni illusoria visione solidaristica alle pellicole "neorealiste". All'interno dell'intermezzo sentimentale, accanto a un grossolano uso dei trasparenti (episodio della gita in barca) va segnalata la bella sequenza in cui prende corpo una riflessione "cosmologica" venata di scetticismo: i due giovani contemplano smarriti il numero infinito di stelle, illuminando per contrasto la pochezza delle cose umane; anche tale breve tratto rafforza la fredda e antiideologica visione del cineasta, ne' pare inutile ricordare che Antonioni utilizzerà il medesimo tipo di argomentazioni scettico-cosmologiche per terminare il suo Identificazione di una donna (1982). La concitata decisione di sposarsi e cambiare citta, che occupa la conclusione della seconda parte, mostra l'affacciarsi nella mente del protagonista del desiderio di modificare radicalmente il corso della propria esistenza. Ma l'inattesa ricomparsa del testimone inchioda nuovamente Pietro alle sue responsabilita.
Un'atmosfera kafkiana innerva l'intera terza parte, con l'ossessiva presenza di Giuseppe che trasforma l'esistenza del criminale in un incubo come dimostra soprattutto la bella sequenza del ritorno in tribunale dove Pietro teme di essere nuovamente arrestato, mentre al contrario deve solo ritirare il suo "certificato" di innocenza. Il protagonista cerca dapprima di evitare il servizievole Giuseppe, poi si sente perseguitato da quest'ultimo (incisiva la sequenza notturna ed espressionista nella quale Pietro si crede sorvegliato dal testimone) ed infine, di fronte al pericolo di perdere tutto (la liberta e la donna che ama), decide di ucciderlo: la sua vera, ineludibile natura riprende il sopravvento prima del repentino e in definitiva poco credibile ravvedimento conclusivo.