La conquista dell’aria, Gli ultimi della strada, L’ebbrezza del cielo, Piccolo alpino, Uomini sul fondo e La nave bianca: rassicurazioni "tecniche" (1941)
Il documentario La conquista dell’aria
(gen. 1940; 75 min.), diretto da Romolo Marcellini riprendendo, in parte, l’omonimo documentario inglese di Zoltan Korda e altri (1936) commissionato dal governo britannico, racconta la grande avventura umana che, a partire dalle fantasie speculative di Leonardo da Vinci, ha portato la civiltà a impadronirsi dei cieli.
Il regista ricrea interi episodi con l’ausilio di alcuni attori (Andrea Checchi, Carlo Ninchi), mentre altrove utilizza immagini di repertorio. Si parte dalle avventure francesi dei fratelli Montgolfier della seconda metà
del Settecento, si passa agli studi di Otto Lilienthal nella seconda metà dell’Ottocento, per poi arrivare ai fratelli Wright che, nel North Carolina, effettuano il primo vero e proprio volo (1903). Appare evidente che, dopo
tanti palloni volanti, è l’invenzione del motore a scoppio a dare finalmente la possibilità all’uomo di sollevarsi stabilmente da terra. La pellicola racconta poi le felici ed infelici avventure degli Zeppelin tedeschi ed
infine il progresso entusiasmante degli aeroplani, da piccoli monoposti ad enormi quadrimotori capaci di collegare i continenti. Le principali figure aviatorie (da Lindbergh a Balbo) vengono ricordate e spesso mostrate in
preziosi filmati d’epoca; il film termina lodando i nuovi caccia inglesi... In Italia esiste una forte corrente politica filoinglese che cerca, in ogni modo, di frenare l’alleanza nazifascista voluta da Mussolini e la
successiva entrata in guerra. Figura di primo piano è in tal senso Dino Grandi, non a caso autore del celebre ordine del giorno del 25 luglio 1943. Questa insolita e quasi incredibile pellicola filoinglese, distribuita nelle
sale nei primi giorni del fatidico 1940, appare come uno degli ultimi tentativi propagandistici volti a frenare l’ala filotedesca del regime: non solo il film non rassicura per nulla il popolo italiano; al contrario ricorda che
l’aviazione è stata, per lo più, una creazione angloamericana; che in tale campo i nsotri futuri nemici sono assai potenti e minacciosi mentre la partecipazione italiana alla conquista dell’aria è liquidata nelle poche immagini
dedicate a D’Annunzio (su Vienna), Balbo (la trasvolata del 1933) e ai caccia Caproni. Insomma un film tutt’altro che tranquillizzante, in cui numerosi sono gli insoliti appelli pacifisti (totalmente in conflitto con l’egemone
pensiero bellicista del regime) e la critica aperta all’utilizzo dell’aviazione come terribile arma capace di distruggere dal cielo intere città. La critica, alquanto imbarazzata, si limita a parlare di pellicola “didattica”
che ricostruisce un episodio fondamentale della storia dell’umanità, cercando di non vedere l’afflato universalista e, a tratti, perfino massonico (l’esultanza per il progoresso scientifico dell’umanità intesa come un tutto
unitario e non come singole nazioni/etnie in conflitto) che sembra far capolino da quasi ogni immagine. La conquista dell’aria, preparato nei mesi della cosiddetta “non belligeranza” italiana, non tranquillizza affatto riguardo alla preparazione militare dei nostri aerei; al contrario, in una fase storica delicata in cui sembra ancora possibile sciogliersi dal mortale abbraccio tedesco, il film, a suo modo, invita gli Italiani a evitare l’entrata in guerra contro gli angloamericani, ricordando la loro netta e minacciosa superiorità aviatoria.
Infine appare decisamente straordinaio il vorticoso cammino che, in meno di quattro decenni, porta l’umanità dalle prime macchine rudimentali e pittoresche dei Wright ai mastodontici quadrimotori capaci di collegare i
continenti; questa spettacolo non può non rafforzare lo strano e unico caso della (presunta direbbero gli scettici) “conquista dello spazio”
dove ad un analoga accelerazione iniziale (l’arrivo sulla luna nel 1969, in soli dieci anni) fa seguito uno stallo totale nei cinque decenni successivi; ed ora quando si accenna timidamente a possibili missioni lunari (appare chiaro che si tratta di un argomento imbarazzante) si precisa che ci vorranno non meno di cinque anni di preparazione...
Domenico Paolella, originario di Foggia (n. 1915), dopo essersi distinto nei Littoriali del 1935-37 con una serie di cortometraggi, si avvia verso una brillante carriera di documentarista e di autore di
cineattualità. Sarà principalmente questa la sua attività nel periodo 1938-50 durante il quale si registra un’unica incursione nel film di finzione con Gli ultimi della strada
(marzo 1940; 80 min.), non a caso un’opera di propaganda per il regime, appena mascherata dietro un’esilissima e pretestuosa trama. Il fascismo aveva ampiamente ristrutturato il volto di numerose città, a cominciare da
quello della capitale; altre ne aveva create ex novo (Littoria, Sabaudia, Aprilia ecc.). Mussolini, attento a tutto ciò che era immagine, seguiva con la massima attenzione l’evolvere di uno stile architettonico del fascismo -
in larga parte affidato alla supervisione di Marcello Piacentini - in cui confluivano elementi della tradizione antica, “imperiale” e rinascimentale insieme, con elementi del moderno razionalismo europeo. Gli interessanti e
spesso sorprendenti esiti, tuttora sotto i nostri occhi nei centri urbani di decine di grandi città italiane (da Roma a Milano, da Varese a Como, da Torino a Brescia, da Piacenza a Cremona, da Bari a Taranto ecc.), sono però
largamente sottovalutati anche perché le “autorevoli” guide del Touring Club italiano (chissà perché un nome inglese per il massimo ente italiano di documentazione territoriale) denigrano sistematicamente questi episodi di
storia dell’architettura e dell’urbanistica della penisola. Si è trattato invece, a tutt’oggi, dell’ultima stagione organicamente creativa in tale settore poi confluito - con poche eccezioni - entro i moduli di un anonimo
razionalismo europeo e internazionale. Ogni progresso però ha un costo: nel campo della creazione architettonica e urbanistica questo consiste nella sistematica demolizione di centinaia di edifici, in genere vecchi e
fatiscenti, che occupano i quartieri che vengono ridisegnati. E con la scomparsa degli edifici si apre lo scottante problema di offrire nuove e adeguate sistemazioni ai loro abitanti. Il film di Paolella parla proprio di questo
argomento: racconta le necessarie demolizioni in alcuni quartieri napoletani e descrive l’opposizione goliardica che un gruppo di scugnizzi (piccoli truffatori che vivono alla giornata in orribili catapecchie) pone in atto
contro il processo di modernizzazione. Alla loro testa si colloca nientemeno che un’affascinante ragazza (Orietta Fiume) la quale si trova presto al centro di una girandola di spasimanti ovvero un magnaccia, un ex compagno di
borgata e un elegante ingegnere (Roberto Villa) addetto alle ristrutturazioni il quale, guarda caso, un tempo viveva nelle borgate. Da quella misera realtà egli però aveva saputo risollevarsi, divenendo un brillante tecnico
dello stato secondo un percorso umano giudicato esemplare dal regime (da emarginato a ingranaggio utile della comunità, entro la classica logica corporativa fissata nella Carta del lavoro del 1927). La trama è quindi
inesistente, il ritratto della giovane totalmente inverosimile e buona parte del film girato in interni cinematografici di stampo teatrale che ne annullano qualunque pretesa forza realistica. Lo stesso autore parlerà in seguito
di “film piccolo-borghese temendo”. Ciò che tuttavia interessa è il cammino che vi si traccia: il regime non esita a consentire la messa in scena di una realtà miserabile e sporca, fatta di ladri e papponi, a patto di chiarire
che questa è la situazione che il fascismo ha trovato al proprio arrivo e che, con tenace determinazione, ha cercato drasticamente di cambiare (come dimostra la biografia dell’ingegnere) per offrire anche a quelle realtà
sociali arretrate appartamenti nuovi e dignitosi (quelli dello stato, costruiti apposta per i lavoratori meno abbienti). Così gli scugnizzi vengono totli dalla strada e accolti in un corso per marinai (presto si imbarcheranno,
proprio per andare a combattere... ), vengono perciò “redenti” e alla loro esistenza disordinata viene dato finalmente un senso organico e definito (almeno nelle intenzioni della “religione” fascista) mentre la ragazza capisce
i propri errori, si mette a lavorare e - come dubitarlo - si innamora dell’ingegnere. Insomma il regime rassicura gli Italiani: tutto procede per il meglio e anche coloro che hanno dovuto subire il disagio dello sfollamento
forzoso, sono stati poi ampiamente ripagati dal fatto di trovarsi a vivere in realtà sociali meglio organizzate. Ventitré anni dopo Francesco Rosi - nel ben noto Le mani sulla città (1963) - tornerà sull’argomento: lo speculatore Eduardo Nottola (Rod Steiger) farà lo stesso discorso del fascismo (demolizioni forzate e case moderne per i ceti popolari) ma la logica dell’autore napoletano si collocherà agli antipodi: il cinico costruttore Nottola rappresenta la “notte” della civiltà, gli sgomberi sono eventi traumatici, ordinati dalla speculazone privata mentre gli “ultimi della strada” hanno diritto di rimanere tali.
Rassicurazioni “tecniche” vengono fornite anche nel secondo lungometraggio di Giorgio Ferroni, L’ebbrezza del cielo
(mar. 1940; 90 min.). Vi si raccontano le scapestrate avventure di un gruppo di giovani (Mario Giannini, Fausto Guerzoni) di Asiago i quali, agli inizi degli anni trenta, si accaniscono in tentativi di volo umano. In un clima goliardico e sereno le provano tutte: si gettano da un campanile con una sorta di paracadute, si innalzano con una mongolfiera, imitano gli uccelli dotandosi di ali fatte in casa ed infine costruiscono, aiutati da un vero pilota (Mario Ferrari), un piccolo aliante che nelle ultime imamgini, finalmente, volerà. Nell’epilogo vediamo il protagonista che guida un vero aliante con una divisa da pilota: tanta gioiosa fatica solo e unicamente per servire la patria in guerra.
La tediosa pellicola, popolata da personaggi fasulli, da un entusiasmo retorico e da avventure tranquillizzante dove, come in un cartone animato per ragazzi, nessuno si fa mai male, esamina la passione di questi giovani per
una dimensione che oltrapassi il quotidiano e spinga gli individui verso la conquista di nuovi orizzonti. Queste attività, totalmente affidate all’ingegno maschile (le donne, in una salda logica patriarcale, assistono,
spaventate, dalle finestre di casa), non hanno tanto un obiettivo poetico (la visione del paesino dall’alto, il sollevarsi dalla grigia quotidianità) bensì soprattutto patriottico e militare poichè la significativa conclusione
mostra il protagonista volare in uniforme mentre a terra, gli amici sposati escono da una chiesa con il loro figlioletto ovvero l’arma militare aviatoria protegge la nazione e la prosecuzione della stirpe. L’ottica è dunque
nazionalistica e inerente alla presunta superiorità degli Italiani la cui passione per le invenzione e la cui indiscutibile abnegazione (il gruppo di giovani è come ossessionato dal volo, non si occupa d’altro) sono
qualità di un popolo destinato a un luminoso avvenire. O meglio questo è il messaggio di propaganda implicito nel mediocre raccontino (ampiamente lodato dalla critica coeva). Purtroppo, come sappiamo, le cose andranno in
tutt’altro modo e sarà un miracolo per gli Italiani avere, alla fine del conflitto bellico, almeno conservato quei paesaggi urbani
(come quello che si ammira nel film) e quelle bellezze architettoniche di enorme valore artistico che rendono unica l’Italia. Il merito è, tuttavia, soprattutto del Vaticano la cui attività pacifista (iniziata nel 1939), in sintonia con gli Alleati, contribuì a salvare la penisola da una distruzione simile a quella che si abbattè su Germnania e Giappone. I film di propaganda bellica come questo di Ferroni, invece, contribuirono stoltamente a illudere il popolo italiano riguardo alle proprie capacità e ai propri mezzi.
E’ interessante confrontare L’ebbrezza del cielo con il pregevole Anche gli uccelli uccidono (1970) di Robert Altman. Trent’anni dopo il grande regista americano racconta una storia simile (quasi certamente senza conoscere il film di Ferroni): un giocondo, simpatico hippy vuole disperatamente tentare di volare non per realizzare imprese popolari o nazionalistiche, bensì per lasciarsi alle spalle un universo cinico e consumista che non comprende. Al primo tentativo si schianterà al suolo tra le risa di una platea crudele e ottusa. Un abisso separa le due pellicole che trattano il medesimo argomento: nell’America del Watergate e del Vietnam non esiste alcun sentimento collettivo, nè alcuna missione eroica da compiere; vi è solo un poetico disgusto per le miserie umane e il tentativo, totalmente individuale, di distaccarsi da esse. Il film di Altman, che fu un inatteso flop commerciale, esprime al meglio lo spirito scettico e libertario della cultura del ’68 ovvero quell’elogio della fuga già presente ne Il laureato (1967) e Easy rider (1969).
Oreste Biancoli, nato a Bologna nel 1897, autore di commedie leggere per il palcoscenico negli anni trenta e quaranta, firma nel medesimo periodo un’imponente quantità di sceneggiature (lo si è citato a
proposito della Gerla di papà Martin). Dal 1937 si cimenta anche in una sporadica attività di regista (nove film in quindici anni). Il suo Piccolo alpino
(ottobre 1940; 90 min.), ispirato all’omonimo romanzo (1926) di Salvator Gotta, è tra le prime pellicole di propaganda bellica esplicita e non celata entro cornici storiche di comodo, appartenenti a un passato remoto. Essa è infatti ambientata durante gli anni della prima guerra mondiale e racconta la storia “ricattatoria” di un padre e di un figlio (Ellio Sannangelo) che si perdono durante un’escursione alpinistica a causa di una bufera. Entrambi si salvano ed entrambi credono l’altro morto. Il ragazzo si rifiuta di tornare in città e si unisce a un corpo di alpini, va al fronte e dà prova di eroismo e dedizione alla causa. Viene perfino catturato e lo ritroviamo in un collegio austriaco dove intona canti patriottici davanti a una platea scandalizzata. Nel gioioso finale padre e figlio si ritrovano, a guerra finita, nei giorni subito successivi alla battaglia di Vittorio Veneto.
Girato con una tecnica ordinaria, recitato in modo accettabile ma imperniato su situazioni disperatamente artificiose, la pellicola si segnala per la completa insincerità e per l’uso estremistico di tutte le stoltezze
sentimentali volte a suscitare la commozione, l’amor patrio e l’entusiasmo per le grandi imprese. La guerra si riduce a un’avventura quasi da ragazzi (in tal senso il film vorrebbe essere rassicurante, ma è troppo inverosimile
perchè possa essere preso sul serio e quindi fallisce l’evidente obiettivo propagandistico); c’è qualche morto ma occupa poche, marginali immagini; per il resto la figura del piccolo alpino che boicotta la scuola, i compagni,
la tranquilla vita cittadina a lui confacente per andare a fare il soldato a dodici anni, è quanto di più deprecabile il cinema di regime potesse cavare dal suo cilindro, in quanto strumentalizza la dolce esuberanza della
fanciullezza per ammantare di candore la sanguinosa e avventurista scelta bellica. Di ben altra onestà e tempra saranno innervati i sobri film fascisti di De Robertis e Rossellini, a partire dall’anno successivo (vedi).
D’altro canto la pellicola - pur ambientata sui monti veneti e sul Piave - non può mostrare apertamente il nemico austriaco, non può dipingerlo coi colori più truci (come da secoli accade in questo genere di testi demagogici -
letterari, teatrali o cinematografici la sotanza non muta) poiché quel nemico di ieri è l’innaturale e pericoloso alleato di oggi. Dunque gli alpini sparano, resistono, combattono stoicamente contro un nemico fantasma che si
cela dietro le vette oppure ha i tratti legnosi (ma non troppo) dei dirigenti austriaci del collegio tedesco, dove è trattenuto il piccolo alpino. Il film di Biancoli esce nell’infausto ottobre 1940 cosicché mentre il
grande, ingenuo pubblico cerca di dar credito a queste zuccherose, patriottiche fandonie e prova a immaginare di essere (anche questa volta) dalla parte giusta e motivata del conflitto, deve altresì confrontarsi con la
sciagurata, delirante e inutile aggressione alla Grecia che mostra, fin dall’inizio, tutto il velleitarismo e l’impreparazione della macchina bellica fascista. La situazione africana langue in uno stallo incomprensibile e la
dirigenza del regime cerca “facili” vittorie nei Balcani, commettendo come sempre gravissimi errori di valutazione delle forze nemiche. Non si può immaginare una dissonanza più aspra tra le immagini fiduciose di Biancoli e la
cruda, frustrante realtà bellica dell’avventura greca.
L'esordio di De Robertis (San Marco in Lamis, [Foggia], 1902), un ufficiale di marina "prestato" al cinema, avviene con una pellicola di carattere semidocumentaristico, Uomini sul fondo (98
min.), promossa dal ministero della Marina. Essa non tratta direttamente della guerra ma ne parla implicitamente. La vicenda del sommergibile A103, bloccato sul fondo dopo un banale incidente e salvato con una spettacolare
azione di soccorso che coinvolge navi ed aerei, nonche' con il concorso eroico del suo stesso equipaggio, pronto ad ogni sacrificio nel tentativo di recuperare anche il prezioso mezzo navale, racconta (e auspica) soprattutto
un'atmosfera, quella della serena collaborazione di tutti, marinai, ufficiale e perfino famiglie a casa, sostenuta dall'orgoglio di una marina tecnologicamente agguerrita e sicura. Uomini sul fondo anziche' fomentare nel
popolo atteggiamenti bellicosi, preferisce rassicurarlo: nulla di grave puo' accadere all'Italia, poiche' il suo esercito e' preparato ad ogni evenienza. Il ministero conosce bene l'atteggiamento italiano sostanzialmente
scettico e pacifista, attento al proprio "particolare" e alla propria autoconservazione piu' che alle conquiste imperiali, e dunque esso punta a minimizzare: la guerra (poiche' di questo si parla tra le righe, pur
raccontando una semplice esercitazione) e' un'avventura necessaria alla quale siamo ampiamente preparati. Anche la necessita' del sacrificio (la morte di un marinaio nel finale) e' appena accennata, posta quasi tra parentesi,
esorcizzata; tuttavia ad essa si fa riferimento nella didascalia finale: essa e' il prezzo di sangue da pagare per assicurarsi il "Mare Nostrum". Questa propaganda tranquillizzante svolge un ruolo non secondario,
tanto piu' in quei primi mesi del 1941, dopo i disastri di Taranto (affondamento delle navi nel porto, novembre '40), la fallimentare campagna di Grecia (iniziata precipitosamente il 28-10-40, con un esercito ancora
impreparato), la perdita della Cirenaica (dicembre '40) e di Mogadiscio (febbraio '41), il bombardamento dal mare di Genova (febbraio '41) e soprattutto la tragedia navale di Matapan (marzo '41). Il paese e' smarrito: non solo
in Libia l'esercito italiano perde posizioni nel confronto con gli inglesi, ma addirittura la piccola Grecia mette in ginocchio l'Italia, potenza europea e coloniale. Inizia da questi eventi il fatale e incontrovertibile
distacco degli italiani dal regime fascista.
La pellicola utilizza attori non professionisti (marinai e ufficiali "autentici") ed e' una narrazione corale e semidocumentaristica.
Rispetto alla produzione prevalente negli anni trenta, estremamente artificiosa sia nelle commedie popolari (autore principale Camerini), sia nei polpettoni storico-patriottici (autore principale Blasetti), si affaccia un nuovo
realismo, piu' sobrio e verosimile. L'ideologia, ovvialmente, attraversa ogni immagine del film di De Robertis, ma lo fa con piu' discrezione, senza troppa, fastidiosa enfasi. Questo modesto film segna una svolta epocale nel
cinema italiano (il celebrato "neorealismo" postbellico in realta' incomincia qui per cio' che riguarda il tipo di scrittura), quasi che la societa', resasi conto di essere a un momento decisivo della sua
storia, decidesse anche nel racconto filmico di accantonare le sciocchezze favolistiche per passare ad occuparsi della realta' in corso. Il nuovo, maturo realismo invita tutti a un maggiore impegno, a un porre in atto quel
senso di comunione nazionale tanto propagandata dal regime e che ora affronta, per la prima volta, la dura prova dei fatti. In ogni caso, sobrio realismo a parte, la pellicola e' intrisa di ideali nazionalisti e
conservatori. Gli uomini affrontano la guerra come un rito gioioso, uniti e determinati, consci del loro dovere di fronte alla nazione; le donne, angeli del focolare, attendono ansiose ai cancelli o ascoltano apprensive le
notizie alla radio mentre si prendono cura di simpatici marmocchi. Appena saputo dell'incidente al sommergibile 103, la mobilitazione e' totale: un imponente spiegamento aeronavale si precipita in aiuto, mentre gli equipaggi
danno prova di abnegazione e generosita'. Questo quadro idilliaco e irreale (si pensi solamente alle tragiche inadeguatezze, per non dir peggio, che segnano il disastro di Matapan) tocca il proprio acme nell'improbabile
telefonata della madre al figlio imprigionato nella nave sul fondo. Il clima di fattiva collaborazione e' uno dei due grandi protagonisti del film: esso svolge la funzione di incitare all'operosita' come di rassicurare il
popolo intorno alla competenza della sua marina e in fondo alla sostanziale sicurezza delle sue navi. Tutto cio' culmina nella solenne sequenza finale: il sommergibile alla fine riemerge tra l'acclamazione generale dei marinai,
acclamazione appena smorzata dalla bandiera a mezz'asta che commemora il giovane morto. In questo finale, degno del teatro lirico (si vedra' che la componente melodrammatica e' un elemento essenziale del cinema italiano), De
Robertis celebra la religione laica della comunione nazionale, ideale di mazziniana memoria esaltato dalla propaganda fascista fin dagli anni venti. Ne' puo' mancare in esso l'immagine di una didascalia mussoliniana ("Sono
fiero di voi"), richiamo al padre buono di quella comunione di sangue lanciata alla meritata conquista del "Mare Nostrum". Il secondo grande tema del film e' la tecnica. Sommergibili, navi e aerei vengono
descritti con palese compiacimento per il livello di avanzamento tecnico che esprimono. "Ascensori" cilindrici che collegano le navi con il sommergibile sul fondo, telefonate da un canotto alla base operativa,
palombari che riparano in tempi record lo squarcio della nave e le "ridanno vita": l'ammirazione per la tecnica, vera protagonista di un film costruito (e faticosamente dilatato) su un unico evento, e' il secondo
motivo propagandistico, volto a rassicurare un'opinione pubblica impaurita dagli eventi e ora titubante intorno a un regime per lungo tempo accettato anche con entusiasmo. Ma anche intorno al progresso tecnico molte sono le
obiezioni, a cominciare dai miopi ostacoli (ancora per non dir peggio, addentrandoci nella sinistra polemica intorno a una marina che sembrava non voler combattere e che sara' accusata di segreti accordi di natura massonica con
il nemico inglese) opposti al lavoro di ricerca dell'ingegner Tiberio che in quei mesi cerco' inutilmente di concretizzare il radar, la cui presenza avrebbe salvato migliaia di vite a Matapan. In definitiva De Robertis dipinge
una comunione di popolo, tecnicamente agguerrita, pronta alle sfide piu' alte; e lo fa con accenti sobri, mostrando il volto di gente comune, felice di essere coinvolta in una "sacra" missione. L'ambiguita' del cinema
e' qui tutta presente: esso mente, sotto le spoglie del rigoroso documentario. In tal senso Uomini sul fondo anticipa tutta la poetica neorealista, nella quale l'accurata verosiglianza nasconde l'ideologia.
Nato a Roma l'8 maggio 1906, Roberto Rossellini realizza i primi cortometraggi tra il 1936 e il 1941 e collabora ad alcune sceneggiature tra le quali quella di Luciano Serra pilota (Alessandrini, 1938).
Nel settembre '41, alla Mostra di Venezia viene presentato il secondo film del Centro Cinematografico del Ministero della Marina, La nave bianca (83 min.). Come per le anonime messe gregoriane medievali, anche questo
film si presenta come un'opera collettiva, senza autori; i nomi di Rossellini (regista) e De Robertis (sceneggiatore e supervisore) non compaiono negli essenziali titoli di testa e di coda: sacerdoti della religione laica della
nazione, essi danno il loro contributo, evitando il peccato d'orgoglio di firmare l'opera; servitori dello stato, scompaiono nel gioioso sforzo corale. Nell'autunno di quell'infelice 1941 la situazione bellica e'
decisamente migliorata sia nella Grecia ora occupata, sia in Libia, grazie all'intervento dell'alleato tedesco; ciononostante, con l'apertura del gigantesco fronte russo (operazione Barbarossa, giugno '41) ogni speranza di una
guerra breve va scemando. La pellicola d'esordio di Rossellini continua l'opera di rassicurazione dell'opinione pubblica, celebrando nella prima parte la forza della marina e nella seconda le amorevoli cure dedicate ai feriti
sulla nave ospedale. Film corale, recitato ancora da marinai e ufficiali autentici, perfeziona la poetica ad un tempo realistica e patriottica di Uomini sul fondo, ravvivandola con un soggetto piu' articolato. In
particolare esso illustra quell'uomo nuovo e guerriero, conscio del proprio compito "imperiale", un modello umano che Mussolini cercava di imporre, in polemica con una certa cultura liberale, borghese e pacifista
interna al regime, soprattutto a partire dall'impresa etiopica. Contro al materialsmo individualista del capitale, il duce, influenzato anche da letture evoliane, accentuava l'ideale di una nuova civilta' italiana animata da un
senso collettivo e dinamico, fondato sulla semplicita' generosa degli strati piu' popolari e avviata alle piu' alte mete all'interno degli ormai instabili equilibri europei. Le elucubrazioni posteriori della critica per
"salvare" Rossellini, futuro cantore "neorealista", dall'accusa di adesione al fascismo sono patetiche: nel 1940-3 non esisteva alcun antifascismo, ne' alcuna resistenza piu' o meno criptica; esisteva al
massimo un atteggiamento indifferente e intimorito, una "zona grigia" alla quale certamente non appartenevano i due fieri "sacerdoti" della nazione Robertis e Rossellini, le cui opere costituivano un fattivo
contributo allo sforzo bellico, seppur indirizzati piu' a tranquillizzare che a fomentare l'odio contro il nemico.
Nella prima parte (navi in mare, battaglia, soccorso ai feriti) ritroviamo quel
tono corale festoso che segnava Uomini sul fondo: i marinai affrontano la guerra come un'avventura eroica ed elettrizzante, animati da un granitico spirito di corpo nel quale il singolo scompare e si annulla. L'uomo
"nuovo", ardito guerriero, tanto propagandato dal fascismo, trova in queste figurine schematiche una perfetta esemplificazione, rafforzata dall'uso di volti comuni. Le scene di battaglia sono efficaci grazie al
montaggio veloce e all'accurata ambientazione all'interno di un grande cacciatorpediniere; esse puntano a illustrare l'estrema complessita' di una manovra bellica, lo sforzo collettivo che la rende possibile, il sofisticato
livello tecnologico delle macchine (la sequenza del caricamento dei cannoni), con finalita' duplici, didattiche e rassicuranti (ne' puo' mancare il riferimento al "padre" buono e lontano attraverso la solita
didascalia mussoliniana, come in Uomini sul fondo). La musica, firmata dal fratello del regista, Renzo Rossellini (gia' autore di numerose composizioni orchestrali e cameristiche, e' l'unico nome a comparire, nei titoli di coda), sottolinea con forza gli eventi attraverso un leitmotiv marziale,
destinato a celebrare l'imponente presenza delle navi da guerra. Nella colonna sonora compare cosi' la cultura musicale italiana al suo livello piu' alto: Renzo Rossellini comporra' le colonne sonore di quasi tutti i film del
fratello. La seconda parte, ambientata sulla nave ospedale Arno, racconta un breve incontro amoroso, enfatizzato da un vibrante leitmotiv musicale. Durante la quieta e piacevole convalescenza dei marinai, curati con
le piu' solerti attenzioni, viene inserita una cerimonia religiosa che termina con un saluto al re e al duce: in essa gli autori ricordano i tre poteri italiani, nell'ordine la corona (alla quale faceva riferimento appunto la
marina), il fascismo e il Papato. Il film culmina nella "mistica" visione del cacciatorpediniere: di fronte ad essa l'accennata vicenda amorosa, la presenza femminile, la sofferenza, tutto viene messo tra parentesi
mentre il richiamo del dovere patriottico e del naturale istinto combattivo del gruppo prevale; lo stesso
accade nel discorso musicale posto a commento della solenne sequenza conclusiva: il tema sentimentale si trasforma gradualmente in quello "militare". Insomma ancora un grande, enfatico finale d'opera, come in Uomini sul fondo.
Il sobrio realismo e il fuorviante taglio documentaristico della Nave bianca celebrano in realta' l'uomo nuovo mussoliniano e la religione laica della nazione.
testo scritto nel 2003; ultimo aggiornamento: ott.2017
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