Uomini contro: una carneficina inspiegabile (1970)
"Ottolenghi: <Avanti, sempre avanti, fino a Roma. Là è il gran quartiere generale nemico... Nella rivoluzione,
io vedo il progresso del popolo e di tutti gli oppressi. Nella guerra, non v'è niente altro che strage inutile>". (Lussu, Un anno sull'altipiano)
Nel settembre 1970 Francesco Rosi presenta alla Panoramica veneziana Uomini contro, trascrizione in immagini delle memorie di Emilio Lussu Un anno sull'altipiano. Il giovane Lussu era stato nel
1914-15 un interventista democratico; la sua dura esperienza militare in qualità di tenente nella guerra di trincea combattuta sull'altipiano di Asiago per la conquista di Monte Fior nel 1916 lo aveva francamente disilluso sul
valore patriottico della guerra. Tuttavia aveva atteso vent'anni prima di consegnare alla pagina scritta i ricordi bellici e lo aveva fatto dal suo esilio parigino, soprattutto su sollecitazione di Salvemini. L'uomo politico
sardo negli anni venti si era opposto all'ascesa del fascismo ed era stato confinato a Lipari da dove era fuggito nel 1929. Riparato a Parigi era stato con i fratelli Rosselli tra i fondatori del gruppo massonico antifascista
di Giustizia e Libertà. In fondo la decisione di scrivere queste memorie (edite a Parigi presso le Edizioni Italiane di Cultura nel 1938 e poi in Italia a guerra finita presso Einaudi nel 1945) faceva sempre parte dell'azione
di propaganda contro il regime mussoliniano: mentre quest'ultimo aveva decretato la mitizzazione della Grande Guerra quale quarta guerra d'indipendenza e necessaria conclusione del Risorgimento, il testo di Lussu, mostrando
l'inettitudine e il sadismo della dirigenza militare, nonché il profondo disinteresse della truppa e del popolo arruolato a forza per quell'impresa, cercava di scardinare l'orgoglioso impianto nazionalista presente in un'Italia
divenuta da poco addirittura Impero. In seguito Lussu sarà ministro nel governo Parri (1945) e poi senatore nelle file socialiste fino alla morte (1975). Rosi, nella sua onesta e noiosa trascrizione in immagini, non inventa
quasi nulla. Si limita semmai a spostare qualche dialogo,
ad attribuire qualche gesto del sottotenente Ottolenghi (Gian Maria Volonté) al sottotenente Sassu (Mark Frechette; il nome trasforma quello di Lussu), ad esempio il tentativo di far ammazzare l'odiato generale Leone (Alain Cuny) alla feritoia 14, e infine a far morire i due principali protagonisti laddove nel testo Ottolenghi veniva solo ferito e Sassu/Lussu ovviamente sopravviveva. La scrittura adotta un taglio quasi documentaristico con una fotografia che tende al bianco e nero, organizzando una galleria di episodi tutti molto simili e interscambiabili. Rimanendo aderente alla cronaca dello scrittore, Rosi non costruisce alcuna trama, affastella una serie di attacchi militari sull'altipiano tutti atrocemente simili, causa di montagne di inutili cadaveri, generando una sensazione di angoscia e di desolazione. Gli unici momenti lirici appartengono all'invenzione del cineasta: la sequenza della morte di Ottolenghi che, allorché vede il gesto di pietà dei soldati austriaci che urlano "Basta! bravi soldati. Non fatevi ammazzare così ", ritiene giunto il momento per tentare l'insurrezione contro le proprie linee ma viene subito fulminato dai colpi delle proprie retrovie; la tetra sequenza conclusiva della fucilazione del protagonista, di notevole bellezza figurativa (una conclusione ove appare evidente l'influenza del capolavoro kubrickiano Paths of Glory,
1957, pellicola che tratta un argomento simile seppure da un differente e quasi opposto punto di vista poiché nel cineasta americano la visione complessiva degli eventi risulta cinica e priva di umanitarismo). Il problema di Uomini contro,
come del libro di Lussu, è la mancanza di ogni riflessione sulle cause, sugli interessi delle crudeli elite politiche anglo-franco-italiane decise a smantellare ad ogni costo gli Imperi centrali e sulla presunta necessità di
questa guerra. In fondo se il generale Leone non fosse lo psicopatico che è, se la dirigenza militare utilizzasse con più oculatezza le proprie forze umane ed evitasse di abusare dello strumento disumano della decimazione, il
film non avrebbe ragion d'essere. Tutto si riduce a una certamente grave ma anche inerte accusa di incompetenza rivolta ai vertici dell'esercito, la qual cosa limita l'interesse di una pellicola girata senza vera ispirazione e
senza alcun serio approfondimento storico. Né la tenue visione classista che cerca di imporre l'idea marxiana di un esercito italiano attraversato da un'interna lotta di classe, appare risolutiva e realmente illuminante. Certo
Ottolenghi, il personaggio chiave, interpreta l'esigenza condivisa dall'autore e all'epoca da buona parte della sinistra rivoluzionaria, di sfruttare il disordine e le miserie causate dalla guerra per costruire su di esse una
svolta rivoluzionaria; ma tutto ciò, nella tragedia europea appena iniziata (e destinata a durare per tre decenni), rimane un aspetto locale e secondario. Dall'autore di Salvatore Giuliano era lecito attendersi di più.
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